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Leoncavallo: la storia non finisce il 21 agosto

Lo sgombero voluto dal governo fascio-leghista non è “l’epilogo fisiologico” di un percorso di 50 anni. Hanno voluto colpire un simbolo perché è stata una “storia nostra”, dei movimenti. Verso il corteo del 6 settembre.

26 Agosto 2025 - 10:01

Il simbolo

Con lo sgombero dello scorso 21 agosto hanno voluto cancellare una storia di cinquant’anni, quella del Leoncavallo, spazio di pratiche di autogestione, di lotte e di memorie collettive, crocevia di controculture e di idee incompatibili col fascismo e il razzismo; àncora di salvezza nel grigiore degli anni 90, contro il nulla della cosiddetta “Milano da bere”.

Senza il Leoncavallo e “l’altra città possibile” dei centri sociali, Milano sarebbe stata una metropoli ancora più arrogante.

Il Leo è stato uno spazio di aggregazione, di protagonismo giovanile, di musica, di laboratori artistici e artigianali, di mutualismo e solidarietà. E’ stato una casa delle donne, una scuola popolare, una stamperia, una radio libera, un “museo dinamico” di graffiti e murales, un capannone per compagnie teatrali, un luogo di cultura, di lotte e di memorie collettive. E’ stato un laboratorio politico e umano, immaginato da persone per altre persone, dove è stato coltivato lo spirito di chi, dal basso, si è sempre battuto contro le ingiustizie sociali e contro l’esclusione derivata dalla speculazione edilizia, contro una città a misura di ricchi. Un presidio di accoglienza dove sono state sperimentate nuove relazioni di comunità e pratiche condivise, dove l’autogestione è stata messa “concretamente” alla prova.

Insomma, per decenni, il Leoncavallo c’è stato, eccome, nella storia del nostro paese, e non è stato solo un punto di riferimento nel territorio milanese. Poi, può essere vero, come hanno sostenuto alcuni “scrupolosi pignoli”, che, negli ultimi anni, non si poteva più considerare un “reale soggetto antagonista”, che, in qualche modo, si sarebbe “compatibilizzato” e il suo vecchio imprinting sarebbe stato divorato da una stagione politica finita e che difficilmente si potrà riaprire.

Il logoramento che in questi tempi bui hanno vissuto tanti e tante militanti dei centri sociali è un fatto reale, così come l’insufficienza di strumenti collettivi adeguati alla situazione. La vulnerabilità di tanti spazi è cresciuta e, in questi contesti di maggiore fragilità e debolezza, gli sgomberi e gli interventi repressivi hanno avuto una via più semplice.

Ma da qui a ritenere lo sgombero, l’intervento armato degli apparati dello Stato, “la fine naturale del percorso” ce ne corre… un bel po’. Un conto è criticare certi approdi dell’ultimo Leo, il suo (già da troppo tempo) “non pervenuto” nelle lotte sociali, altra cosa è trarre da alcuni processi, meno convincenti rispetto al passato, la conclusione che l’intervento repressivo sia stato il prevedibile “epilogo fisiologico”.

Eh no, qui non ci siamo: se anche ultimamente il Leo si fosse indebolito, per i fascio-leghisti attualmente al Governo, è rimasto un emblema, uno spauracchio simbolico, da rimuovere con la forza. Il Leonka per questa gentaglia era ancora un’anomalia da ricondurre all’ordine. A questi delle differenze tra “duri e puri” e “moderati” se ne fanno un baffo. Per loro il Leoncavallo (anche in una sua eventuale “versione attenuata”) ha continuato ad attestare che ci possono essere usi non mercantili e senza proprietà degli spazi di aggregazione.

Ed è per questi motivi che questa esperienza deve essere cancellata: la loro normalizzazione passa attraverso la rimozione con la forza di ogni residuo di autonomia.

I mandanti

L’ordine di sgombero è venuto dal governo centrale. E’ stata una delle prime dimostrazioni che il pugno repressivo del DdL Sicurezza funziona. Meloni, Piantedosi, Salvini l’hanno rivendicato con comunicati e prese di posizione.

Meloni: «In uno stato di diritto non possono esistere zone franche o aree sottratte alla legalità. Le occupazioni abusive sono un danno per la sicurezza, per i cittadini e per le comunità che rispettano le regole».

Salvini: «Decenni di illegalità tollerata, e più volte sostenuta, dalla sinistra: ora finalmente si cambia. La legge è uguale per tutti: afuera!».

Piantedosi: «Lo sgombero del centro sociale Leoncavallo segna la fine di una lunga stagione di illegalità. Per trent’anni quell’immobile è stato occupato abusivamente… Dall’inizio del nostro mandato sono già stati sgomberati quasi 4.000 immobili, tra alloggi di edilizia residenziale pubblica ed edifici di particolare rilievo. Lo sgombero del Leoncavallo è solo un altro passo di una strategia costante e determinata che porteremo ancora avanti».

Quello che gli esponenti del Governo hanno fatto è una sorta di esposizione della “vittima sacrificale”, il Leonka è diventato il trofeo di guerra caduto in mano nemica. La sua carcassa, attorniata da un nugolo di agenti in antisommossa, viene esposta sui media e sui social in un tripudio di folla virtuale, con la bava securitaria alla bocca e il gusto della vendetta appagato.

La destra neofascista è stata da sempre ossessionata dalla presenza del Leoncavallo, con lo sgombero del 21 agosto ha fatto l’en plein dei suoi obiettivi repressivi: sopprimere, stroncare, castigare e punire chi non è disposto/a a farsi omologare.

Sicuramente tra le ragioni di eseguire l’operazione di polizia in questi giorni (ancora una volta nel mese di agosto) ci sta anche il fatto di mettere ancora di più in difficoltà l’attuale sindaco Sala. Il primo cittadino milanese e la sua Giunta sono a dir poco infognati nelle inchieste giudiziarie… Insomma, non se la passano troppo bene per via delle loro scelte urbanistiche e del tentativo bipartisan di restituire legittimità a un insostenibile “modello Milano” che ha nella subalternità della politica ai signori del mattone un elemento fondamentale.

E, in effetti, se nel corso di tre mandati (Pisapia, Sala 1 e Sala 2) i sindaci di centro-sinistra non ce l’hanno fatta a trovare una soluzione per il Leo, non si possono tirar fuori dall’avere una qualche responsabilità. E non può Sala dichiararsi stupito e irritato dal non essere stato informato dell’operazione di sgombero durante il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, riunito il giorno precedente l’intervento di polizia.

Tra il Comune e le/gli attiviste/i del Leoncavallo era in corso da qualche mese una interlocuzione per la ricerca di un nuovo spazio, in modo tale che il 9 settembre (quando era stato annunciato lo sfratto dell’immobile) si potesse avere avere tra le mani un’alternativa (il luogo individuato era però fatiscente, bisognoso anche di interventi di bonifica, con costi elevati e tempi lunghi per il recupero).

La destra milanese sapeva di questa trattativa e ha giocato un ruolo non secondario. Una delegazione di Fratelli d’Italia di Milano ha incontrato Piantedosi, è stato coinvolto tutto il Governo e lo sgombero, in anticipo rispetto alla data prevista, è diventato un obiettivo di “tutta la Nazione”.

Era dal 2011 che questa partita poteva essere chiusa, l’assist alla Meloni e compagnia è stato servito dalle Giunte di centro-sinistra.

E così Il Tempo (house organ del Governo) brinda al successo, in titolando “Disokkupati annate a lavorà”: «Dopo 31, interminabili anni, 14 governi e 133 tentativi di sfratti, il Leoncavallo è stato finalmente sgomberato. Un’operazione di polizia chirurgica, precisa, svolta nella massima serenità e senza l’uso di forzature o violenze, coordinata dal prefetto di Milano Claudio Sgaraglia». E Libero gli fa il verso: «Cucù, il Leonka non c’è più».

Intanto, hanno cominciato a farsi più insistenti le voci di un elenco di spazi e centri sociali (collocati in diverse città italiane) che, nei prossimi mesi, saranno sgomberati centralmente con provvedimenti del ministero degli Interni. A Venezia, per esempio, il senatore di Fratelli d’Italia Raffaele Speranzon, a nemmeno 24 ore dallo sgombero del Leo, ha già lanciato una campagna: «Nel 2026 faremo lo stesso con il centro sociale Rivolta», facendo riferimento alla scadenza dell’anno prossimo della convenzione che il Comune ha in essere per l’area utilizzata a Marghera dallo spazio sociale.

Ma oltre ai mandanti politici, ci sono stati pure quelli economici e finanziari. Infatti, nello stesso pomeriggio del giorno dello sgombero, l’agenzia Ansa, poco dopo le 15, ha battuto un lancio: «Vola in Borsa Brioschi, la società immobiliare della famiglia Cabassi che controlla L’Orologio, proprietaria dell’immobile a Milano occupato dal centro sociale Leoncavallo. Il titolo guadagna il 4,24% a 0,06 euro».

L’Orologio (controllata al 100% da Brioschi) è la società che nel marzo 2001 ha citato in giudizio gli occupanti del Leo. Il Tribunale di Milano nel 2003 ha pronunciato nei confronti dell’associazione Mamme del Leoncavallo la condanna al rilascio dell’immobile, confermata in Corte d’Appello e poi in Cassazione.

Il commento più efficace in tutta questa vicenda è stato fatto da Marina Boer, presidente dell’associazione Mamme antifasciste del Leoncavallo (formatasi dopo i funerali di Fausto e Iaio, i due ragazzi, attivisti del centro sociale, uccisi il 18 marzo 1978 a colpi di pistola perché stavano indagando sulla connessione tra spacciatori d’eroina ed ambienti dell’estrema destra neofascista nella periferia milanese): «Milano sta diventando una città di merda, in cui non c’è nessuna possibilità nemmeno di proporre delle alternative, una visione diversa, la possibilità di creare una socialità […]. È una città che è stata piena di cultura, di attività, un modello per tutt’Italia per le proposte culturali: gli sta bene questo deserto, questo happy hour a tutte le ore? A noi no».

La storia

E, prendendo a prestito quel “a noi no” delle mamme del Leo, per tutte quelle e per tutti quelli a cui non va bene quello che sta succedendo, ci sembra utile raccontarla la storia del centro sociale diventato, suo malgrado, il più famoso d’Italia.

Il tutto cominciò il 18 ottobre 1975 alla periferia nord est di Milano, in via Leoncavallo 22, nel popolare quartiere del Casoretto. Una serie di collettivi di zona, provenienti da diverse esperienze politiche legate ai gruppi della sinistra extraparlamentare, occuparono una fabbrica dismessa di prodotti farmaceutici, in un quartiere di solide radici operaie, che aveva un legame storico con la cosiddetta “Stalingrado d’Italia”, quella Sesto San Giovanni, dove sorgevano le più importanti fabbriche del milanese.

Il 18 marzo 1978 si cominciò a parlare del Leoncavallo anche fuori da Milano, fu il giorno in cui due studenti, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Fausto e Iaio) furono uccisi con otto colpi di pistola vicino al centro sociale.

Ai funerali dei due ragazzi parteciparono migliaia di persone e, tra queste, c’era anche un gruppo di donne del quartiere. Sfilarono dietro a uno striscione con la scritta «Le mamme di tutti i compagni piangono i loro figli». Da quel giorno quelle donne decisero di partecipare, insieme ai ragazzi e alle ragazze più giovani, all’occupazione del centro sociale, per combattere la diffusione dell’eroina, ormai diventata una piaga sociale gravissima nei quartieri di periferia. Con la loro presenza la collettività del Leoncavallo divenne sempre più composita: insieme ai vecchi militanti c’erano i ragazzi e le ragazze dei collettivi delle “controculture giovanili” e le/i militanti dei collettivi autonomi. Dentro lo spazio si portarono avanti le campagne contro il nucleare (il referendum si svolse nel 1987) e ripresero centralità i movimenti studenteschi. In ambito musicale arrivarono i concerti dei 99 Posse, degli Almamegretta e dei Subsonica.

Poco alla volta, il Leoncavallo divenne uno spazio importantissimo per un’intera generazione di militanti, cresciuta nelle ceneri del movimento del ’77 e all’ombra dell’Autonomia Operaia post inchiesta 7 aprile 1979, che si mischiò molto bene ai giovani musicisti, ai graffitari, ai redskin e ai punk.

Il 16 agosto 1989, su richiesta dei proprietari, la famiglia Cabassi (storici immobiliaristi milanesi), con l’assenso dell’amministrazione comunale guidata dal socialista di Paolo Pillitteri, la Prefettura decise lo sgombero, a cui le e gli occupanti opposero una resistenza che nessuno si sarebbe mai aspettato.

Le 24 ore a cavallo tra il 15 e il 16 agosto 1989 furono descritte mirabilmente da Bruno Segalini nel suo libro “Fiamme & Rock’n’Roll”, dove si racconta come lui e la sua sgangherata rock band si trovarono coinvolti, un po’ per caso, un po’ per scelta, in una vicenda che divenne leggendaria: “quando ci vuole ci vuole”, oltre a questo urlo, dal tetto del Leo, venne lanciato di tutto. Seguirono scontri durissimi con la polizia, ma l’inizio della demolizione dello spazio venne bloccata e si conquistò una nuova occupazione da cui ripartì la ricostruzione del Leonka. Quella battaglia campale produsse una straordinaria mobilitazione in tante città italiane.

E’ bene ricordare che, sempre a Milano, nel mese gennaio del 1989 c’era stato lo sgombero del centro sociale Conchetta, che a settembre dello stesso anno venne rioccupato.

Il 23 e 24 settembre nel capoluogo lombardo si tenne l’incontro nazionale “Contro i padroni della città” che si concluse con un grosso corteo. Quel convegno fu un vero e proprio incubatore: nel giro di qualche tempo si diffusero occupazioni di spazi su tutto il territorio nazionale dando vita, nei fatti, al “movimento dei centri sociali”. Da lì a poco esplose pure il movimento della Pantera.

La resistenza dell’agosto 1989 segnò quindi, simbolicamente, l’ora della riscossa, si dimostrò all’esterno che con la determinazione di un gruppo di compagni/e e di militanti decisi/e si poteva incrinare anche la macchina repressiva.

Gli anni Novanta

Se, negli anni ’90, Milano veniva considerata la capitale underground d’Europa, più di Berlino e Amsterdam, questo avvenne soprattutto per le attività politiche, sociali, culturali, artistiche e musicali portate avanti dal Leoncavallo e dalla rete dei centri sociali milanesi. Gli spazi autogestiti erano la faccia radiosa di un città viva, dinamica, aperta e inclusiva. La Milano di oggi avrà pure i grattacieli ma è diventata chiusa, grigia, escludente, semimorta.

Nel 1993 divenne sindaco Marco Formentini, il primo leghista a sedere sulla poltrona più alta di Palazzo Marino, era stato eletto con la promessa di sgomberare il Leoncavallo. Il suo chiodo fisso erano gli illegali leoncavallini che lui bollava come “randagi”.

Il Leoncavallo, da sempre ossessione delle destre (oltre che Formentini, in prima fila c’era l’ex missino Decorato), divenne così terreno di scontro frontale in città e, nei fatti, i centri sociali e le realtà di movimento si trovarono ad essere per un bel po’ di tempo l’unica vera opposizione all’avanzata della Lega e delle sue posizioni in città. Ci furono cortei e momenti di tensione per diversi mesi, per il Leo si cercò di mettere in piedi una trattativa, ma i risultati furono scarsi e così, in una gelida mattina del 20 gennaio 1994, lo storico spazio venne sgomberato. Ci fu resistenza passiva da parte degli attivisti e delle attiviste, dal presidio di protesta partì un corteo che raggiunse un capannone industriale in via Salomone, nella periferia sud-est della città, assegnato in via transitoria dalla Prefettura.

Il momentaneo periodo di tregua che ne seguì saltò il 27 marzo 1994 con la vittoria alle elezioni politiche di Berlusconi e con lui anche di Bossi e Fini. Il 25 aprile a Milano ci fu una grande manifestazione nazionale contro il nuovo governo delle destre: enorme partecipazione nel nome dell’antifascismo, pochi contenuti rispetto al nuovo scenario politico a cui si era costretti.

E’ difficile dire, se come conseguenza alla vittoria della destra, a farne le spese tra i primi sia stato il Leoncavallo, fatto sta che il 9 agosto 1994 lo spazio di via Salomone venne all’improvviso sgomberato dalle forze dell’ordine.

Il Leo rispose immediatamente lanciando un corteo nazionale per il 10 settembre. Nel frattempo, l’8 settembre, venne occupata una nuova sede nell’ex cartiera di via Watteau, in zona Greco, sempre di proprietà della famiglia Cabassi. Ci fu subito un tentativo di sgombero da parte della polizia, un gruppo di militanti salì sui tetti dell’immobile, altri formarono blocchi stradali in vari punti della città. Il reparto dei celerini si ritirò, con l’idea che la “resa dei conti” sarebbe avvenuta solo due giorni dopo.

L’appuntamento per il corteo di sabato 10 settembre era a Porta Venezia. La manifestazione fu qualcosa di straordinario, per la partecipazione (più di 20.000 persone), per la combattività, per la consapevolezza di non voler fare nessun passo indietro. La piazza emanava una grande energia. I funzionari della Questura contestarono la presenza in testa al corteo di file di militanti schierati e “travisati” con tute bianche e fazzoletti sul viso che ne impedivano il riconoscimento. La manifestazione partì a rilento in una situazione di completa blindatura da parte delle forze dell’ordine, con limitazioni al percorso previsto. Nel momento di massimo afflusso il corteo venne accerchiato in una piazza non sufficiente a contenere tutti i manifestanti. Nel frattempo la sfilata crebbe a dismisura, la pressione degli agenti diventò insostenibile, dopo mesi di vessazioni, divieti e denunce, la rabbia esplose in modo liberatorio: gli uomini di un reparto di Polizia, presente in via Turati, vennero travolti dai manifestanti. Il corteo, a quel punto, cominciò a scorrere senza ostacoli, ci furono scontri davanti al Consolato americano. Militari e agenti effettuarono una carica pesantissima sulla coda della manifestazione. Il corteo venne inseguito fino alla Stazione centrale e tallonato fino alla zona di Greco. Qui, circa 2.000 persone si barricarono all’interno dei capannoni da poco occupati di via Watteau. Dopo un assedio poliziesco per diverse ore dell’intero quartiere, la Questura decise di far ritirare i suoi uomini.

A partire da quella giornata e per tutti gli anni Novanta il Leonka, per un pezzo di una generazione inquieta e ribelle, si conquistò un posto di primo piano nell’immaginario delle lotte. E’ di quel periodo la presenza costante degli “invisibili” delle “tute bianche”, diventate negli anni successivi il simbolo della disobbedienza civile e sociale in tante situazioni di conflitto e, soprattutto nei controvertici del movimento no global in giro per il mondo. Al tempo stesso, il Leo avrebbe continuato a disturbare i sonni delle destre e ad alimentare i loro peggiori incubi.

La vendetta, se così la vogliamo chiamare, si verificò poco più di un anno dopo, il 19 dicembre 1995, nel pieno di una campagna antiproibizionista per legalizzazione delle sostanze a cui il Leonka aveva partecipato. Ecco cosa scrisse il centro sociale in un volantino intitolato “Vandali”: «Alle 6.30 di questa mattina un ingente contingente di polizia e carabinieri mascherati hanno portato a termine due diversi procedimenti giudiziari nei confronti del C.S. Leoncavallo, il primo riguardante il sequestro delle strutture necessarie per l’allestimento di concerti all’interno del centro e la seconda riguardante perquisizioni e arresti cautelari, di un numero ancora imprecisato di persone, per sostanze stupefacenti. Un atto di “polizia giudiziaria” caratterizzato per i pestaggi dei compagni che stanotte dormivano all’interno del C.S., con tanto di manganelli e catene, mettendo scock davanti alla bocca, distruggendo macchine che sostavano all’interno del centro… Denunciamo inoltre che le cosiddette forze dell’ordine e i poteri forti della magistratura hanno in realtà voluto coprire, con un’operazione giudiziaria, la totale devastazione del centro sociale stesso che, schierato apertamente in una battaglia antiproibizionista, si vede ampiamente criminalizzato per le scelte che opera…»

La Carta di Milano del 1998

Probabilmente il momento politico più alto che ha visto protagonista il Leoncavallo combaciò con l’assemblea tenuta al Leonka il 19 settembre 1998 e che vide la partecipazione di molti centri sociali italiani. Alla fine dell’incontro venne presentato un documento, intitolato “la Carta di Milano”, che riassumeva le rivendicazioni di un movimento che si stava consolidando.

Nel documento erano centrali temi come il reddito di cittadinanza, la lotta al precariato, l’antipribizionismo, la criminalizzazione delle lotte sociali, una campagna di amnistia per i reati legati al conflitto sociale e per i detenuti politici degli anni ’70, la depenalizzazione/decriminalizzazione dei reati legati all’ esercizio dei diritti sociali negati, la depenalizzazione/decriminalizzione dell’ uso delle sostanze stupefacenti, la scarcerazione dei malati gravi e dei malati di AIDS, il diritto alla libera circolazione degli uomini e delle donne migranti con l’immediata chiusura dei centri di detenzione temporanea per le persone prive di permesso di soggiorno.

In quel testo (che sarebbe molto avanzato anche ai giorni nostri) si scriveva: «Crediamo opportuno collocare l’esperienza dei centri sociali in una battaglia generale, di conquista di diritti di cittadinanza piena, per tutti, a cominciare dal reddito, come vera e propria riforma conflittuale del welfare, intraprendendo percorsi di riappropriazione dal basso della ricchezza sociale… Reddito di cittadinanza come nodo politico fondamentale e orizzonte ideale (a fronte di una statica riproposizione del lavoro per rispondere a nuovi bisogni sociali ) per aprire una nuova fase di conflitti sociali e mobilitazioni, unica vera battaglia capace di unire concretamente soggetti e società reale, da nord a sud… Questo “diritto” non ci appartiene perché non è più adeguato ad interpretare le condizioni sociali prodotte dalle profonde trasformazioni che stanno attraversando questo paese. La sanzione penale di comportamenti sociali causati da un modello di sviluppo che garantisce solo precarietà ed esclusione in un’ assenza totale di prospettive per il futuro, è la dimostrazione di quanto sia ormai tramontata la cultura giuridica di questo paese. Pensiamo che, come per le lotte sociali, così per l’ uso delle sostanze stupefacenti l’ utilizzo del Codice Penale sia un crimine contro l’ umanità! Al pari dell’uso della pena detentiva nei confronti dei malati di AIDS e delle “emergenze sociali”… Crediamo sia ormai irrimandabile la necessità di individuare una soluzione politica complessiva, a carattere nazionale, che permetta ai centri sociali di uscire dalla dimensione di precarietà cui sono stati costretti, restituendo alla liberazione degli spazi e al riutilizzo delle aree dismesse il valore sociale che gli appartiene. Intendiamo intervenire sia dal punto di vista di ciò che oggi esiste, di quegli spazi che siamo riusciti a conquistare nel corso degli anni, sia dal punto di vista di una legislazione attualmente inadeguata che deve saper riconoscere la peculiarità della dimensione autogestionaria e ne salvaguardi l’indipendenza e l’autonomia politica, gestionale, amministrativa».

Sull’insieme di quegli obiettivi la Carta di Milano proponeva di organizzare e promuovere una campagna nazionale a partire dal mese di ottobre successivo.

Dopo Genova 2001

Da quel momento di confronto e dal percorso successivo di mobilitazione vennero stimolate tante realtà sociali nel nostro paese. Era vicina l’esplosione del movimento no global, il “camminare domandando” imparato dagli zapatisti, le mobilitazioni contro i vertici dei potenti della terra (Praga, Nizza, Goteborg), le giornate di luglio 2001 contro il G8 a Genova. In tutti questi luoghi e a tutti questi appuntamenti le ragazze e i ragazzi del Leoncavallo c’erano, con o senza tuta bianca.

Negli successivi lo Spazio Pubblico Autogestito (così si era ridefinito il Leo) continuò a mantenere la sua forte impronta antiproibizionista (feste del Raccolto e della Semina), si rafforzò la sua immagine di luogo destinato alla produzione e alla fruizione della musica (rassegne di concerti come Freego! e Sound Ciak!, e festival come Game Over Milano, con dinamiche extramercato), alle attività mutualistiche (Cucina Pop capace di sfornare centinaia di pasti solidali con prodotti provenienti in gran parte da produttori del progetto de La Terra Trema), a progetti di accoglienza per i migranti, alle Critical Wine, alla Ciclofficina, a percorsi artistici (GaliLeo, I graffiti del Leoncavallo, ed. Skira 2006) e culturali (il laboratorio teatrale).

Sfumò invece quel connotato di radicalità e attivismo politico che l’aveva caratterizzato nei decenni precedenti. Questo, però, non lo “salvaguardò” ugualmente dagli attacchi della destra, come, per esempio, la chiassosa campagna di Salvini del 2006 “Leoncavallo… a lavorare”.

Dopo alcuni anni in cui la famiglia Cabassi non richiese lo sgombero della struttura di via Watteau, a un certo punto, ricominciò a pretendere di rientrare in possesso dell’immobile. E così, nel 2011, il Leoncavallo ritornò ad essere notizia ghiotta per i media. La Giunta del nuovo sindaco Giuliano Pisapia aprì un tavolo tra il Leo e la proprietà Cabassi affinché la posizione dello spazio venisse regolarizzata. La destra tornò ad abbaiare alimentando polemiche a non finire. La proposta di pagare 700.000 euro all’anno richiesti dalla famiglia Cabassi non poteva stare in piedi, ma anche la mediazione di far pagare 500.000 euro alle varie associazioni operanti dentro il Leo aveva dell’impossibile.

Dopo 10 anni, nel 2021, la posizione del Leonka rimaneva “abusiva” ed essendo “occupanti” risultavano ancora sotto sfratto esecutivo. A novembre 2024 il ministero dell’Interno era stato condannato a risarcire (per mancato sgombero) più di tre milioni di euro alla società dei Cabassi, proprietaria dell’area. Il ministero a sua volta si era rivalso contro Marina Boer, la presidente dell’associazione “Mamme antifasciste del Leoncavallo”. Questa la situazione che ha portato allo sgombero dello scorso 21 agosto, con i vari esponenti nazionali della destra che hanno esibito lo “scalpo” del Leo come un trofeo da ostentare alle “pance” dei loro follower. Lo sgomitare per chi poteva intestarsi il merito dell’azione di sgombero è stato qualcosa di vergognoso.

Dopo lo sgombero cosa bisognerebbe fare

In casi come questo, dopo aver subito una mazzata considerevole, viene spesso da dire “potrebbe essere comunque l’occasione per una ripartenza”. Ma per cogliere questo tipo di occasioni ci vorrebbe la disponibilità di un discreto quantitativo di “sale in zucca” (tradotto potrebbe dirsi pure “maturità politica”).

Speriamo che ci sia… Noi, in primo luogo, facciamo nostre le parole del cantautore Alessio Lega, sintetiche ed efficaci: «Ora la lotta, la resistenza, il rifiuto. Nessuno sgombero è accettabile, ogni occupazione va difesa: con l’inchiostro, con lo sputo, col sudore, col sangue. Ogni discussione critica sull’oggetto dello sgombero – utile, velleitaria, dolorosa, rancorosa – si fa fino al giorno prima dell’attacco, dal giorno appresso la riconquista. Ora solo la lotta».

In secondo luogo, chiediamo cortesemente a chi si dichiara solidale con il Leoncavallo di smetterla di domandare “e allora CasaPound?”… E la cosa più drammatica è chi si appella al rispetto della legalità lo fa “per garantire un trattamento paritario”… Anche perché lo sgombero di Casa Pound sarebbe veramente una magra soddisfazione: non ridarebbe uno spazio al Leo e, soprattutto, non si può mettere sullo stesso piano la storia dei centri sociali in Italia e un covo di fascisti (che andrebbe chiuso non perché è occupato, ma perché fascista… poi come può esserlo oggetto di dibattito?).

Altra questione: la scelta dei compagni di strada… Come abbiamo sentito dalla diretta voce della premier, lo sgombero del Leoncavallo è stato fatto nel nome della legalità (come del resto suggerisce la recente approvazione del Ddl Sicurezza ). Sempre in nome della legalità, nel corso degli anni, sgomberi analoghi di spazi sociali sono stati fatti da amministrazioni comunali guidate dal centro-sinistra (vale la pena ricordare il periodo di Cofferati sindaco a Bologna e, per rimanere nella stessa città, gli sgomberi di Atlantide e dell’Xm24 fatti dalla giunta Merola)… Quindi, un po’ di chiarezza con chi camminare a fianco non guasta mai.

Il Leo è stata una storia nostra, collettiva, di una generazione che ha visto nella ribellione la possibilità di cambiare le cose e, perché no, il mondo. La pratica delle occupazioni (piazze, scuole, università, fabbriche e luoghi abbandonati) era l’apertura di nuovi spazi di progettualità, era la dimostrazione che di cose se ne potevano fare senza dover stare per forza sotto a un padrone, che di risposte ai bisogni sociali si potevano dare senza sottostare alle regole del mercato.

E’ questa immagine di “movimento collettivo” che hanno voluto colpire e l’hanno fatto in un momento storico in cui per loro le condizioni sociali e politiche sono favorevoli, in cui i rapporti di forza sono ben chiari e di certo non volgono a nostro favore.

L’hanno fatto in maniera sguaiata, in una logica di vendetta (erano anni che ci speravano), perché odiano le nostre idee, odiano i libri che leggiamo, odiano la nostra musica, disprezzano i nostri comportamenti, ma soprattutto temono, come ha detto mirabilmente un compagno, la nostra “fame di libertà” (loro che sono stati allevati con il mito e la soggezione delle gerarchie).

Ma se pensano che chiudendo un centro sociale o sgomberando un’occupazione abitativa possano risolvere le contraddizioni di una società che hanno reso più povera si sbagliano. La “guerra tra poveri”, per ora, ha prodotto le loro attuali fortune, ma non riusciranno a mettere il bavaglio e silenziare chi la povertà e il disagio sociale li combatte da tempo.

Questa vicenda, però, ci dice anche che, quando non si è più in grado di tentare di modificare l’esistente e si resta fuori e distanti dal conflitto sociale, si diventa più deboli e si rischia di trasformarsi in un “facile bersaglio” delle azioni repressive.

Forse, nella sua carica di rottura, la storia del Leo si era affievolita da tempo, ma nel suo complesso è stata una storia di dignità che ci riguarda tutti e tutte. Perché, per i fascisti che ci governano, colpire il Leoncavallo ha significato volere soffocare l’idea di vivere una città diversa, aperta e solidale, impedendo qualsiasi forma di opposizione e dissenso. Perché non sopportano qualsiasi segno lasciato della nostra esistenza come soggetto collettivo.

Nella vicenda del Leoncavallo c’è in gioco anche uno spazio politico, quello del conflitto sociale espresso da chi ritiene di non dover sottostare a un concetto di legalità che normalmente significa interesse privato, speculazione, privilegi per pochi e arricchimento individuale.

Per tutte queste ragioni riteniamo sia utile e necessario esserci a Milano il prossimo 6 settembre, per il corteo lanciato dall’assemblea che si è tenuta nei pressi del Leoncavallo sgomberato il pomeriggio del 21 agosto.

Quella manifestazione servirà a rilanciare una risposta di massa alle politiche securitarie di questo Governo.

La parola d’ordine di antica memoria “Giù le mani dalla città” è di un’attualità straordinaria. I modelli di città che ci vengono proposti da Milano a Bologna, da Firenze a Roma, sono escludenti per i più deboli e sono abbordabili solo dai ceti più ricchi.

Il corteo del 6 settembre può veramente essere l’occasione per la ripartenza di una intelligenza collettiva che ha delle cose da dire sulle trasformazioni delle città (portate avanti anche dal centro-sinistra), dove le contraddizioni scomode da affrontare vogliono essere nascoste, dove le emergenze abitative che esistono dappertutto non si risolvono con le politiche urbanistiche che sono state messe in campo. A sostegno del Leoncavallo e di tutti gli spazi comuni, per una cultura accessibile, a difesa dei diritti universali, contro chi (poteri finanziari ed economici) inquina le nostre vite e alimenta le bocche da fuoco del “legalismo repressivo”.

Ci saremo in quella piazza, non per riaprire una stagione che ormai si è esaurita, non per dare credito a una sinistra istituzionale sempre più bollita, ma per urlare in faccia alla Meloni, Salvini e Piantedosi che nessun sgombero può cancellare un’idea ancora viva di libertà e giustizia sociale, che il conto non si è chiuso la mattina del 21 agosto.