Acabnews Bologna

“Libere di tornare a casa vive e sicure” [foto]

Ieri sera ‘passeggiata transfemminista’, il comunicato inviato a Zic: “Abbiamo deciso di continuare ad attraversare le strade, simbolicamente, anche dopo il coprifuoco”, ma “il problema non è l’apertura dei bar o la possibilità di finire la cena con calma. Essere costrette ad attraversare da solə una città deserta aumenta i rischi e la paura”.

13 Maggio 2021 - 11:00

“Ieri sera (notte) ci siamo riprese lo spazio di cui abbiamo bisogno”. È l’incipit di un comunicato giunto in redazione a firma Realtà transfemministe di Bologna, che prosegue: “La pandemia non è avvenuta in un contesto neutro, e risulta ormai evidente come abbia amplificato le contraddizioni ed oppressioni esistenti. Donne, persone LGBTIAQ+ e migranti sono le più colpite da questa pandemia, perchè già più colpite in quella normalità a cui non vogliamo tornare. Abbiamo camminato insieme per riappropriarci dello spazio pubblico perché la gestione della pandemia ha completamente ignorato la violenza strutturale eteropatriarcale, capitalista e razzista che subiscono donne, froce, lesbiche, trans, intersex, persone disabili, migranti e seconde generazioni, ha portato al definanziamento se non alla chiusura di molti Centri Anti Violenza (CAV) e ci ha tolto gli spazi che ci servono per mettere in atto strategia di autodeterminazione e contrasto alla violenza”.

Prosegue il testo: “La sicurezza che lo Stato ci propone è limitata e spesso controproducente e le limitazioni incoerenti alla libertà di movimento e d’incontro ostacolano le pratiche di mutuo aiuto che come transfemministe abbiamo sempre messo in pratica nel rispetto della salute collettiva. Abbiamo deciso molte volte di farci carico di una responsabilità collettiva del tutto estranea al governo della regione e a quello nazionale, che si permettono di gridare all’emergenza pur essendo i primi responsabili di una situazione causata dallo stesso intento di continuare a garantire i profitti anziché la salute. Durate la zona rossa, il nuovo invito a restare a casa condito con frasi di circostanza sull’importanza di tutelare la ‘parità di genere’, e la riduzione di ogni forma di mobilità che non sia giustificata dal lavoro e dai consumi, ha significato per donne e persone lgbt*qia+ una maggiore esposizione alla violenza maschile e di genere, che si consuma per di più tra le mura domestiche. Le riaperture vengono affrontate in un’ottica iper-produttivista, ed il Comune chiude piazze e parchi favorendo la socialità in luoghi di consumo. Nella gestione della pandemia e della “sicurezza”,lo Stato ha assunto infatti una postura paternalistica, con la quale impedisce ogni possibilità di autogestione e autorganizzazione della nostra sicurezza sia in senso sanitario sia rispetto alla violenza, ed allo stesso tempo, si dimostra drammaticamente incapace di – se non contrastare – quantomeno riconoscere il problema della violenza sulle donne e di genere. Abbiamo vissuto tuttə sui nostri corpi e nelle nostre vite, nel muoverci nello spazio pubblico così come nel confinamento all’interno delle mura domestiche. Lo abbiamo detto tante volte, e lo ripetiamo: per noi, la casa non è mai stata un luogo sicuro. La casa come sappiamo bene è il luogo in cui si riproduce la violenza, che si legittima poi nelle istituzioni, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e attraverso i media. In questi mesi tante donne sono state costrette in casa con padri, mariti, compagni violenti. Tante di noi, lesbiche, froce, trans e soggettività dissidenti si sono ritrovate chiuse in casa con famiglie e coinquilinə omolesbobitransfobicə, ed ulteriormente marginalizzate. Nei piani che si prospettano per la ricostruzione poco o nulla si dice delle misure contro la violenza maschile e di genere, ed il «reddito di libertà» è una risposta del tutto insufficiente contro la violenza. Nel Family Act, quando si parla di ‘conciliazione’ si dà per scontato che il salario accessorio è quello della donna, si divide l’assegno unico per i figli fra genitori come se tra loro non esistessero condizioni asimmetriche e inique. Quando si parla di ‘famiglia’ sappiamo che si parla di qualcosa che esclude le soggettività dissidenti e le donne che non accettano di essere schiacciate in ruoli e generi in cui non si riconoscono. Queste misure escludono tra l’altro le donne migranti: la loro fruizione è possibile solo se in possesso di un permesso di lungo periodo o di un contratto di lavoro di due anni. Noi rivendichiamo infatti il reddito di autodeterminazione per tuttə, anche come strumento di contrasto della violenza economica, legandolo ad un’idea di welfare non solo realmente universale, ma che superi il modello familistico: il significato di quella «autodeterminazione» non è solo pretendere misure più adeguate, ma anche rifiutare in modo incondizionato gli imperativi eteropatriarcali di famiglia, maternità e divisione sessuale del lavoro. Lo Stato non ha adottato degli strumenti efficaci per il contrasto alla pandemia, ma nella sua incapacità gestionale ed ossessione securitaria ha adottato misure che oltre a non contrastare l’aumento dei contagi ci hanno messo in pericolo. La salute non è, o almeno non dovrebbe essere, assenza di malattia, ma benessere sociale. Non ci basta solo avere più servizi, perché sappiamo che non rispondono a buona parte dei nostri bisogni, e la retorica dell’emergenza è ormai obsoleta. Per esempio, l’impossibilità di tornare a casa con qualcunə, evitando di muoversi da solə. Chi di noi si è trovata – per lavoro, per necessità o per scelta – a rientrare a casa dopo il coprifuoco non si è sentita più sicura, anzi. Una città deserta ed abitata solo dalle forze dell’ordine (spesso uomini, violenti e armati) è una città pericolosa. Essere costrette ad attraversarla da solə aumenta i rischi e la paura”.

Continua il comunicato: “La nostra risposta è l’autogestione della nostra sicurezza: sorellanza transfemminista nella consapevolezza della situazione che viviamo e nel rispetto e nella tutela della salute di tuttə. Ci siamo riprese le strade per dire che la violenza di genere non deve essere invisibilizzata, e non basta una pandemia, o la volontà politica di ignorarla a farla sparire. Abbiamo finora scelto di agire dentro i limiti delle prescrizioni previste dai DPCM, di organizzarci sperimentando nuovi modi entro i limiti del consentito – uscire di casa per lavorare o per gli acquisti strettamente necessari a riprodurre la nostra vita, o ritrovarci ai parchi ed in luoghi all’aperto– per rovesciarne il senso e quando non lo abbiamo fatto siamo sempre stat* responsabili mettendo in campo tutta la cura necesaria. Però non accettiamo che l’unica libertà che ci rimane sia quella di essere sfruttate, di dover garantire la continuità dei consumi, di dover sopravvivere per tornare a lavorare domani e per curarci di malati, bambinə, anziani che solo grazie a noi sembrano potersi proteggere dalla malattia. Considerata l’influenza del coprifuoco sulle libertà personali e sui nostri corpi, ci sembra ancor più surreale che l’unico tipo di discussione politica in questo senso si interessi esclusivamente della produzione capitalista. Il problema NON è l’apertura o meno dei bar o la possibilità di finire la cena con calma. Rifiutiamo ogni critica al coprifuoco da parte delle destre, asservite a logiche del profitto capitalista. Le stesse destre che da anni portano avanti retoriche ultracattoliche e patriarcali che vogliono diminuire la nostra autodeterminazione a tutti i livelli. Per questo abbiamo deciso di continuare ad attraversare le strade, simbolicamente, anche dopo il coprifuoco: perchè quello che vogliamo non è essere libere di consumare anche dopo le 10, vogliamo essere libere di tornare a casa vive e sicure e di autogestire la nostra sicurezza. Il tempo della paura è finito. E’ tempo di organizzare la nostra rabbia. Le strade sicure le fanno lə donnə che le attraversano!”.