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Opg, dove la pena di morte esiste [video+foto]

Viaggio nella realtà degli Ospedali psichiatrici giudiziari con i protagonisti di “Pitbull”, realizzato dal laboratorio teatrale attivo all’interno della struttura di Reggio Emilia. “Si parla da tanto di chiusura, ma la realtà dentro sta peggiorando giorno dopo giorno”.

28 Gennaio 2015 - 16:28

20150118_161654“Dicono che in Italia non c’è la pena di morte. Ma non è vero”. Chi passa anni e anni all’interno di un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) lo sa bene. Come gli attori di “Pitbull”, spettacolo realizzato dal Laboratorio teatrale dell’Opg di Reggio Emilia, che abbiamo incontrato il 18 gennaio in occasione di una rappresentazione al Vag61 di Bologna. Al termine dello spettacolo, gli attori dialogano al lungo con il pubblico e le loro sono parole che colpiscono allo stomaco. “L’Opg? E’ un carcere, nel vero senso della parola”. Con tanto di sveglia data con la sbattitura delle sbarre e ripetuti controllo notturni con la torcia. “In questi giorni stiamo davvero patendo il freddo, perchè per risparmiare tengono abbassati i caloriferi”. Condizioni di cui qualcuno non ha neanche la possiblità di lamentarsi. “Ci sono ragazzi ridotti come zombie, non riescono neanche a parlare”. Perchè? “Oggi in Opg non ti legano più, ma ti fanno le iniezioni”. E la pena di morte non manca di essere eseguita. “Dieci giorni fa uno si è impiccato davanti alla guardiola. Avete sentito qualcosa?”. In sala si scuotono le teste. E’ successo in un reparto ad alta sorveglianza: sei operatori per 20 persone. “Erano 20 giorni che non si alzava del letto, neanche per prendere da mangiare. Possibile che nessuno si fosse accorto che era in uno stato di depressione? Ci vuole un attimo, una notte, a scrivere due righe, prendere un calzino e appenderti”. Ci vuole proprio un attimo: “In cinque anni e qualche mese che sto dentro, ne ho visti 35 finire così”. Rapidamente saliti a 36: l’Opg di Reggio Emilia ha contato un altro suicidio solo pochi giorni dopo lo spettacolo.

Le vie d’uscita? “Quando ti mandano in comunità, per tenerti tranquillo ti danno il doppio della terapia, ti bombardano di farmaci”. Qualcuno riesce anche ad uscire, “ma fuori ti trova senza lavoro, senza riuscire a parlare con le persone. Così, appena ti tolgono due farmaci, esci di testa e una cazzata la fai. Così, ricominci da capo”. Detto con altre parole: “Se mi ghettizzi giorno dopo giorno, io le rapine facevo e le rapine tornerò a fare”. Eppure, “se anche le persone sbagliano, dopo 28 o 30 anni di carcere non sono più le stessa del reato. Se uno fa un vero percorso di autocritica, cosa deve dare di più? Tanto vale che l’ammazzi”.

E’ questa la realtà in cui scava lo spettacolo curato dal laboratorio teatrale. “L’Opg è un tema scomodo, perchè mette insieme le due realtà più critiche della nostra democrazia: il carcere e la salute mentale”, sottolinea la regista, Monica Franzoni. “Si parla tanto di chiusura degli Opg, ma di fatto una soluzione non si è ancora trovata e questo perchè non si è messa mano al Codice penale, non si sono trovate le soluzioni adeguate per mettere insieme queste due realtà, cioè la posizione giuridica e la malattia. Il problema non è chiudere l’Opg, il problema- fa capire Franzoni- è non fare entrare le persone nell’Opg. Perchè è vero che stanno dimettendo un mucchio di gente, ma un mucchio di gente continua ad entrare e il numero è stabile da tre anni. Tutte le persone dimissibili sono state dimesse, molte persone sono state mandate a casa ma sono rientrate. Alcune sono rientrate per la quarta volta. Uno dei nostri attori, che adesso speriamo abbia a breve i permessi per tornare a recitare con noi, è la quarta volta che rientra. Ha 30 anni, sono 15 che è dentro e fuori dalle comunità ed è la quarta volta che entra in Opg. Qualcosa che non funziona ci deve essere…”.

Di fatto, continua la regista, “la realtà dentro sta peggiorando di giorno in giorno”. Nasce anche da qui la volontà di parlarne. “Sono andata a diversi convegni, ho ascoltato personaggi che parlavano di malattia, di realtà carceraria, di tutto ma non parlavano mai di una parola fondamentale: violenza. Allora noi, con coraggio, abbiamo detto: parliamone noi. Perchè, di fatto, quello che caratterizza la persona che entrata in Opg è l’aver compiuto un atto di violenza. Forse se ne ha paura, perchè c’è uno stigma della malattia mentale e della violenza. Però è anche una realtà e o le cose ce le diciamo, o altrimenti nascondiamo sempre la polvere sotto il tappeto. Quindi abbiamo pensato di fare uno spettacolo parlando del tema della violenza, di come si costruisce, ma cercando anche delle soluzioni, andando a vedere come cavolo si cura, come se ne esce. Abbiamo scoperto, così, che ci sono delle cliniche straordinarie che curano i pitbull”.

Il pitbull: “E’ il cane che più ci apparteneva e allora abbiamo pensato di fare questo parallelo”, visto che “ci sono cliniche per curare i cani molto più avanzate degli Opg”, dove del resto finiscono persone trattate “peggio dei cani”. E allora, “perchè non portare questa proposta? Magari qualcuno capisce qualcosa e si apre la mente”. Poi, dopo la rappresentazione, tocca alla discussione con il pubblico: “Per noi è il proseguimento dello spettacolo. Perchè pensiamo che lo spettacolo serva a sollevare delle questioni, le risposte non ce le abbiamo. Le risposte le troviamo insieme”.

> Guarda le foto:

http://www.flickr.com/photos/zicphoto/sets/72157649946235019/show

> Guarda il video dell’introduzione della regista: