Opinioni

L’illegalità nella credenza

Riceviamo e pubblichiamo un contributo sulla campagna “Genuino clandestino” promossa dai produttori biologici di Campi Aperti.

05 Novembre 2009 - 01:19

Erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral
(prima viene il mangiare, poi la morale)
Brecht, nell’Opera da tre soldi

C’è un testo di Pallante, circolato ampiamente in rete negli ultimi anni, che parla di yoghurt. La tesi, se non avete voglia di leggerlo tutto, è più o meno questa: se una massa critica di persone comincia a farsi lo yoghurt in casa, questo genera una riduzione delle attività industriali e dei trasporti connessi alla produzione e distribuzione dell’alimento – diminuendo inquinamento e traffico; e in più chi autoproduce spenderà meno e di conseguenza avrà bisogno di lavorare meno e ciò diminuirà l’inquinamento e il traffico generato dal proprio, di lavoro. Infine, possibile corollario, ci sarà meno occupazione ma meglio distribuita, il PIL calerà ma il benessere degli individui crescerà per il minore stress e la soddisfazione del fare qualcosa di pratico.

Trovo questo argomentare superficiale e un po’ spocchioso, e ho sempre sostenuto per contro che vi sia una prevalenza degli elementi di struttura – insomma che il sistema (liberista nella sua ultima incarnazione consumista) non possa essere rallentato o modificato dalla semplice iniziativa individuale, né dalla somma delle iniziative individuali – anche quando queste superassero la soglia di una sparuta testimonianza.
L’operaio o l’impiegata precari (o no, la differenza va progressivamente scemando), magari pendolari, stretti tra un mutuo e la necessità di pagare una baby-sitter o di saldare il debito per la macchina indispensabile a raggiungere un luogo di residenza o di lavoro lontano da mezzi pubblici – ecco questi, per fare un esempio di qualcuno che da meno stress avrebbe solo da guadagnare, probabilmente non possono né possono permettersi di contrarre i propri tempi di lavoro, e di conseguenza neanche di autoprodurre alcunché. Poi ci sono situazioni più sfumate, d’accordo – ma la sostanza mi pare quella.

Inoltre l’autoproduzione di conserve o prodotti fermentati in casa è in sé virtuosa, ma non ha punti di contatto diretti con la normatività e l’oppressività della struttura – tende piuttosto a eluderla; Pallante poi, sopravvalutando l’importanza del vasetto, finisce per riproporre la teoria economica classica secondo la quale la somma delle attività individuali andrebbe a comporre il bene comune, pur ipotizzando un carburante diverso da quello dell’egoismo. Il barattolino di marmellata o la bottiglia di passata di pomodoro fatti e consumati in casa sono sicuramente sterilizzati, ma quanto a impatto sociale, politico e comunicativo restano piuttosto sterili.

Non così invece quando il prodotto trasformato viene messo in circolazione, in vendita, e questo scambio economico viene valorizzato come atto politico esplicito – come avviene nei mercati dei produttori agricoli associati in Campi Aperti (Xm24, Vag61 e Via Udine, tutti a Bologna) con la campagna Genuino clandestino.
Si tratta di una “campagna per la libera lavorazione dei prodotti contadini che nasce per informare i cittadini riguardo a un insieme di norme ingiuste che, equiparando i prodotti contadini trasformati a quelli delle grandi industrie alimentari, li rende fuorilegge. Pane e prodotti da forno, vino, conserve, farine e granaglie, pasta fresca, uova, miele e prodotti da erboristeria: alcuni di questi beni venduti presso i mercati dei produttori biologici di Bologna sono illegali secondo gli attuali regolamenti sanitari nazionali. La legge italiana, infatti, impone a chiunque si occupa della trasformazione di prodotti alimentari di dotarsi di laboratori che rispettino determinati standard di dimensioni e materiali. Standard stabiliti tenendo in considerazione le grandi aziende agroalimentari, che però ignorano e dunque penalizzano le realtà contadine come quelle di Campi Aperti, legate a piccole produzioni biologiche, sane e di alta qualità, ma in difficoltà al momento di affrontare
la spesa della messa a norma di un laboratorio.”
Questi produttori, con il loro porsi in una posizione di assoluta trasparenza e fuori dall’ossessione legalitaria, seminano un campo di temi fondamentali per il nostro presente e futuro, in cui possiamo (rac)cogliere: la pretestuosità di una buona parte delle normative igieniche, l’ipernormazione del settore agroalimentare tutta sbilanciata a favore della Grande Distribuzione Organizzata, lo strangolamento della piccola attività economica e le illusioni spacciate dalle organizzazioni di settore. E ancora: la rilocalizzazione e la costruzione di filiere corte come unica possibile alternativa alla cronicizzazione della crisi; per tacer poi del consumo di suolo a scopi edificatori e del problema di accesso alla terra che proprio la speculazione edilizia genera.
Su qualcosa Pallante ha in definitiva ragione: la questione dello yoghurt si fa politica, e la politica deve partire dalle condizioni concrete di vita e di produzione. Che è poi il percorso nostro e di questi contadini, tutto in salita e portato avanti proprio mentre la politica ufficiale si autoaffonda invertendo la constatazione materialista di Brecht citata in epigrafe, e fraintendendo per sovrappiù morale con moralismo.

Wolf Bukowski