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Opinioni / Il bluff dell’Inps sulla la tracciabilità dei voucher lavoro

Dopo oltre un anno di immissione nel mercato, l’istituto di previdenza e il ministero si accorgono, parzialmente, dei limiti dello scontrino che autorizza al lavoro nero e solleva dalle responsabilità il padrone. L’analisi di Lavoro Insubordinato.

19 Aprile 2016 - 09:21

Di Lavoro Insubordinato da ∫connessioni precarie

voucherDa qualche giorno in Italia è allarme voucher! Sembra che INPS e ministero del Lavoro si siano accorti del problema posto dall’utilizzo smisurato dei voucher, i «buoni» nati per regolare i rapporti di lavoro accessorio, ma diventati ormai la nuova frontiera del lavoro precario. Entrati sulla scena come strumenti limitati a poche tipologie di lavoro (quello domestico in primis), a colpi di piccole modifiche normative, dalla Fornero in avanti sono diventati gli indiscussi protagonisti della precarizzazione. Flessibili e discrezionali, i voucher sono il sogno del padrone della nuova era. Il voucher è il nudo faccia a faccia col padrone. Niente contratto, niente assunzione, nessun limite di orario, nessun controllo: il datore di lavoro ha la totale discrezionalità e l’ultima parola su tutto, tempi e modalità di chiamata.

Perciò con il Jobs Act si è deciso di investire sui voucher, facendo salire il tetto massimo di guadagno annuale da 5000 a 7000 euro. Ora, preso da improvviso rimorso, il governo scopre che l’utilizzo dei voucher apre le porte a tutta una serie di abusi. I buoni lavoro, non è certo un mistero, sono infatti una sorta di zona grigia del lavoro, una perfetta copertura legale del lavoro nero. Veniamo ai dati incriminati che spingerebbero all’azione i nostri zelanti enti di controllo: la maggior parte dei lavoratori-voucher ha percepito nel 2015 un salario annuo che va dai 500 ai 700 euro, per la maggior parte si tratta di lavoratrici, di giovani sotto i 25 anni e di pensionati e solo una minima percentuale del totale è riuscita a percepire almeno 5000 euro. D’altra parte, la maggior parte dei lavoratori voucher risulta non avere un altro impiego. A parte i casi, come quello dei pensionati, in cui il lavoro- voucher può valere come integrazione di una miserrima pensione, non è difficile comprendere, posto che non si campa d’aria, che una parte della retribuzione viene elargita in nero. In caso di ispezione o di infortunio basta attivare il voucher per quell’ora e tutto come per magia torna a essere regolare. La regolarità nell’era precaria è una questione formale che viene risolta in modo informale, a spese dei lavoratori.

Per contrastare questo abuso, la nuova misura introdotta dal governo è la tracciabilità dei voucher, attraverso la telematizzazione nominale e tramite la comunicazione dei dati relativi a luogo e data al momento dell’attivazione. In altre parole, all’attivazione dei voucher il datore deve comunicare il nome di chi lavorerà per lui, dove e in che giorno. Poletti ha affermato che è necessario stringere i bulloni della macchina voucher, ma qui più stringi e più si allenta, considerando che i diritti dei lavoratori, che creavano il necessario attrito, sono stati trasformati in mere tutele da concedere al lavoratore in condizioni estreme. È come se, mentre scaliamo a mani nude e senza imbracature la parete liscia della precarietà, qualcuno dall’alto ci lanciasse un caschetto o peggio un ombrellino. La tracciabilità dei voucher rientra nella logica dell’ombrellino: gli enti di controllo esistenti difficilmente possono rendere effettiva la tracciabilità, è una precauzione puramente formale perché inattuabile concretamente. L’ente dovrebbe infatti esercitare un continuo controllo in loco per verificare il rapporto tra voucher venduti e ore di lavoro effettive e non sembra essere uno scenario verosimile. Anche perché, una volta inseriti davvero controlli di questo tipo, la convenienza del voucher verrebbe meno: uno dei pilastri del Jobs Act distrutto così da qualche zelante controllore?

D’altra parte, a chiamare l’ispezione potrebbe essere direttamente il lavoratore-voucher. Se lo facesse, però, non verrebbe più chiamato e saremmo al punto di partenza. In un contesto di elevatissima mobilità, ricattabilità e maltrattamenti di vario genere la chiamatina all’ispettore per segnalare il datore di lavoro, in effetti, potrebbe pure dare qualche soddisfazione, ma non scalfirebbe in ogni caso il principio secondo cui si può essere comprati e buttati quando serve, che non ha niente a che fare con gli abusi dei voucher, ma con il loro normalissimo e legalissimo funzionamento. Questo fatto sfugge comprensibilmente al governo: il voucher legalizza un meccanismo per cui il lavoratore deve essere disponibile just in time, quando serve, assecondando i picchi e i cali di produzione o il corso delle stagioni, come nel settore dell’agricoltura in cui l’utilizzo dei voucher è elevatissimo.

Nell’inesausto tentativo di proporre modelli di ricomposizione sociale c’è chi ha parlato di un nuovo «popolo dei voucher» che merita di essere riconosciuto. Il mondo dei voucher però non è un mondo di facili ricomposizioni. Di certo è un fenomeno di massa e c’è sì una misura comune, uno scambio tempo-denaro che va oltre le distinzioni tra tipi di lavoro, categorie, qualificazione. Eppure le condizioni di lavoro e salariali dipendono dal rapporto compiutamente individuale e informale tra datore di lavoro e lavoratore. La corrispondenza tra un’ora di lavoro e un voucher, che pure viene riaffermata a parole con la nuova tracciabilità, è nei fatti consegnata alla discrezionalità del datore di lavoro. La mobilità da un lavoro-voucher a un altro, mentre può significare il prendersi la possibilità di non stare a certe condizioni, non consente di lavorare a lungo con gli stessi colleghi, per cui è difficile organizzarsi e anche solo riconoscersi. Ciò che dovrebbe unire questo presunto «popolo», una modalità di reclutamento e pagamento del lavoro, non può bastare a fronteggiare quei rapporti di forza che dettano legge al di sotto delle normative e al di là delle forme di retribuzione. Per organizzarsi e per riconquistare potere, si tratta di capire come sia possibile trasformare quella mobilità in una pratica di insubordinazione di massa, affinché non resti solo una risorsa individuale di sottrazione allo sfruttamento.