Proseguono i raid in Iraq, in territorio turco attacchi da parte kurda. Il Kurdistan iracheno chiede il negoziato: “Così Ankara aiuta il progetto del califfato”.
(da Nena News)
Non cessa la guerra tra Pkk e Ankara. Alle bombe turche sulla montagna irachena di Qadil, i combattenti kurdi ieri hanno attaccato una stazione di polizia a Pozanti uccidendo due poliziotti. Nella successiva sparatoria sono morti due combattenti. Nella provincia orientale di Kars, una bomba è esplosa lungo la ferrovia: un lavoratore è morto nello scontro a fuoco seguito all’esplosione.
Dal 24 giugno, quando si è riaperto il conflitto tra Stato turco e Pkk, lanciato da Erdogan dietro la giustificazione di colpire l’Isis in Siria, sono morti 20 membri delle forze turche, oltre 200 combattenti kurdi e 1.300 persone – sospetti simpatizzanti del Pkk e appartenenti del Partito Democratico del Popolo, Hdp – sono state arrestate.
Le parole del premier turco Davutoglu non lasciano spazio alla speranza di un accordo negoziato: la Turchia proseguirà nell’operazione fino a quando il Pkk non abbandonerà le armi. Armi che non venivano usate da due anni e mezzo, durante il processo di pace promosso dal leader Abdullah Ocalan dalla prigione e mai violato dal movimento kurdo.
A chiedere la pace è l’Hdp per bocca del suo leader, Selahattin Demirtas: “Il dialogo deve riprendere, le mani devono essere tolte dal grilletto e le parti devono tornare al tavolo”, ha detto in un intervento televisivo. Un appello che difficilmente troverà orecchie pronte ad ascoltare: la guerra all’Hdp, spina nel fianco del partito di Erdogan, Akp, è totale. Il procuratore generale di Diyarbakir ha aperto un fascicolo contro Demirtas, accusandolo di aver istigato e armato i manifestanti durante la protesta.
Rischia fino a 24 anni di prigione, simbolo della volontà di spezzare un movimento che non è solo filo-kurdo ma che rappresenta i movimenti di sinistra e dei lavoratori turchi. Una seria minaccia per i piani presidenzialisti e neoliberisti di Erdogan, che con la paura di un nuovo conflitto apre la strada alle agognate elezioni anticipate di novembre.
E mentre cadono bombe sul nord Iraq (secondo l’agenzia kurda Anf, i raid hanno centrato ieri notte il villaggio di Zergele, uccidendo 8 civili e ferendone 15), pressioni per il dialogo arrivano anche dal Kurdistan iracheno: “Non crediamo che ci possa essere una soluzione militare – ha detto il ministro degli Esteri di Erbil, Falah Mustafa Bakir – Speriamo che le parti tornino al negoziato perché stabilità e sicurezza è quello di cui abbiamo bisogno ai nostri confini”.
Erbil, già stretta tra la minaccia Isis e le restrizioni di Baghdad, teme un contagio delle tensioni alla frontiera e nel suo territorio e un aumento destabilizzante del numero di profughi (sonogià due milioni quelli riparati nel Kurdistan iracheno). Ma non solo: aprire guerra ai kurdi, che ad oggi sono stati quelli che meglio hanno resistito all’avanzata islamista tra Siria e Iraq, indebolirebbe il movimento a scapito anche della coalizione internazionale. Di nuovo, Ankara – con la guerra dichiarata al Pkk, sostenitore di Kobane e liberatore insieme alle Ypg degli yazidi bloccati a Sinjar, in Iraq – aiuta indirettamente i piani del califfato che, di certo poco toccato dalle bombe turche, può andare avanti indisturbato.