I Municipi Sociali diffondono le parole di Martina, la ragazza ferita da una manganellata al volto durante lo sgombero dell’ex istituto Santa Giuliana, dopo che la Procura ha chiesto di archiviare la sua denuncia perchè il poliziotto autore che ha sferrato il colpo non sarebbe identificabile: “Rompiamo l’omertà”, scrive l’attivista, annunciando opposizione.
di Martina Solidoro
Ciao a tutte,
mi chiamo Martina, ma la mia storia potrebbe essere quella di tante.
Sono una studentessa di 25 anni. A 18 anni sono venuta a Bologna per compiere gli studi universitari, e mentre avevo la testa china sui libri ogni tanto la sollevavo per guardarmi intorno.
A guardarsi intorno si scoprono cose che sui libri raramente trovi. Si vede la gente che vive per strada e accanto palazzi abbandonati, si ascoltano le storie di precariato, razzismo e violenza, e si vedono nel mondo guerre e stermini di intere popolazioni di fronte a cui diventa impossibile voltarsi dall’altra parte.
Lì capisci che quello che leggevi nei libri aveva senso: esiste il diritto di manifestare.
Farlo per diritti essenziali, come la casa, è ancora più importante.
E un giorno Bum.
Proprio mentre manifesti perché volevano togliere una casa a delle persone alla soglia dell’inverno, ti aprono la testa.
Un manganello ti manda al pronto soccorso con un trauma cranico, sei punti di sutura in fronte.
Un mese dopo prendono a calci nell’inguine una studentessa come te a Bologna.
Giorni dopo caricano un corteo di minorenni a Pisa.
Giorno dopo giorno i giornali raccontano di poliziotti che caricano manifestanti, e lo fanno persino mentre chi manifesta arretra o cerca di parare il colpo, affondando più violentemente sui corpi di studentesse come me.
Penso che il rapporto tra democrazia e conflitto sia una cosa che non si legge sui libri ma la puoi solo vivere nella tua epoca storica. Ma tutto questo è inaccettabile. Una cosa però i libri la dicono, che puoi denunciare, così decido di farlo.
Io il suo volto me lo ricordo. Prima di colpirmi in testa mi ha guardata, mi ha puntata, e ha sferrato la manganellata mandandomi a terra. Denunciando chiedevo che fosse avviata un’indagine seria (anche perchè parliamo di autorità che agiscono su ordine di un superiore del quale andrebbero accertate le eventuali ulteriori responsabilità). Quel giorno, il 17 ottobre 2023, gli agenti in servizio erano pochi e, oltre alle riprese che ho potuto recuperare io stessa, sia la forza pubblica che la stampa e gli attivisti presenti hanno filmato quanto accaduto.
Ma la giustizia – per ora – ha dato la sua risposta: richiesta di archiviazione dal Pm.
Le motivazioni sono le seguenti: “La carenza probatoria non può essere superata mediante l’assunzione di sommarie informazioni e individuazione fotografica da parte della persona offesa”. “In ragione della concitazione del momento in cui si sono verificati i fatti per cui si procede, del numero di soggetti coinvolti e dei caschi indossati dalle Forze dell’Ordine, le sole dichiarazioni di Solidoro Martina, in assenza di riscontri esterni, non sarebbero sufficienti ad individuare con certezza l’autore del fatto, non identificabile dalla visione delle immagini”.
In soldoni: nel 2024 non è possibile identificare un agente di polizia perchè è difficile distinguerlo tra gli altri caschi blu, chi subisce la violenza testimoniata da referti medici non viene nemmeno chiamata per essere ascoltata da chi svolge le indagini, la violenza della polizia viene considerata legittima a priori.
Dov’è la democrazia se non si riesce nemmeno a identificare chi ha fatto cosa tra gli agenti? La richiesta d’archiviazione e le motivazioni addotte non possono essere considerate una risposta accettabile, in uno stato democratico, ma solo un grave silenzio a cui siamo fin troppo abituate.
Quante altre teste devono essere spaccate prima di vedere su quei caschi blu un numero identificativo? Per quante altre violenze dovremo accettare quest’impunità sistemica?
Fortunatamente, nei momenti della vita in cui mi guardavo intorno ho imparato che il sistema di giustizia in cui potevo credere era quello di una giustizia sociale. Ho potuto vedere che mentre lo Stato mi porgeva il manganello da un lato, dall’altro la solidarietà collettiva mi tendeva la sua mano.
E lì ho deciso che qualsiasi cosa fosse successa, non avrei smesso di credere.
Questa lettera si rivolge a tutte e tutti, a chi ci crede, a chi non ci crede, a genitori, student3, insegnanti, figure educative, alla magistratura, e alle parti politiche che ascoltano e quelle che non vogliono ascoltare.
Questa giustizia va riequilibrata. Per questo farò opposizione alla richiesta d’archiviazione, insistendo per la necessità di identificare l’agente che mi ha colpita. E vorrei il vostro appoggio per me – ma anche per tutte le altre come me – perché denunciare quando si subisce violenza, è sempre la strada corretta. E per rimettere al centro il vero significato delle frasi di quei libri: il diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero.
Nell’Europa che libera Ilaria Salis, rompiamo l’omertà.