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Opinioni / Febbraio 1992: la Bologna antifascista rifiuta il revisionismo di Nolte

Riceviamo da un lettore e, all’indomani del 25 aprile, pubblichiamo: 24 anni fa “l’occupazione dell’Aula Magna di Lettere contro una lezione dello storico revisionista fu un momento decisivo delle mobilitazioni antifasciste e antirazziste degli anni Novanta”.

26 Aprile 2016 - 12:36
(Ecn - 1992 Seminario sulla nuova destra)
(Ecn – 1992 Seminario sulla nuova destra)

A fine febbraio del 1992 alcune centinaia di studenti dell’Università di Bologna occupavano pacificamente l’aula in cui avrebbe dovuto parlare lo storico Ernst Nolte per contrapporsi alla tesi semplificante della «guerra civile europea» che equiparava nazifascismo e bolscevismo relativizzando lo sterminio ebraico e minimizzando i tratti specifici del razzismo di Stato del Novecento. Quella protesta, che allora ebbe una risonanza addirittura europea, fu un piccolo evento di vita universitaria, ma tanti di coloro che vi presero parte con entusiasmo vi sentirono un impegno ulteriore di approfondimento critico, di militanza antifascista e di memoria civile.

Vero è che, a uno sguardo retrospettivo, quell’atto di dissenso segna l’avvio di una pluralità di ricerche e di iniziative che hanno attraversato la cultura bolognese e italiana per oltre vent’anni: pochi mesi dopo nasceva il progetto di una sezione specifica di ECN sull’antifascismo tuttora attiva; nel novembre del 1994 esordiva la mostra «La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista», realizzata con il patrocinio dell’Istituto regionale per i Beni Culturali; seguirono poi le attività del «Seminario permanente per la storia del razzismo italiano»; gli studi di Riccardo Bonavita poi raccolti nel volume «Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea» (Bologna, il Mulino, 2010); i lavori di Rudy Leonelli sul revisionismo storico e sulla genealogia foucaultiana della «guerra delle razze» (ora nuovamente dibattuta negli atti del convegno «Foucault-Marx. Paralleli e paradossi», a cura di R.M. Leonelli, Roma, Bulzoni, 2010); il volume collettaneo «Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945» (Bologna, il Mulino, 2000); fino ad arrivare, per esempio, alla mostra «L’estraneo tra noi: la figura dello zingaro nell’immaginario italiano», allestita da Mauro Raspanti nel 2008. E tante, tante altre cose.

Rispunta ora dalle ceneri del tempo un frammento dello straordinario intervento introduttivo di Rudy Leonelli che delineava già allora le linee portanti di una nuova cultura reazionaria a cui sarebbe stato possibile contrapporsi solo rinnovando dall’interno la cultura e la militanza dell’antifascismo. In quell’aula gremita all’inverosimile, Rudy Leonelli mostrò come una nuova destra europea stava preparando una cultura per le masse fondata su due assi fondamentali: 1) un nuovo razzismo, non più su base biologizzante come quello nazista e fascista, ma non meno pericoloso e aggressivo; 2) il revisionismo storico come manipolazione della memoria sociale e culturale in chiave reazionaria e normalizzatrice. Oggi possiamo vedere bene quanto quel discorso avesse colto nel segno, e già allora risultò una griglia di lettura decisiva per promuovere una serie molteplice di lotte e iniziative antifasciste e antirazziste che animarono tutti gli anni Novanta a Bologna.

Riproponiamo ora quel frammento di intervento non solo come pezzo storico fondamentale delle mobilitazioni antagoniste degli anni Novanta, ma anche a elogio di un intellettuale che, dalla rivolta del 12 marzo 1977, ha sempre speso la sua cultura, la sua creatività e la sua intelligenza rigorosa e tagliente nello spazio orale delle assemblee e delle mobilitazioni, nei bar, nelle sedi politiche, nelle strade e nelle piazze di questa città, senza né settarismi, né appartenenze predefinite, né patteggiamenti con l’ordine del discorso dominante. Una persona che ci ha insegnato che non si può capire nulla del passato né dei libri se non si sa prendere posizione nella contingenza degli eventi.

Giorgio

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«Revisionismo e nuova destra»
Bologna: assemblea del 25 febbraio 1992, Aula magna occupata della Facoltà di Lettere e Filosofia

Intervento introduttivo di  Rudy Leonelli

Abbiamo considerato la conferenza di Ernst Nolte che i CP [Cattolici Popolari] intendevano tenere in quest’aula come un evento non semplicemente «culturale», ma come una manovra di potere alla quale era necessario rispondere con la mobilitazione. Organizzare insieme la forza della critica significa tentare di coniugare, con tutte le difficoltà che comporta, l’elemento della lotta e quello della riflessione. Il volantino di convocazione aveva questo orientamento: vogliamo evitare le semplificazioni. Nolte non è «un nazista», ma il suo lavoro, e questa iniziativa dei CP, non si iscrivono nel «libero confronto delle idee», ma in un campo di rapporti di forza sul quale è necessario misurarsi.

In primo luogo occorre considerare che Nolte è un tipo di storico molto particolare: la sua non è un’attività accademica di stampo tradizionale, ma è immediatamente collegata ai grandi mezzi di comunicazione di massa. Anzi, in gran parte, nasce e si sviluppa nei media. Nolte non è importante per la ricerca sulle fonti: utilizza cose già note agli storici, le poche «rivelazioni» documentarie che produce sono arbitrarie e, nei casi più clamorosi, del tutto gratuite. Il suo non è un lavoro di ricerca, ma di «montaggio»: Nolte costruisce una griglia per coordinare eventi già conosciuti fornendo ad essi un nuovo senso, un senso politico immediato che viene speso in campagne d’opinione e in investimenti politici diretti.

Per evidenziare alcuni aspetti del suo «metodo» faccio riferimento all’ultimo dei suoi libri tradotti in lingua italiana: «Nietzsche e il nietzschianesimo». In questo testo Nietzsche viene preso in considerazione come un «intellettuale» della seconda metà dell’Ottocento; si esclude così (tranne che per un breve capitoletto) il suo rapporto con il pensiero occidentale a partire dai Greci, al fine di costruire un’immagine distorta e dei tutto riduttiva dell’importanza di questo filosofo non solo per la storia della filosofia nel suo complesso, ma per il nostro secolo. Il perno della collocazione storica di Nietzsche da parte di Nolte è costituito da alcune frasi estrapolate dagli ultimi scritti e, soprattutto, dai «biglietti della follia», nei quali Nietzsche dichiarava «guerra», tra gli altri, proprio agli antisemiti. Nolte pretende di spiegarci che Nietzsche, in realtà, non ce l’aveva con gli antisemiti in quanto tali, ma con i socialisti, e con l’incombente comunismo… Così, Hitler, con lo sterminio spinto fino all’estremo della «soluzione finale», non farebbe che applicare, un po’ grossolanamente, l’«idea» di «annientamento» di Nietzsche. Solo che Hitler, che aveva come bersaglio i comunisti, per una qualche alterazione della percezione e alcuni piccoli accidenti della storia, ha sterminato gli ebrei… [risate]… Sto semplificando, ma non troppo. Perché, su questo punto, il discorso di Nolte non è molto più raffinato. Oltre alla produzione di un ennesimo tassello da inserire nello schema della «guerra civile europea» – uno schema che tende a relativizzare lo sterminio nazi presentandolo come «copia» del gulag – c’è questo dato politico e culturale estremamente grave: Nolte tenta di legittimare (e contribuisce trasversalmente a «rilanciare») l’interpretazione nazista di Nietzsche, contro la quale, in questo secolo, ci si è battuti con passione e con grande rigore filologico.

La promozione di Nolte da parte dei CP non è un fatto limitato alla sventata conferenza di oggi: il settimanale «Il Sabato», gestito da Comunione e Liberazione, gli ha dedicato un’intervista per preparare questa tournée italiana. Dunque è importante che Ernst Nolte, se nella sua agenda aveva scritto: «Bologna – aula III di Lettere e Filosofia» [i.e. Aula magna della Facoltà], abbia dovuto tirarci una riga sopra, e ripiegare altrove. Quella riga trascrive i rapporti di forza che stiamo mettendo in campo, e segnala che oggi, in Europa, stanno nascendo nuovi ed efficaci focolai di resistenza. Quanto ai CP, il loro rapporto con la reazione non è casuale né episodico: il «Sabato» ha recentemente pubblicato un articolo dal titolo eloquente: «E se gli skin avessero un cuore?» Nel ’90, contro la Pantera, i CP hanno creato un raggruppamento unitario coi fascisti del FUAN: «Proposta universitaria». A Bologna, dati i rapporti di forza a loro sfavorevoli, si sono limitati a volantinare, a fare delazione mediante il controllo telefonico sui locali occupati, e a tentare qualche fallimentare contromanifestazione. Ma in altre città, come Bari, sono passati direttamente allo squadrismo, aggredendo fisicamente, in modo pesante, gli studenti.

Questi signori volevano riprendersi oggi l’aula magna, con il fragile pretesto del «dibattito culturale». Si tratta di un’aula in cui, da anni, non sono ospiti graditi. Quindici anni fa, nel quadro della tensione innescata da un’iniziativa di Comunione e Liberazione, in questa città le forze dell’ordine hanno ucciso uno studente universitario: Francesco Lorusso. Da allora, dall’undici marzo 1977, quest’aula – che è un epicentro storico della rivolta universitaria – non è più stata aperta per i CP, per nessuna ragione. E non è aperta per loro neppure oggi, grazie a tutti noi: compagni, studenti e docenti. Le connivenze delle amministrazioni locali di sinistra con questo pantano sono palesi e gravissime: è nota la sponsorizzazione della conferenza di Nolte da parte della Provincia e dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Bologna. Le tardive prese di posizione dei dirigenti della Sinistra Giovanile, che hanno diffuso un volantino nella tarda mattinata di oggi, quando i giochi erano ormai fatti, quando la protesta di massa – alla quale non partecipano – era già in piedi e i CP avevano comunicato la propria frettolosa ritirata, costituiscono un maldestro e imbarazzato tentativo di autogiustificazione. Perché non si sono accorti prima di questa mossa dei CP? Cosa ci stanno a fare in Consiglio comunale se non hanno prestato a tempo debito la necessaria attenzione verso questa manovra? Perché sostengono – e continueranno a farlo – la maggioranza che amministra la «cultura» nella persona dell’assessore socialista Sinisi? Queste responsabilità ci indicano che, quando parliamo di «reazione», dobbiamo spingere lo sguardo oltre gli storici confini della «destra», e iniziare a vedere, a nominare, a cartografare il ruolo della «sinistra di governo» nella materialità dei processi di restaurazione.

C’è un’ultima questione che vorrei sollevare, almeno come problema e come compito. Sappiamo che, nel quadro della «disputa tra gli storici», la critica di Habermas costituisce un punto di riferimento importante, che ha saputo mostrare, in senso non banale, il carattere apologetico del revisionismo storico tedesco. Ma Habermas assume come punto di partenza e come orizzonte ultimo il «patriottismo della Costituzione». Per noi – diversamente da Habermas – i valori dello Stato democratico non possono essere separati, o contrapposti come un modello ideale, alla storia effettiva della democrazia. Questa storia, in Italia come in Germania, ha visto questi valori funzionare come un elemento di legittimazione della materialità del dominio, come una barriera contro le istanze di trasformazione sociale e come un’arma rivolta contro i movimenti autonomi ed extraistituzionali. In particolare, nella situazione italiana degli anni Settanta, il mito dello «Stato nato dalla Resistenza» (l’omologo nazionale dei «patriottismo della Costituzione») è servito come grande copertura del sistema dei partiti, e delle trasformazioni della costituzione materiale che hanno svuotato lo stesso «stato di diritto» dall’interno. Non mi riferisco alla Resistenza come fatto storico, politico e militare, che resta per noi un dato imprescindibile; ma all’iscrizione mitologica della «Resistenza» nei fondamenti dello Stato: immagine agiografica e consolatoria votata a legittimare tutti i compromessi e tutte le «emergenze» imposte da una nuova ragion di Stato. Una risposta radicale all’offensiva revisionista deve, a nostro avviso, avere la capacita di smarcarsi dalla fissazione normativa – sostenuta da Habermas – dei valori «originari» della Kultur, dello Stato democratico e perfino della Nato. Una critica all’altezza dei conflitti del presente ha la possibilità e il compito di individuare come referente i soggetti concreti della resistenza ai dispositivi di potere. Su questi soggetti la teoria critica habermassiana resta sintomaticamente taciturna, mentre la pratica sociale ne registra – oggi stesso – l’emergenza. In questo scarto si apre uno spazio di riflessione e di ricerca che possiamo tentare di percorrere collettivamente.