Storia e memoria

“No Global Bo”, almanacco di un movimento

Il libro di Valerio Monteventi racconta “quattro anni vissuti pericolosamente” tra blocchi dei treni contro la guerra, invasioni di aree militari e Cpt, occupazioni. Domani la presentazione a Vag61, insieme all’allestimento di una mostra composta da una serie di foto di Luciano Nadalini e una rassegna di copertine di Zero in condotta.

14 Ottobre 2021 - 14:11

“Quattro anni vissuti pericolosamente”. Sono quelli raccontati nel libro “No Global Bo” (edizioni Pendragon), firmato da Valerio Monteventi per ripercorrere “i fatti del G8 di Genova, gli anni precedenti e quelli successivi, le tante manifestazioni in tutti i luoghi dove i potenti della terra si incontravano, i cortei oceanici nelle capitali d’Europa… E poi ancora: i blocchi dei treni contro la guerra, le ‘invasioni’ delle aree militari e dei Cpt e le occupazioni di spazi per l’aggregazione. Le azioni dei no global sono raccolte in questo libro che è un po’ un almanacco e un po’ un vocabolario degli obiettivi di un movimento che non ha mai avuto bisogno di rappresentazioni istituzionali”, anticipa la quarta di copertina del volume che sarà presentato domani a Vag61 con una serata promossa dal Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”. Alle 18,15 è prevista l’apertura di una mostra composta da una serie di fotografie di Luciano Nadalini e una rassegna di copertine del quindicinale Zero in condotta. Alle 18,30 la presentazione con l’autore, Paola Rudan (Connessioni precarie), Domenico Mucignat (Tpo), Neva Cocchi (Ya Basta!), Nadalini e una/un militante di Vag61.

“Per narrare questa storia ci sono volute più di 300 pagine: l’autore è partito dall’esperienza bolognese- riporta ancora la quarta di copertina- perché è stata una delle più importanti nel panorama nazionale. Ha iniziato raccontando la vicenda del ‘No Ocse’, ha proseguito col Bologna social forum, per arrivare poi al movimento contro la guerra. Lo ha fatto col piglio del ‘testimone di parte’ anche perché nella quasi totalità degli avvenimenti raccontati era presente. Il disegno di copertina fu regalato al Bologna social forum dal fumettista statunitense Seth, militante dei movimenti antagonisti newyorkesi e protagonista della scena culturale underground, narratore delle conflittualità urbane e schierato espressamente su posizioni no global. L’illustrazione fu serigrafata su 500 magliette e rappresentò il segno distintivo del Bsf nelle giornate del luglio 2001 a Genova”.

Scrive il CentroDoc “Lorusso-Giuliani” nella prefazione: “Dicembre 2020, in piena emergenza sanitaria, chiusə nelle case, abbiamo iniziato a immaginare in che modo approcciarci alla ‘ricorrenza’ dei vent’anni di Genova 2001. Un piccolissimo merito del nostro agire (perdonate l’auto incensamento), è che sempre abbiamo provato a ragionare indipendentemente dalle ‘ricorrenze’. I movimenti lasciano tracce nelle vite di ognunə. Lasciano tracce, anche nella capacità del potere di reprimere esistenze e idee. E noi che, testardamente, pratichiamo la memoria militante, abbiamo deciso che “raccontare il passato” non sarebbe stato un esercizio di nostalgia, ma confrontarsi con il presente, per quanto in modo parziale o limitato ad aspetti specifici. Genova 2001 meritava e merita un’attenzione politica profonda necessaria a ripercorrere la vita di un movimento complesso e capillare. Ci siamo confrontatə, abbiamo condiviso un bisogno, una necessità. Smarcarsi dalla falsa cronaca dei media mainstream e ancor di più dalle oramai scontate ‘verità giudiziarie’. Offrire, con i nostri limiti, una visione oggettivamente parziale quando si volge lo sguardo agli anni passati e la memoria è necessariamente di parte. Il tempo che viviamo può indurre a rifugiarsi nella nostalgia. Si, anche nella ‘nostalgia politica’. È invece necessario stare fuori da ogni tentazione nostalgica e da ogni rievocazione di circostanza. Bisogna fare esercizio di memoria collettiva e farne oggetto di rielaborazione, di pratica politica. Un punto di partenza, un’occasione per ribadire e riprendere un discorso che per noi non si è mai chiuso. Lontanə da qualsiasi forma di memoria condivisa, il senso lo cerchiamo nel nostro agire politico che, negli anni, è arrivato fino a oggi. Questo libro, ‘No global Bo – Quattro anni vissuti pericolosamente’, fa parte di una serie di iniziative realizzate o ancora da proporre, ripercorre le vie percorse dai movimenti per arrivare a Genova 2001. Per continuare Genova 2001. Un lavoro meticoloso e documentato che aiuterà a conoscere e a comprendere le intuizioni e le contraddizioni di una globalizzazione che ha provocato, nella realtà dei fatti, disgregazioni sociali e politiche a cui assistiamo oggi quasi impotenti. Tutto ciò che quel movimento ha cercato di mostrare al mondo intero, oggi è causa di una sorta di tragedia globale. Raccontarlo, come Valerio ha scelto di fare, potrebbe, perlomeno, dare la chance di provare a recuperare la capacità di confrontarsi con le complessità, senza essere inutili spettatori. Riprendere pensiero e pratica politica. Andrà accompagnata questa fatica con cura, come con cura abbiamo attraversato questi anni al CentroDoc, con Franz e Andrea, costruendo insieme un percorso, un luogo dove oggi la loro presenza la viviamo nel portare avanti le nostre attività, nelle iniziative, nel tessere una tela con l’apporto di tuttə noi,continuando ciò per cui ci siamo costituitə, in modo ostinato e contrario, allora come oggi”.

Il libro viene poi definito “un almanacco per i no global” nell’introduzione a cura dell’autore. “Una sera, tra compagni di diverse età- scrive Monteventi- si parlava di Genova e del movimento no global, seduti a un tavolo di un centro sociale bolognese, davanti a una birra. A un certo punto, una ragazza, che nel 2001 aveva al massimo due o tre anni, mi chiese molto timidamente cosa era successo in piazza Alimonda. Certo, fatta in quel luogo, una domanda del genere poteva assomigliare a una bestemmia, ma da diverse stagioni politiche e culturali ero ormai abituato a non dare per scontati o risaputi episodi o storie legati ai movimenti. Lo potevano essere per me o per altri come me che avevano svernato per anni nelle praterie della lotta politica e del conflitto sociale, ma non poteva essere automatico che fosse la stessa cosa per giovani attivisti e attiviste che devono fare i conti con un immaginario collettivo eterocostruito, poco libero e sempre più colonizzato. In questi anni la politica è franata in una parodia mediatica che lascia poco spazio a movimenti duraturi e a conquiste consolidate. Perfino i sogni e i desideri di massa vengono manipolati. Con tutto questo dobbiamo farci i conti e uno dei modi per farlo, soprattutto per chi è della mia età, è quello di lasciare piccole tracce di memoria fatta dalle storie delle generazioni che hanno cercato di cambiare il mondo, che guardano al loro passato di lotta con orgoglio essendo consapevoli del prezzo alto che spesso hanno pagato. I fatti del G8 di Genova, gli anni precedenti e successivi delle tante manifestazioni ed azioni dei no global appartengono alla storia dei movimenti, sono ‘pietre d’inciampo’ che vanno ancora disseminate da chi in quelle piazze c’è stato e ha percorso i chilometri in tanti interminabili cortei. Parlarne ora, a vent’anni del luglio 2001, non vuole essere una rievocazione, ma un percorso a ritroso, un reincontrarsi, un ritornare a conoscersi, un modo per raccontare vicende, avvenimenti, valutazioni, sentimenti che non sono stati narrati in maniera adeguata, come se fossero accaduti in modo completamente diverso, o che sono stati messi in disparte, accantonati. Ma di quei fatti e di quelle storie, dobbiamo parlarne noi, ‘testimoni di parte’. Non esiste che lo faccia chi offre i suoi servizi alla lingua del potere, non esiste che sia costui a ricostruire quelle vicende, non esiste che possa dire che ‘a vent’anni di distanza, i no global avevano ragione’ e poi, qualche giorno dopo, scrivere che chi, nel 2001, era contro la guerra dell’Afghanistan era un ‘italtalebano’, dimenticandosi, guarda caso che essere no global significava prima di tutto essere ‘no war’. Anche in questo ‘ventennale’ qualcuno sui media mainstream ha cercato di usare questa occasione per dire che il movimento no global si è ucciso con le proprie mani, non essendo stato capace di separare l’erba buona dal loglio. E’ stata riproposta la divisione tanto netta quanto semplicistica di quel movimento in due filoni ben distinti: da una parte i gruppi pacifici, creativi, idealistici, sostanzialmente “buoni”, dall’altra i gruppi violenti, anti-sistema e fondamentalmente “cattivi”. Questi approcci semplicistici sono stati un tentativo di rinchiudere in schemi e paradigmi precostituiti la complessità di un movimento che ha avuto sicuramente il merito, storico e politico, di porre al centro del dibattito domande e problematiche ancora tutte tremendamente attuali. E’ la stessa cosa che venne fatta due decenni fa nelle stanze dei palazzi del potere: tutti rimasero sopraffatti dalla burocratica esigenza di esorcizzare il demone e impedire che il movimento potesse continuare ad “esondare”. E così venne presa la scorciatoia più facile e più brutale, quella della repressione a livelli che non si erano mai visti prima”.

Prosegue l’introduzione: “E come i governi di allora (prima quello di centro-sinistra poi quello di centro-destra), con più o meno consapevolezza, non cercarono di capire le ragioni di un movimento che non era molto propenso a lasciarsi istituzionalizzare, così, negli anni successivi, quelli che si sono accomodati sulle poltrone del potere hanno solo cercato di legittimare l’obbligatorietà delle scelte della globalizzazione neo-liberista e l’accodarsi della politica alle regole dell’economia capitalista. E’ stato questo il modo di ‘giustificarsi’ dell’attuale ceto politico, fatto di straordinari cesellatori del nulla, di loquaci motivatori della fine di ogni motivazione, di animati ciarlatani che hanno come unico elemento distintivo l’assenza di un pur minimo livello di coscienza. Per questo è necessario parlare del movimento no global da un punto di vista del suo vocabolario, dei suoi obiettivi e dei suoi atti. C’è bisogno di illuminare aspetti che non stati sondati sufficientemente, per demistificare l’azione di distorsione svolta dalla cultura dominante, ripercorrendo criticamente e nella loro reale dimensione i fatti e gli avvenimenti che l’hanno visto protagonista. La ricchezza di quel movimento sta in quello che, in maniera non ancora del tutto esplicitata, ha sedimentato. Nel fatto che sia impossibile fornire per esso una chiave di lettura standardizzata visto che i fili che tessevano quel movimento erano variegati e molteplici, e spesso si intrecciavano in maniera non lineare. Con la nascita dei social forum vennero ridefinite le pratiche dell’attivismo e della militanza, il concetto stesso del far politica, di fronte all’affacciarsi irruente di un’epoca in cui tutti i valori della solidarietà sarebbero stati cancellati. Per raccontare questa storia sono partito dall’esperienza bolognese perché è stata una delle più importanti nel panorama nazionale. Ho iniziato raccontando la storia del ‘No Ocse’, ho proseguito col Bologna social forum, per arrivare poi al movimento contro la guerra. Come stile narrativo mi sono rifatto agli almanacchi che avevano come scopo la diffusione di una cultura di base a livello popolare. Quegli almanacchi a carattere divulgativo che, nell’immediato dopoguerra, rappresentarono il principale, e a volte unico, mezzo di diffusione storica, culturale e politica tra le classi più disagiate. Almanacchi che, un secolo prima in Francia, dal ministro della polizia vennero colpiti perché producevano una ‘influenza disastrosa per la loro carica trasgressiva’, riconoscendone l’alterità rispetto alla cultura ufficiale. Questi annuari non sono una mia scoperta recente. A casa mia, da piccolo, circolavano diversi volumi di stile enciclopedico sulla storia delle rivoluzioni, quello che mi rimase più impresso fu l’Almanacco della Rivoluzione d’ottobre (1917-1967) che mi ritrovai fra le mani a 13 anni e che, probabilmente, lasciò il segno. Poi c’erano tanti numeri della rivista ‘Il Calendario del Popolo’, un periodico che si rifaceva all’esperienza degli almanacchi, che girava molto negli ambienti comunisti rispondendo al bisogno di sapere di un’ampia fetta di operai e di militanti a pochi anni dalla fine dalla guerra di Liberazione”.

Infine, Monteventi scrive che “questo libro si è potuto mettere assieme perché, da diversi anni, il Centro di documentazione dei movimenti ‘Francesco Lorusso – Carlo Giuliani’ ha prima raccolto e poi sistemato e catalogato un’enorme quantità di materiali, scovati nelle case, nelle soffitte e nelle cantine di persone che avevano partecipato a varie stagioni dei movimenti. Per riempire queste pagine sono stati ‘saccheggiati’ gli archivi che si trovano al piano superiore dello ‘spazio autogestito Vag61’ e soprattutto i faldoni del giornale ‘Zero in condotta’. Quindi anche i (furono) giovani redattori di questa rivista alternativa bolognese hanno in qualche modo contribuito con la loro scrittura e i loro articoli di vent’anni fa alla stesura di questo racconto. Li voglio pertanto ringraziare: Rudi Ghedini, Sonia Pellizzari, Elisa Coco, Sara Frau. ‘No global Bo’ è dedicato a Egidio Monferdin, un militante molto attivo negli anni ’70 che fu tra i primi a partecipare al movimento dei movimenti. La sua felicità per questa scelta la espresse in un’assemblea: ‘Io sento il bisogno di ricominciare, perché ho ancora voglia di cambiare, perché è cambiato il mondo, perché siamo cambiati noi, tutti. Le nostre esperienze di vita di questi anni hanno conosciuto e preso strade diverse. Oggi queste strade si sono di nuovo incrociate, in un movimento globale che non si è mai visto. E allora ripartiamo da capo, questo non significa tornare indietro. Quelli della mia età possono elaborare il loro vissuto per avere una base più solida per guardare al futuro’. Una brutta mattina del mese di settembre del 2009 sulla lista del Bologna social forum apparve questo messaggio: ‘Egidio non c’è più. Era un compagno vero, era una brava persona, era un uomo dagli occhi buoni e dal fascino un po’ francese, un po’ noir'”.