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Opinioni / Abbandonare le illusioni su Bologna, immaginare un nuovo tempo

Wu Ming: “La Lega raccoglie consenso, perché dice fuori dai denti quel che la panza gonfia di Bologna pensa da tempo”.

08 Maggio 2011 - 15:32

L’intervento letto da Wu Ming nella piazza occupata di “Time out!”, il giorno dello sciopero generale e generalizzato:

Abbandonare le illusioni su Bologna, immaginare un nuovo tempo

Nei giorni scorsi, qualcuno ha detto che Maroni, a Bologna, non è il benvenuto.
A noi pare il contrario.
La Bologna di oggi è la città che fa per lui. Il suo razzismo è lo stesso di molti bolognesi.
Per settimane, la città è stata invasa da manifesti elettorali leghisti che incitavano all’odio verso gli stranieri, rappresentati come laidi, mostruosi, prevaricatori. Un’iconografia da Terzo Reich.
Nella Bologna del mito – bonaria, ospitale, circonfusa del suo alone rossastro – quei manifesti non sarebbero durati un giorno. Ci sarebbe stata una levata di scudi generale, come se qualcuno avesse imbrattato le foto dei partigiani di fianco al Nettuno. Ma quella Bologna non c’è più, e forse non c’è mai stata. Un elettore bolognese su tre si esprime a favore del candidato sindaco leghista. L’è ‘d Bulåggna, al s’ ciama Manes, l’à da èser un brèv ragazól. E’ giovane, è simpatico, si capisce quello che dice.

La Lega raccoglie consenso, perché dice fuori dai denti quel che la panza gonfia di Bologna pensa da tempo. In città razzismo ed esclusione non sono dinamiche recenti. E’ un eterno sport bolognese inveire contro i fuori-sede, i «maruchèin», il casino, il degrado.
I razzisti ed nuèter fingono di ignorare che una parte consistente del benessere felsineo deriva dallo strozzinaggio degli affitti, dalla vessazione degli studenti fuori-sede, dal lavoro nero e dallo sfruttamento della precarietà. Infatti non contestano la presenza in città di soggetti ricattabili e salassabili, ma il fatto che questi vogliano in cambio qualcosa: tempi di vita e non solo di lavoro, diritti anziché ricatti, dignità di cittadini. «Cosa si sono messi in testa, ‘sti arabi, ‘sti negri, ‘sti zingari, ‘sti fuori-sede?»
C’è una Bologna che ritiene ogni inclusione una minaccia alla sua ricchezza.

Se in passato, soprattutto grazie alle lotte del movimento operaio, una parte di questa ricchezza veniva re-investita in servizi e garanzie sociali, oggi accade sempre meno. Le rette degli asili aumentano, i posti diminuiscono e le strutture vengono chiuse. Le biblioteche contraggono gli orari di apertura e hanno problemi di bilancio. Esternalizzare servizi pubblici alle cooperative (anche confessionali) è uno dei trucchi abituali per aggirare i diritti dei lavoratori. I servizi di prima accoglienza vengono tagliati e i dormitori sono in continua emergenza. Il trasporto pubblico è sempre più costoso, e questo colpisce i poveri e chi vorrebbe inquinare meno.
Oggi, in questa città, a chi non sa dove sbattere la testa tocca rivolgersi al parroco e alle mense della Caritas. Un poveraccio trova più facilmente l’aiuto dei volontari che dei servizi sociali.

I primi responsabili di questo sfacelo sono gli amministratori della ex-sinistra e – in una breve parentesi – quelli della giunta Guazzaloca. La china è stata discesa a grande velocità, fino al lugubre periodo di Cofferati (che oggi tutti, a cominciare dai suoi attendenti di allora, fingono di non avere mai conosciuto), allo scollacciato epilogo del Cinziagate e al commissariamento della città.

[Un inciso su Flavio Delbono: siamo convinti che il suo più grave misfatto non sia quello per cui si è dovuto dimettere, bensì la privatizzazione delle Farmacie comunali, nonostante il parere contrario espresso da tanti cittadini nel referendum consultivo. Era il 1999, Delbono era assessore al bilancio della giunta Vitali. Quell’operazione inaugurò lo smantellamento del welfare cittadino. Delbono ne fu il principale artefice, ma non certo l’unico: la responsabilità ricade su tutta la classe dirigente locale dell’allora PDS, oggi PD. Ma i media locali preferiscono non ricordare: parlare di gnocca è più divertente, e non rischia di svegliare il can che dorme.]

A completare il quadro, ciò che resta del welfare non è più percepito come un diritto per chi sceglie di vivere a Bologna, bensì come un privilegio riservato ai «bolognesi».
E chi sarebbero, i «bolognesi»? Per quanti anni bisogna vivere a Bologna, per essere considerati cittadini? A che distanza dalle Due Torri bisogna essere nati? Quanti quarti di «bolognesità» bisogna avere nel sangue?
Ecco perché quei manifesti razzisti non hanno suscitato né potevano suscitare alcuno sdegno, nemmeno ipocrita. «Prima i bolognesi», dicevano, e questo è un argomento condiviso.

A conti fatti, ci è impossibile vedere l’arrivo di Maroni in città come un gesto «profanatore». Piuttosto, è una consacrazione, il coronamento di un percorso che parte da lontano.
Il marone* oggi non è Maroni-a-Bologna. I maroni sono due: uno è Maroni e l’altro è Bologna.
In città, i motivi per incazzarsi e agire sono innumerevoli e sotto gli occhi di tutti, ma per liberare nuove energie creative e conflittuali non sappiamo immaginare altro modo che gettare alle ortiche gli ultimi residui di retorica su Bologna, il suo mito, il malconcio santino del «buon governo», e al tempo stesso ogni lamentela nostalgica o qualunquista.
Anni e anni, anni di cazzate tipo “isola felice” non han fatto che danni. L’Isola Posse All Star lo rappava già nel 1991.

Per troppo tempo la storia di Bologna è servita come tappabuchi, velo per nascondere ogni nefandezza, nella convinzione che qui siamo diversi.
Ci sono monumenti che si erigono e si venerano contro il passato, fingendo di celebrarlo.
Un passato fatto anche di battaglie per la liberazione delle classi subalterne, di grandi imprese collettive che in un giorno come questo, di sciopero generale, dovrebbero ricordarci che la lotta paga.
Si riparte da qui, non per ripetere, ma per ritentare in forme nuove.
E si riparte dal basso.

Una volta un tizio ha scritto:

«L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla propria condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni.»

Abbandonare le illusioni significa ad esempio ragionare sul fatto che Bologna si nutre soprattutto di terziario e cultura, ma non sa che farsene di grandi eventi, di nuove kermesses e passerelle. Perché la cultura non cala dall’alto: nasce dal basso, dalla vita vissuta, dagli incontri e dai flussi che attraversano le strade. Non è accaparrandosi per un anno il titolo di Capitale del libro che si incide sulla cultura cittadina, ma imparando a valorizzarla quotidianamente, creando e garantendo spazi per le relazioni, il sapere e l’interscambio di idee, cioè tutte quelle cose che producono ricchezza e creatività. E’ difendendo l’istruzione pubblica con le unghie e con i denti, dalla materna alla scuola secondaria. E’ impegnando l’università a lasciarsi vivere da chi la frequenta e la tiene in piedi con le proprie tasse, invece di vederla ridursi a un laureificio chiuso e provinciale. E’ guardando la cultura per ciò che è: produzione di ricchezza sociale, invece che lusso per i tempi di vacche grasse. Le vacche magre si possono nutrire a cultura? Certo che sì. O pensiamo forse di poter competere con la Cina sul terreno della manodopera dequalificata e sottopagata, come sembra credere l’attuale governo quando consiglia ai giovani di rinunciare a studiare per riscoprire il lavoro manuale? Va bene, il lavoro manuale è necessario… ma pagato quanto? E in quali condizioni? Quelle che impongono Marchionne o la Ducati Energia?

Abbandonare le illusioni significa partire da un dato di realtà: guardare tanto il peggio che avanza quanto ciò che ancora ci impedisce di cedere alla frustrazione. Perché sì, potremmo stare a lungo a discutere sulla tardività della convocazione dello sciopero generale di oggi e sul fatto che ormai in questo paese non esista più una qualunque controparte sociale o politica in grado di cogliere il messaggio lanciato. Ma noi preferiamo constatare ciò che è avvenuto: la città è stata bloccata da migliaia di persone. E se questo sarà servito anche soltanto a farci sentire per un momento meno soli, pur con tutte le innegabili differenze e conflittualità che ci distinguono, questa giornata non sarà stata vana nei tempi cupi che viviamo.
Forse arriverà il giorno in cui la voglia di resistere verrà meno e lascerà il campo alla rassegnazione. Ma certo non sarà stato questo 6 di maggio. Forse giungerà l’ora dei lupi, in cui l’idea di una convivenza diversa e possibile sarà definitivamente spazzata via da questa città, dopo che per anni è stata logorata e minata. Ma quell’ora non è adesso.
Oggi diciamo che la lotta non serve solo a ritardare la sconfitta, ma allude sempre a un tempo nuovo e a un popolo che viene. Perché ogni gesto o parola di resistenza, per quanto piccoli possano apparire, prefigurano qualcosa, aggiungono un tassello nell’immagine concreta di un altro avvenire.

* Marone. Italo-petroniano per “problema complicato”, “errore faticoso da correggere”, “situazione difficile da gestire”.

(da Giap)