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Opinioni / Geopolitica delle lotte

Ripubblichiamo l’ultimo editoriale di Uninomade: “Dentro tutte le lotte, dagli indignados alle primavere mediterranee, si esprime una ricchezza del comune, dell’intelligenza collettiva”, tale da “indicare una autentica exit strategy fondata sul rifiuto dell’appello ai sacrifici”

20 Giugno 2012 - 16:56

1. La frattura dello spazio europeo. Tutti in cerca della exit strategy. Il ritmo delle trasformazioni si accelera, e, allo stesso tempo, rompe qualsiasi linearità: la governance finanziaria appare sempre più un complesso di dispositivi frammentati, di tentativi di stabilizzazione che puntualmente finiscono per riaffermare la turbolenza costitutiva della crisi. Dentro questo quadro, la tentazione di accettare un semplice ruolo di cartografi della crisi, di archivisti della complessità del presente, potrebbe farsi molto forte. La “frammentazione”, la “complessità” sono dati indiscutibili del nostro presente: il rischio però è che si trasformino in mantra incantatori sia per le pratiche teoriche, sia per le lotte. L’accortezza di chi sa di muoversi su una lastra sottilissima deve perciò sposarsi, non senza una certa audacia, a un tentativo di sguardo più lungo, all’individuazione delle linee di frattura dentro le quali le lotte si muovono, alla sperimentazione dei dispositivi di ricomposizione possibili, all’elaborazione di proposte programmatiche.

Le recenti tornate elettorali in Francia, Grecia, Germania e Italia ci consegnano elementi di riflessione e problemi aperti. Primo dato: la pretesa egemonica del “modello tedesco” e l’assunzione indiscussa delle politiche d’austerity come fondamento delle politiche europee ne escono fortemente incrinate. Questo fatto di fondo, anche dentro tutta la complessità e le contraddizioni che il quadro manifesta, va ribadito, crediamo, anche dopo l’esito del voto greco. La vittoria di una fragile coalizione conservatori-socialisti, vittoria di misura e dentro un quadro di pressione internazionale e mediatica che si è spinto sino al grottesco del dipingere i nazional-conservatori ellenici come esempio fulgido di europeismo e rigore economico, non può nascondere l’avanzata, anche sul piano elettorale, di forze che assumono come terreno la sfida per un spazio europeo radicalmente altro rispetto a quello disegnato dalla governance finanziaria. E lo sanno gli stessi attori di quella governance: non a caso, dopo aver stappato, quasi ad esorcizzare la grande paura che devono aver avvertito, qualche bottiglia di troppo al grido “la Grecia ha scelto!”, sono tornati presto a scrivere timidi quanto accorati appelli alla cancelliera tedesca affinché “non tiri troppo la corda”. Il quadro complessivo non butta affatto bene per gli integralisti del modello tedesco: le elezioni ci consegnano un Hollande che mette in crisi il patto franco-tedesco, la Merkel stessa indebolita sul fronte interno, mentre in Italia Pdl e Lega mostrano la corda senza che a guadagnarne sia il Pd. A questo panorama in sommovimento, la risposta di una parte almeno dell’establishment è stata intonare un accorato appello alla “crescita”. Bene: possiamo prendere atto che la fase in cui l’austerity si poneva come parola d’ordine univoca, ferocemente ripetuta, è data per conclusa da alcuni dei suoi stessi sostenitori. L’idea che la crescita fosse una sorta di effetto “obbligato” delle politiche di rigore, il premio per le politiche di attacco al welfare, di tagli ai salari, di precarizzazione ulteriore dei rapporti di lavoro, comincia ad essere archiviata. Nessun rimpianto, ovviamente.

Il risultato, però, è la forse ancora tendenziale, ma difficilmente rimediabile, frattura dello spazio europeo. Gli appelli alla crescita non sono altro che un modo rassicurante e “moderato” di dichiarare l’insostenibilità dell’architettura europea incentrata sul “modello tedesco”: quel modello che sulla compresenza di alta produttività, bassi salari e tagli all’assistenza si era fondato e che si era proposto, attraverso l’adozione del Fiscal Compact, come norma fondamentale dell’assetto materiale europeo, arrivando persino a imporre, con l’adozione del pareggio di bilancio, modalità e tempi forzati per l’adeguamento delle stesse costituzioni formali europee. Questo tentativo, in tempi anche più rapidi di quello che si poteva immaginare, in quanto tentativo di affermazione egemonica sull’intero spazio europeo, è in crisi conclamata. Intendiamoci: non c’è evidentemente da sperare nelle risorse delle socialdemocrazie europee, incapaci da lunghissimo tempo di ragionare su alternative rispetto alla forza del capitale finanziario. Ma sarebbe miopia politica imperdonabile non assumere immediatamente questo dato di fatto: ci stiamo già ora muovendo dentro una frattura storica del modello sul quale le istituzioni dell’Unione europea si sono costituite. Già in un precedente editoriale, individuavamo la necessità di “riprenderci l’Europa”, l’urgenza dell’apertura di una dimensione europea delle lotte: tanto più questa urgenza si manifesta ora, quando anche il tentativo di “rivoluzione dall’alto”, imposto dalla Germania con l’adozione del fiscal compact, ha mostrato la sua impotenza e ha finito per accelerare il processo di destrutturazione delle istituzioni europee.

Ogni nostalgia sovranista sarebbe a questo punto imperdonabile. Il “Global May” dei movimenti è stato forte, ma soprattutto ha dimostrato, almeno potenzialmente, dimensioni, modalità e linguaggi decisamente transnazionali: mentre in Italia – se si eccettua l’ormai radicata lotta No Tav – stentano a profilarsi percorsi ricompositivi delle disseminate forme di conflittualità sociale, dalla Spagna al Nord America scioperi sociali, occupy e rivolte studentesche rafforzano le linee di tendenza già identificate. Blockupy di Francoforte, poi, rappresenta un importante squarcio nel presunto eccezionalismo della Germania nella crisi, che dal piano istituzionale si è finora riflesso su quello dei movimenti, tanto da far riproporre ai militanti tedeschi i cliché della solidarietà internazionalista nei confronti, questa volta, delle lotte del sud Europa. E tuttavia, è ancora difficile dire se l’assedio alla Bce sia il primo passo verso un piano comune di iniziativa politica e non, invece, l’ultima tappa del ciclo dei controvertici. O forse, più realisticamente e in modo positivamente contraddittorio, è entrambe le cose, e starà alla forza delle lotte europee e transnazionali dare una risposta sul breve e medio periodo.

Quello che è certo, è che quel divario che, nonostante queste potenzialità, ancora sussiste tra la frammentazione “nazionale” delle lotte e l’ampiezza dello spazio geopolitico delle trasformazioni va posto con determinazione nell’agenda dei movimenti: né può essere colmato, come alcuni aspetti delle giornate di Francoforte hanno lasciato ancora intravedere, da un semplice ricorso a una sorta di “solidarietà” internazionalista con i paesi della fascia “più debole”. Ma soprattutto, emerge nuovamente e con sempre più decisione, la straordinaria rilevanza del Mediterraneo, della sua radicale asimmetria rispetto alle ordinate “spazialità” dettate dalla governance europea. Se, infatti, come tutto lascia prevedere, la frattura tra l’Europa “tedesca” e quella “mediterranea” è destinata ad allargarsi, sta ai movimenti costruire una vera e propria “geopolitica delle lotte”, che assume il Mediterraneo come snodo fondamentale per una ridefinizione radicale dello spazio europeo. La costruzione dell’exit strategy “europea” dei movimenti torna a richiedere, dunque, l’identificazione urgente delle modalità di connessione con le lotte egiziane e siriane. Il Mediterraneo è ora luogo della ricomposizione della lotta di classe contro i fondamentalismi e gli establishment militari: nel tramonto delle architetture istituzionali della vecchia Unione Europea, ogni possibile reinvenzione dello spazio politico europeo passa esattamente attraverso la capacità di far risuonare fra le sponde mediterranee quelle lotte. Primo punto, quindi: frattura della vecchia Europa contro una nuova “immaginazione geografica” dettata dalle lotte.

2. La ricchezza delle lotte, il welfare del comune. Ma le lotte ci dicono anche molte cose sulla stessa questione della crescita. Occorre evidentemente cautela nell’assimilare troppo rapidamente lotte che si muovono in contesti molto differenti: l’eterogeneità, lo abbiamo rilevato spesso, è parte costitutiva delle lotte, così come è dato inaggirabile delle soggettività in campo e, in generale, del lavoro vivo oggi. Ma un dato di fondo che unifica le lotte degli Occupy a quelle delle sponde mediterranee va ancora ribadito: si tratta di lotte che esprimono tutta la ricchezza attuale e la forza della cooperazione sociale. Le politiche di austerity hanno prodotto disperazione, tristezza, una “decrescita” decisamente infelice, come notava giorni fa Christian Marazzi: ma dentro tutte le lotte, dagli indignados alle primavere mediterranee, si esprime al contrario una ricchezza del comune, dell’intelligenza collettiva, che balza chiarissima persino all’osservazione sociologica dei profili di chi anima le strade, le occupazioni, gli esperimenti di resistenza ma anche di riappropriazione che si muovono nella crisi. Pezzi di ceto medio in via di rapida proletarizzazione si incrociano, dentro questi movimenti, dentro le varie forme dell’occupy, con un proletariato privo di prospettive di mobilità sociale: e l’incontro nei movimenti strappa i primi alla difesa identitaria della cultura e della creatività, i secondi al rischio del nichilismo “no future”, con il risultato di liberare dall’isolamento settoriale e da ogni depressione da crisi, e di permettere la manifestazione della forza di questa pur eterogenea nuova composizione. Il comune è in fondo questo incontro, certo non liscio e privo di conflitti, è questa lingua nuova che permette di esprimersi liberamente se – per usare le parole di Marx – ci muoviamo in essa senza reminiscenze, dimenticando la lingua d’origine

É precisamente, allora, questa ricchezza del comune ad indicare una autentica exit strategy fondata sul rifiuto dell’appello ai sacrifici: le lotte, proprio nel loro radicarsi in un tessuto produttivo così denso e articolato, incarnano un’autentica “critica dell’economia politica”, una critica evidente di quel postulato di “scarsità” che ha guidato la triste scienza dell’economia liberale e che riemerge continuamente nelle retoriche penitenziali, anche di sinistra. A questa ricchezza resta irrimediabilmente sorda anche la ripresa “socialdemocratica” del discorso sulla “crescita”, che al massimo riesce a spingersi verso qualche timido rilancio della necessità della programmazione statuale. Ogni rilancio della “crescita” oggi deve invece fare i conti esattamente su questa altra sempre più evidente frattura, tra la forza della cooperazione sociale e l’impoverimento prodotto dai dispositivi finanziari di cattura del comune. Ogni ipotesi socialdemocratica o keynesiana si trova intrappolata nell’insolubile contraddizione tra i tempi brevi dei mercati finanziari e i tempi medio-lunghi di uscita dall’austerity. Il nodo è come riappropriarsi dei tempi della soggettivazione, come permettere alla forza di questa composizione di mordere direttamente sul terreno politico, anche utilizzando e allargando gli spiragli e gli interstizi che nell’immediato i programmi anti-neoliberisti offrono o promettono.

Lo spazio che si apre nella crisi del modello “tedesco” va perciò senza esitazioni occupato dall’assunzione del tema del welfare del comune, dal welfare che investe sulla capacità produttiva della cooperazione sociale. La reinvenzione dello spazio europeo sta insieme alla assunzione di questo terreno, che già anima le esperienze di lotta che si stanno manifestando – anche quelle, per esempio, che stanno caratterizzato in Italia, in quest’ultimo periodo, le esperienze di riappropriazioni di spazi (e di tempi) cui danno vita lavoratrici e lavoratori dello spettacolo e della cultura, e più, in generale, tutta l’esperienza dei movimenti che si battono per l’accesso ai commons. Anche da questo punto di vista, l’urgenza sta nel superare l’evidente scarto tra la ricchezza cooperativa espressa dalle lotte e la loro frammentazione, con il rischio permanente di ricadute incapacitanti nel settoriale e nel corporativo: il terreno del welfare del comune, dal reddito di base all’accesso a risorse e servizi, è il terreno su cui le lotte possono oggi ricomporsi e, al tempo stesso, sfidare su un concretissimo terreno programmatico i timidi appelli alla “crescita” che affollano il campo della crisi.

3. O il comune o il risentimento. L’affermazione delle forze “populiste”, che è il secondo grande dato elettorale, accanto all’evidente crisi delle strategie fondate sul fondamentalismo dell’austerity, va evidentemente collocato a questo livello, in questa tensione tra forza della cooperazione, che si esprime nelle lotte, e l’immiserimento prodotto dalle strategie della governance finanziaria, con i rischi sempre in agguato di ricaduta delle soggettività che compongono quella ricchezza nell’isolamento corporativo o nel livore risentito, con le sue espressioni ideologiche giustizialiste o “meritocratiche”. Tralasciamo la vaghezza del termine “populismo” che, perse completamente le sue nobili radici storiche, non spiega fenomeni talora contrapposti e comunque irriducibili a matrice omogenea. Proviamo invece a rimettere sui piedi questi processi prendendo, a titolo di esempio e non perché rivesta una tendenziale centralità, il Movimento 5 stelle (e, sia detto per inciso, è ben altra cosa dal Fronte nazionale o Alba dorata). D’altro canto quando si sente puzza di unità nazionale, santificata dal “custode della costituzione” Napolitano, è sempre buona regola imboccare un’altra strada, e sostituire all’anatema il passo più lungo dell’inchiesta.

A poco serve incentrare la lettura sul personaggio-Grillo, e soffermarsi poco o nulla sulla composizione del M5s o di chi lo sostiene: tantomeno serve sollevare lo spauracchio dell’“anti-politica”, laddove la “preziosa” autonomia della politica, che dai barbari antipolitici andrebbe difesa, è ancora una volta quella dei partiti e della rappresentanza. Se rovesciamo il punto di osservazione, non è difficile vedere come – all’interno di un voto decisamente variegato ed eterogeneo, che raccoglie fughe da sinistra come da destra – nell’attivismo dei “5 stelle” incontriamo anche settori costituiti da giovani con alta scolarizzazione e che non trovano una corrispondenza tra titolo di studio e posizione all’interno del mercato del lavoro. In due parole, accanto a delusi di varia provenienza e ad acciaccati dalla crisi di diversa estrazione, in questi movimenti etichettati come “protestatari” o “neopopulisti” c’è sempre un’interessante presenza del precariato cognitivo soprattutto di prima generazione, ivi comprese porzioni di “auto-imprenditorialità” e lavoro autonomo che esperiscono duramente la fine delle promesse progressive del capitalismo cognitivo. Una parte è stufa o comunque non attratta dalla sinistra: buffone per buffone, votano quello nuovo al posto di quelli vecchi. Dentro la crisi strutturale della rappresentanza reagiscono ai processi di precarizzazione e declassamento appellandosi alla meritocrazia o esprimendo il rancore anti-casta.

Si può facilmente dimostrare come si tratti di mistificazione, oppure attaccare frontalmente Grillo e la sua urticante demagogia: è analiticamente corretto e, forse, risulterà anche utile mano a mano che il grillismo si farà governo. Ma il problema, con movimenti come il 5 stelle o il “partito dei pirati” europeo, che hanno a che fare con questa composizione sociale dentro la crisi, è innanzitutto comprendere che le loro ambiguità sono ambiguità significative della composizione sociale: nella crisi è urgente inventare dispositivi perché tale composizione si esprima sul terreno politico della riappropriazione del comune, piuttosto che limitarsi a deprecarne l’irresistibile tendenza a cadere nelle passioni tristi. Con quella composizione ci facciamo i conti a partire dall’Onda studentesca, quando era chiaro che abbandonando la forza di generalizzazione e ricompositiva del comune – magari per rifugiarsi nella difesa del “pubblico”, che per molti assume semplicemente il volto della casta istituzionale – si aprivano i buchi neri del giustizialismo, del risentimento e del “populismo viola”. Il punto politico che ancora una volta ci interessa è: come spingere una composizione non dissimile, o almeno parte di essa, che in Spagna o negli Stati Uniti scopre il comune con le acampadas e Occupy, ad attivare dispositivi analoghi anche dalle nostre parti, evitando di esaurirsi, tra qualche tempo, nel rancore o nella disperazione? E del resto, senza andare troppo lontano, in Val Susa gli attivisti “5 stelle” stanno dentro il movimento No Tav e ne portano avanti i discorsi egemonici: se portate sul terreno saldo di ricomposizione delle lotte offerto dal comune, le ambiguità possono sempre sciogliersi in modo felicemente imprevedibile.

Lo stesso allarme per l’avanzata dell’estrema destra lepenista e dei neo-nazisti greci non può far retrocedere sul terreno del frontismo, perché nella polarizzazione che la crisi determina è proprio quel terreno – segnato, ancora una volta, dall’alleanza delle rappresentanze – a consumarsi inesorabilmente. Non si tratta di ridimensionare il pericolo o abbassare la vigilanza, tutt’altro: il punto è che queste forze, nazionaliste e reazionarie, al pari dei veleni giustizialisti e meritocratici, si sconfiggono solo rilanciando in avanti, cioè sul piano europeo e dell’affermazione del comune. Ancora una volta, dalle lotte sembra emergere una almeno parziale inversione di rotta rispetto alla dissoluzione dell’Europa come soggetto politico. Le forze di sinistra, che riescono ad emergere anche elettoralmente, la sostengono o comunque ne assumono il terreno (è questo il caso di Syriza, in contrapposizione al Partito comunista greco). Qui, dunque, si riapre una possibilità per le lotte: si tratta di una condizione necessaria, non certo sufficiente. E non esclusivamente perché le forze che la contrastano, come ci ricorda l’ultimissima vicenda greca, sono molte e tutt’altro che sconfitte, ma soprattutto perché è solo la capacità di costruire una dimensione organizzativa comune che può consentire di conquistare lo spazio continentale dell’azione, ovvero di immaginare e praticare quella geopolitica dei movimenti che abbiamo già individuato come passaggio urgente e indispensabile.

4. La moneta del comune. Quindi: il comune, nella sua dimensione non sovranista e non statuale e, allo stesso tempo, come welfare del comune, come crescita radicata nella ricchezza della cooperazione sociale, è il terreno ricompositivo, e, insieme, l’exit strategy delle lotte. Strategia che investe, immediatamente, un terzo punto d’urgenza, quello della moneta. Istituzione principe dell’Europa che fu, rischia evidentemente di uscire con le ossa rotte dalla rottura del campo europeo. Ma anche qui, in estrema sintesi, la chiusura difensiva, la nostalgia per le monete nazionali, pur comprensibile in chiave di “resistenza”, non è il terreno che le lotte identificano, sia per la “potenziale” dimensione transnazionale che indicano, sia per la ricchezza sociale che esprimono. Una direzione di marcia però può essere tracciata: la questione della moneta sta tutta dentro la lotta sul welfare del comune. É la questione, che il fallimento dell’Euro come “misura” della governance finanziaria rende urgente, della riappropriazione della misura da parte della stessa cooperazione sociale. La “moneta comune” è, in questo senso, chiaramente alternativa sia alla moneta come espressione dell’accumulazione finanziaria, sia alla nostalgia per la moneta espressione del potere della sovranità nazionale. Un campo tutto da sperimentare, ma che può costituire un dispositivo potente contro la frammentazione delle lotte, e che potrebbe aprire uno spazio di invenzione teorica e programmatica, che connette il tema della moneta con quello di un’“altra” crescita, evitando che la questione monetaria finisca per essere declinata solo come individuazione di nuovi, del resto improbabili, meccanismi di stabilizzazione delle relazioni di scambio.

(da Uninomade)