Il nodo bolognese della rete transfemminista pubblica la relazione dell’assemblea transnazionale del Primo maggio: spezzare l’isolamento dei contesti omolesbotransfobici, difesa del diritto all’aborto, precarietà del lavoro determinata da rapporti patriarcali e razzismo fra i temi, e “tenere vivo lo sciopero femminista per dare visibilità a ogni momento di insubordinazione contro violenza maschile e di genere”.
di Non Una Di Meno Bologna
In occasione del primo maggio femminista transnazionale abbiamo organizzato a Bologna un’assemblea pubblica online per creare le condizioni di una presa di parola condivisa nel tempo della pandemia. La partecipazione è stata grande nei numeri e ricca nella composizione, anche perché ha visto la presenza di altre città e di compagne argentine e migranti che hanno segnato la prospettiva transnazionale all’interno della nostra iniziativa locale.
I primi interventi hanno parlato della sofferenza determinata dall’isolamento, dai suoi costi psicologici e da un senso di precarietà del lavoro e della vita sempre più intenso, della difficoltà di immaginare un futuro e costruire un progetto. Il primo obiettivo di questa assemblea è stato proprio riconoscere questi sentimenti e contemporaneamente sfidarli a partire dalla possibilità di ritrovare un terreno condiviso di confronto e comunicazione, di fare emergere l’indisponibilità individuale e collettiva ad accettare passivamente la situazione imposta dalla pandemia. La presa di parola di lavoratrici in smartworking, insegnanti catapultate da un giorno all’altro nella realtà delle lezioni in remoto, sex workers, operatrici dei centri antiviolenza, lavoratrici nel campo artistico, studentesse e lavoratrici migranti, madri che da due mesi si trovano a casa con figlie e figl* che non possono andare a scuola ha reso evidente che l’emergenza globale generata dal Covid-19 ha fatto esplodere le tensioni e le contraddizioni che in questi anni sono state al centro della lotta femminista e transfemminista globale.
Abbiamo discusso di tutto questo per mettere in scacco il senso di impotenza a partire dalle lotte che si sono date negli ultimi due mesi: ogni forma di resistenza messa in campo da donne e soggettività dissidenti per non subire la violenza maschile e di genere intensificata dalla reclusione domestica; le moltissime forme di solidarietà organizzate da donne per far fronte alle difficoltà e all’impoverimento causate dal lockdown; le forme di neo-mutualismo messe in atto dalle persone lgbtqia+, per fare fronte ai bisogni di chi non solo non ha da mangiare, ma si trova spesso isolat* in contesti omolesbotransfobici, come la famiglia o convivenze temporanee; le campagne di supporto delle sex-worker; gli scioperi cominciati nelle fabbriche dove Confindustria ha preteso che la produzione andasse avanti anche a costo della salute e della vita; le rivolte nelle carceri; le proteste delle infermiere che hanno minacciato di fermarsi se la fase 2 comincerà senza le dovute misure di protezione dal contagio; le lotte delle e dei migranti obbligati all’assembramento nei centri di accoglienza. Queste sono le condizioni e i movimenti che hanno permesso di fare emergere quelli che sono per noi i punti nodali sui quali prendere posizione.
Partiamo dalla lotta contro la violenza maschile e di genere, perché questo è stato il primo e grande connettore del movimento globale di cui siamo parte: gli interventi dei Centri Anti-Violenza di Bologna e Sondrio hanno descritto una situazione segnata dall’aumento della violenza, ma anche da difficoltà sempre maggiori a rivolgersi ai centri da parte delle donne che non intendono più subirla. Questo incremento della violenza non è un fatto solo italiano, ma si sta verificando ovunque, come in Argentina, dove ci sono stati trentadue femminicidi dall’inizio del lockdown. Nello stesso tempo, l’iniziativa dei CAV è diventata più intensa, si è riconfigurata e riorganizzata per poter proseguire l’attività in una situazione senza precedenti, ed è cresciuta la solidarietà reciproca tra le donne che sono dentro a percorsi di fuoriuscita e le case rifugio. Questi sono solo alcuni segni del fatto che la pandemia non ha cancellato il desiderio di liberarsi dalla violenza e non esserne mai più vittime. Per questo, pensiamo che debba continuare e rinsaldarsi il rapporto tra NUDM e i CAV, e che NUDM debba dare quanta più visibilità possibile a un lavoro e a una lotta che in ogni loro momento singolare e locale sono sempre parte di un movimento globale.
Gli interventi relativi alle campagne in corso per difendere la libertà di aborto sono un altro segno del modo in cui la pandemia ha rinsaldato il contrattacco patriarcale e rafforzato la reazione contro le battaglie con le quali negli ultimi anni abbiamo rivendicato una piena autodeterminazione sui nostri corpi, la nostra sessualità e le nostre vite. L’emergenza sanitaria ha reso ancora più forti i limiti di fatto alla possibilità di abortire già determinati dall’obiezione di coscienza e per questo si sono attivate e messe in comunicazione le reti impegnate a monitorare a livello territoriale e nazionale gli spazi di agibilità per praticare l’interruzione volontaria di gravidanza e per rivendicare la possibilità di servirsi della pillola abortiva senza bisogno di ospedalizzazione. Questa iniziativa è inevitabilmente legata a quella delle donne polacche che sono scese in strada qualche settimana fa per opporsi al tentativo del parlamento di approvare la legge che restringe ulteriormente la libertà di abortire approfittando del distanziamento sociale e delle difficoltà di manifestare. In un momento nel quale il lavoro riproduttivo delle donne è fondamentale per far fronte all’emergenza determinata dalla pandemia, questi attacchi patriarcali sono altrettanti tentativi di imporre e fissare ruoli e gerarchie di genere, tentativi che si tratta di contrastare continuamente.
È chiaro che nel contesto della pandemia i rapporti sociali patriarcali e razzisti dimostrano tutta la loro centralità nella riorganizzazione della produzione e riproduzione sociale, e sono tanto più evidenti quanto più l’ideologia patriottica e l’elogio dell’eroismo e del sacrificio servono a imporre gradi sempre più alti di sfruttamento, nel lavoro e in casa, per fare fronte all’emergenza e alla ricostruzione. La divisione sessuale del lavoro pesa tantissimo per le donne che stanno facendo telelavoro, per le quali le mansioni domestiche e quelle riproduttive si sovrappongono continuamente al punto che la giornata lavorativa è diventata praticamente infinita. Gli interventi delle insegnanti hanno rivelato come queste tensioni stiano coinvolgendo particolarmente l’istruzione.
Da una parte, sono soprattutto le madri che si trovano a dover seguire bambine e bambin* i cui percorsi formativi autonomi sono pesantemente colpiti dalla chiusura delle scuole, in condizioni nelle quali il peso della disuguaglianza – ad esempio in relazione all’accesso ai mezzi informatici per seguire la didattica online – diventa particolarmente grave. Dall’altra parte, le insegnanti hanno dovuto reinventare la loro attività senza nessun percorso di formazione, sono obbligate a ridurla alla trasmissione di nozioni essenziali che impoveriscono il loro lavoro e soprattutto rendono più difficile contrastare con l’insegnamento la riproduzione dei ruoli e delle gerarchie che fanno riferimento alla famiglia come modello di rapporto. Bambine e bambin* nella pandemia non solo sentono profondamente il peso dell’isolamento, ma rischiano di essere addomesticat*, di ritrovarsi implicitamente di fronte all’affermazione indiscussa di ruoli «maschili» e «femminili» che fissano le identità e le posizioni negando ogni possibilità di affermazione di diversità. Questo rende ancora più forte la necessità di rilanciare la battaglia che – anche attraverso il processo dello sciopero femminista e transfemminista ‒ ha fatto dell’educazione alle differenze una pratica politica per interrompere la riproduzione di ruoli e gerarchie di genere.
Diversi interventi – a partire da quello delle sex workers – hanno segnalato come il mancato riconoscimento formale del lavoro ha degli effetti pesanti perché ciò significa non avere nemmeno diritto a un sussidio. Una condizione, quest’ultima, che colpisce anche chi svolge lavori autonomi – per esempio nel mondo dell’arte – o chi si trova in condizioni di lavoro informali, come nel caso di moltissime lavoratrici domestiche e di cura, migranti e non, che hanno sempre lavorato in nero. Bisogna allo stesso tempo considerare che in questo momento la condizione di precarietà, di incertezza radicale per il futuro, si mostra quanto mai una condizione che connette figure del lavoro diverse e che bisogna evitare di reintrodurre la distinzione tra lavoro garantito e non, tanto più nel momento in cui chi sta continuando a lavorare lo sta facendo in condizioni che aumentano enormemente il rischio del contagio.
È importante riconoscere che il lavoro nel suo complesso è reso più precario dall’azione simultanea dei rapporti patriarcali, delle identificazioni eterosessiste che colpiscono le persone Lgbt*qia+, del razzismo. Il lavoro per le persone trans, ad esempio, è strettamente legato al cambio dei documenti, attualmente impossibile per la chiusura dei procedimenti nei tribunali e questo va ad aggravare una condizione di precarietà economica già molto pesante, soprattutto per le donne trans. Gli interventi delle migranti hanno indicato chiaramente come questi rapporti di oppressione agiscano insieme, perché il permesso di soggiorno è legato al lavoro o allo status familiare, e la loro posizione è incastrata tra razzismo istituzionale e oppressione patriarcale che influenza le modalità di accesso nel mercato del lavoro. La situazione delle lavoratrici domestiche e della cura e delle operatrici impegnate nella sanificazione ‒ entrambe attività «essenziali» per far fronte all’emergenza sanitaria e alla ripartenza della produzione ‒ mostra proprio come venga imposta una piena disponibilità al lavoro – con salari bassissimi e tempi di lavoro intensissimi – dall’azione congiunta di razzismo istituzionale e patriarcato. Eppure, queste lavoratrici hanno lottato in questi mesi per non essere sequestrate in casa dai propri datori di lavoro, o per non essere costrette a svolgere le operazioni di pulizia e sanificazione senza alcuna misura di sicurezza. La battaglia contro il razzismo istituzionale deve essere ancora parte centrale della nostra presa di parola, come è parte della presa di parola del movimento transnazionale.
L’assemblea bolognese del primo maggio, d’altra parte è nata proprio dentro l’iniziativa transnazionale femminista e transfemminista, che è anche una scommessa per il futuro. Le compagne che la seguono raccontano di un percorso aperto e in espansione, che sta affrontando l’esistenza di condizioni diversissime da paese a paese, ma anche si fa forte dell’urgenza di costruire un’iniziativa che faccia comunicare tutte quelle differenze in un progetto condiviso e collettivo. Quelli emersi dall’assemblea sono tutti terreni di una lotta che è transnazionale, che si sta organizzando come mai prima d’ora attraverso i confini e che rende evidente che lo sciopero femminista e transfemminista vive nelle lotte, come afferma il manifesto che ha lanciato la giornata del primo maggio. Tenere vivo lo sciopero significa impegnarsi ancora, anche in un tempo che sembra vuoto e sospeso, a dare visibilità a ogni momento di insubordinazione contro la violenza maschile e di genere, ogni pratica di solidarietà che permette di resistere all’isolamento, alla solitudine e alla povertà, ad amplificare ogni rifiuto dello sfruttamento patriarcale messo al lavoro nella società colpita dal contagio, a scrivere lo spartito che unisce le voci che hanno preso parola nell’assemblea di oggi a quelle di chi grida in ogni parte del mondo che non dobbiamo tornare alla normalità, perché la normalità era il problema. Come farlo è la sfida e l’impegno che abbiamo davanti come Non Una di Meno, continuando a lottare insieme tutti i giorni. Arriba las que luchan”.