Lavoratori e lavoratrici costrette/i a vivere in tenda. Lo sfratto col muro abbattuto e la polizia in antisommossa che fa irruzione nell’alloggio. Un edificio occupato da tante famiglie senza un tetto.
Un’emergenza che viene da lontano
«Il diritto alla casa è un sogno? Il diritto alla casa non esiste? Come se avere un alloggio dignitoso fosse una pretesa. Ci vogliono far credere che esiste solo e soprattutto il diritto alla rendita. Ponti d’oro per le grossa e media proprietà immobiliare, tasse e affitti stratosferici per piccoli proprietari e inquilini. Perché il diritto alla casa è diventato l’emergenza sfratti? Perché invece che al diritto alla casa le amministrazioni comunali pensano ai progetti speculativi delle immobiliari?».
Quello che avete appena letto non è un pezzo di un editoriale pubblicato in questi giorni, è la parte di un articolo che apparve su un giornale di movimento nel novembre del 1993.
«Il dato che documenta lo scandalo della mancanza di abitazioni in città è questo: a Bologna ci sono 21.438 alloggi formalmente non occupati (formalmente, nel senso che molti appartamenti sono abitati da studenti senza contratto d’affitto)… Le persone che sopravvivono in strada sono in aumento, diminuisce l’età di chi ha perso tutto e sono sempre più complesse le situazioni che portano all’emarginazione. Ci sono persone che non sanno dove andare a dormire anche se un lavoro ce l’hanno, magari nei cantieri e comunque sempre in nero».
Anche queste sembrano parole scritte ai giorni nostri e, invece, vennero pronunciate da Massimo Zaccarelli nel dicembre del 1998 sul giornale di strada Piazza Grande. Massimo, che era stato un senza fissa dimora, divenne una delle figure più attive dell’associazione che si occupava dei senza casa (dopo la sua morte, alla sua memoria venne dedicato uno dei dormitori pubblici della città). Il dato dei 21.348 alloggi “non occupati” è sbalorditivo perché ha un’analogia con quello odierno dei 15 mila appartamenti vuoti a cui vanno aggiunte le migliaia di quelli trasformati in B&B.
Sempre nel 1998, ma nel mese di novembre, una cinquantina di famiglie di origine magrebina, sprovviste di una minima soluzione abitativa (con gli uomini per lo più lavoratori dipendenti in aziende bolognesi), partecipò ad un’occupazione in via Rimesse di immobili Iacp, vuoti da tempo. Lo sgombero dello stabile avvenne dopo pochi giorni da parte della polizia. Buttate/i per strada donne, uomini e bambini partirono in corteo verso il Comune. Arrivate/i sotto Palazzo D’Accursio, trovarono solo le dichiarazioni respingenti dell’assessore alle Politiche sociali: soluzioni non ce n’erano, soprattutto perché l’Ente locale non intendeva “premiare” l’illegalità delle occupazioni.
Con la prospettiva di ritornare di nuovo senza un tetto, in una situazione climatica sempre più vicina allo zero, la forza della disperazione di quelle donne, di quegli uomini e di quei bambini portò alla decisione di entrare nella vicina Basilica di San Petronio.
Sull’occupazione di San Petronio, Michele Serra, che allora era noto per essere stato il direttore del settimanale satirico Cuore, scrisse su Repubblica del 14 novembre 1998 un mini-editoriale dal titolo: «La difficile ricerca della misura», come si trattasse di uno scontro tra “sceriffi e banditi” in un’improbabile città del West. Da uno che aveva diretto un “settimanale di resistenza umana” ci si sarebbe aspettati qualcosa di diverso.
Per fortuna, ci fu Stefano Benni che disse la sua: «I veri squatters a Bologna non sono quelli che occupano le case, ma la gente con un sacco di miliardi che si sta comprando Bologna pezzo dopo pezzo. Un tempo le chiese erano luoghi dove venivano accolti i viandanti, i pellegrini, dove si rifugiavano i poveri. Quindi, io non vedo nessuna profanazione. Sono cinque anni che questa città va avanti a sgomberi e occupazioni, è una città ricca che potrebbe risolvere i suoi problemi, perché le case sfitte ci sono. Non capisco perché ci sia tanta indifferenza rispetto al problema abitativo. Sì, Bologna è razzista come tante altre città d’Italia. E’ diventata razzista perché ha avuto degli esempi di politica che non sono andati in senso contrario. Noi dovremmo avere il coraggio di stracciare l’immagine da cartolina illustrata che Bologna aveva un tempo, perché non è più così. I gesti eclatanti continueranno finché questa Bologna continuerà ad avere cittadini di serie A, serie B e serie C».
Il concorso di colpa e i nomi dei colpevoli
Quello che abbiamo appena scritto sta a dimostrare che l’emergenza abitativa a Bologna non è cosa apparsa dal nulla e solo nell’ultimo periodo, sono almeno trent’anni che si alimenta e si intensifica. Quindi il balletto dello scarico di responsabilità tra il sindaco e i suoi assessori che danno la colpa al governo (per i tagli al fondo sociale per l’affitto e per il suo sottrarsi da politiche pubbliche per la casa) e l’opposizizione di destra che butta la responsabilità dalla parte del Comune, difendendo la Meloni, è qualcosa di nauseante.
Sul diritto all’abitare, sia i governi nazionali che i governi delle città (di entrambi gli schieramenti politici) si sono alternati in un concorso di colpa che, di fatto, ha accentuato progressivamente il problema, facendolo diventare un dramma.
Dal 1990 ad oggi i presidenti del consiglio sono stati: Giulio Andreotti, Giuliano Amato (due volte), Carlo Azeglio Ciampi, Silvio Berlusconi (tre volte), Lamberto Dini, Romano Prodi (due volte), Massimo D’Alema, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte, Mario Draghi, Giorgia Meloni.
Esisteva una legge del 1963, la numero 60, che istituiva la Gescal (Gestione per le Case dei Lavoratori), un ente di edilizia popolare sorto per gestire il patrimonio di edilizia pubblica, finanziato con una contribuzione mista (trattenute dello 0,35% sulle buste paga dei dipendenti, un’aliquota dello 0,70% a carico dei datori di lavoro, e una quota a carico dello Stato). Dieci anni dopo la sua costituzione, nel 1973, la Gescal fu soppressa. La sua liquidazione venne formalmente avviata con la legge n. 9 del 1974. La soppressione dell’ente non eliminò, però, le trattenute sulle buste paga dei dipendenti né le aliquote a carico dei datori di lavoro, che continuarono ad essere vigenti fino al 1998.
Da quell’anno scomparve dal Bilancio dello Stato ogni finanziamento dell’Edilizia residenziale pubblica, rimasero però nelle disponibilità dello Stato i residui che allora venivano stimati in oltre 30.000 miliardi di vecchie lire. L’ordine di grandezza dei contributi e degli importi raccolti dall’ex Gescal rappresentavano valori estremamente significativi, negli anni successivi però non c’è mai stata chiarezza sulla gestione e sulla destinazione di quei fondi, e in particolare verso il loro utilizzo, spesso distorto, come più volte è stato ammesso da numerose verifiche e dalla stessa Corte dei Conti. E’ stato ripetutamente dimostrato e denunciato come circa il 35% dei fondi ex Gescal fossero stati destinati dalla Cassa Depositi e Prestiti verso altre finalità.
Che ci siano state delle responsabilità delle forze politiche che formavano le maggioranze dei vari governi che si sono succeduti è lampante, d’altronde raramente si sono sentite sollecitazioni affinché il patrimonio raccolto dalle contribuzioni ex Gescal fosse restituito alle Acer territoriali e ai Comuni, affinché venisse utilizzato per le finalità per le quali era stato costituito.
Si tratta di una situazione paradossale: ancora oggi i fondi ex Gescal costituiscono un ricco “tesoretto dormiente” custodito nei forzieri della Cassa Depositi e Prestiti, che li gestisce in un unico conto corrente come un fondo globale, nel quale si compensano le posizioni di cassa negative con quelle positive delle singole Regioni. I fondi ex Gescal, invece, potrebbero essere destinati a coprire le spese per gli interventi di ripristino di case popolari sfitte per le quali i Comuni non dispongono delle risorse necessarie per gli interventi.
Poi, con la Legge n. 3 del 18 ottobre 2001 che riformava il titolo V della Costituzione (conferendo alle Regioni i poteri esclusivi in materia di Edilizia residenziale pubblica), scomparve definitivamente nel nostro Paese un intervento centrale, unitario e generale, nel settore dell’edilizia pubblica. (dal punto di vista della sua programmazione, del finanziamento e dell’organizzazione dei livelli delle prestazioni). Le leggi e i regolamenti regionali che vennero approvati successivamente segnarono in modo irreversibile le finalità del comparto dell’edilizia sociale, differenziando fortemente il settore a livello nazionale; con aspetti che variavano da significativi indirizzi privatistici, fondati sulla logica dell’autofinanziamento (soprattutto al nord), a situazioni di fortissimo indebitamento e crisi di risorse, esposte ad ulteriori processi di alienazione del patrimonio (soprattutto al sud).
Per quanto riguarda i sindaci di Bologna (Vitali – due mandati, Guazzaloca, Cofferati, Delbono, Merola – due mandati, Lepore) hanno per lungo tempo indirizzato le politiche per la casa del Comune verso l’acquisto con mutuo dell’abitazione, hanno ritenuto fin quasi ai giorni nostri che la questione dell’affitto sociale fosse un problema marginale che riguardasse una minoranza esigua della popolazione. Non hanno voluto vedere le trasformazioni sociali che avvenivano nella loro città, hanno coperto per decenni fenomeni di vero e proprio strozzinaggio effettuati nei confronti degli studenti universitari fuori sede. Hanno visto aumentare in migliaia di unità il numero delle famiglie che partecipava ai bandi Erp o ad altri bandi per l’affitto sociale, ma sono riusciti a “garantire” per decenni solo una media di 400 alloggi all’anno, allungando all’infinito le liste d’attesa. Non hanno mai ascoltato chi, dai banchi del consiglio comunale o da fuori il Palazzo, richiedeva residenze collettive per giovani lavoratori e studenti e una maggiore attenzione alle politiche dell’abitare sociale, denunciando una situazione che si andava via via deteriorando.
Il peggiore di tutti è stato Cofferati che ha portato il numero di alloggi Erp vuoti, per via delle mancate ristrutturazioni, al livello più alto (indaffarato com’era per gli sgomberi sul Lungoreno, la cosiddetta “accoglienza disincentivante”, la repressione dei lavavetri e nelle campagne moralistiche sulla “legalità”). Subito a seguire Merola (col suo assessore al turismo Lepore), che ha permesso la “trasformazione turistica” della città, lasciando al mercato le redini del gioco. Producendo, di fatto, un aumento generalizzato degli affitti (a prezzi inaffrontabili per la maggior parte dei lavoratori dipendenti), permettendo la conversione di migliaia di alloggi in B&B, trasfigurando l’emergenza abitativa in dramma.
Adesso il Comune può anche dire: «Il diritto alla casa non può essere lasciato alle sole regole del mercato». Ma, ormai, i buoi sono scappati…
Plat, il comitato antisfratto e il muro abbattuto
A Bologna, come in diverse altre parti d’Italia, il problema della casa viene percepito, da chi è costretta/o a subirlo, come una vera e propria calamità sociale. Se ne sono dovuti accorgere anche i media mainstream che, assenti o sbadati per lungo tempo, negli ultimi anni hanno iniziato a raccontare storie di vita di persone rovinate dalla mancanza di un tetto, o di episodi scandalosi per bugigattoli, scantinati, sottoscala, divani affittati a prezzi indecenti, ben oltre il limite dell’immoralità.
Queste continue denunce, questi casi sempre più assillanti, hanno prodotto qualche cambiamento significativo nelle politiche per l’abitare? Da quello che si vede in giro sembrerebbe di no.
Il caso più eclatante è quello dell’“acampada” di tende sotto il portico della Chiesa dell’Annunziata di cui hanno parlato i giornali una decina di giorni fa. Non sì è trattato di una forma ormai usuale di protesta che i movimenti hanno adottato in diverse occasioni. Quella lunga fila di canadesi e sacchi a pelo è soltanto l’induzione forzata a cui sono state costrette alcune decine di lavoratrici e lavoratori che, per via dei loro miseri stipendi, non sono in grado di affrontare i costi dell’affitto in città. E in tutte queste storie, al dramma della mancanza di casa, si somma l’obbrobrio dei salari da fame: oggi avere un lavoro non è più sufficiente per potere vivere con un minimo di dignità.
E, in una situazione sempre più inaffrontabile, si va ad aggiungere la denuncia del sindacato Sgb che, in una conferenza stampa sullo stato di Ergo (l’azienda regionale per il diritto allo studio universitario), ha segnalato la chiusura di 350 posti letto “per mancato intervento tecnico” negli studentati pubblici dell’Emilia-Romagna (in una situazione alloggiativa già fortemente inadeguata).
Su questi temi, a Bologna, chi si è mobilitato di più è una realtà come Plat, la piattaforma di intervento sociale nata nel 2022. Sportelli sociali, picchetti antisfratto, occupazioni, azioni di autorecupero (come per lo stabile di via Carracci), varie azioni di lotta, questi sono i momenti di un lavoro costante e quotidiano.
Infatti, la mattina del 23 ottobre in via Michelino, in quello sfratto dove il padrone abbatteva a mazzate il muro dell’alloggio e gli agenti in antisommossa che con scudi, caschi e manganelli facevano irruzione nell’appartamento, a sostenere quei bambini impauriti e la loro famiglia, c’erano le attiviste e gli attivisti di Plat. Se quell’immondo episodio di “violenza legale”, a “bassa soglia”, è stato filmato e denunciato è perché, oltre alle riprese, a prendersi le manganellate c’erano loro. Così come sono state chiare le loro parole: «Da fine agosto il Dl Sicurezza del governo Meloni è entrato in piena attuazione anche a Bologna, portando a un radicale aumento della violenza contro le fasce meno garantite della città. Il picchetto anti sfratto, unica pratica sociale per resistere contro la rapacità dei padroni immobiliari e della rendita, è pesantemente sotto attacco come forma di autodifesa sociale. Con lo sfratto di giovedì si è toccato un nuovo apice di brutalità, con padroni in combutta con la Celere che non hanno esitato a sfondare mura e porte davanti a bambine e bambini per garantire il loro futuro profitto sulla vita di tante persone».
Ma le attiviste e gli attivisti di Plat non si sono fermati alla denuncia, il giorno successivo, come comitato antisfratto, hanno sentito la necessità di ricorrere a misure radicali :«Di fronte a un contesto eccezionale di repressione abbiamo risposto con una misura eccezionale come quella della riappropriazione abitativa di un immobile pubblico per alzare la voce e chiedere una soluzione per tutte le famiglie sotto sfratto, una moratoria contro gli sfratti, e l’urgenza di bloccare l’emergenza abitativa».
Così si sono aperte le porte di un grande edificio, la cui area corre su tre vie (Don Minzoni, Fratelli Rosselli e del Porto), di proprietà dell’Asp Città di Bologna (l’azienda per gli interventi sociali e i servizi alla persona del Comune e della Città Metropolitana).
Si chiamava “Palazzo di aiuto materno”
L’immobile di rilevanza storica si sviluppa in un’area gigantesca di 11.000 metri quadrati, su cinque piani, a poche decine di metri dal Mambo (la galleria comunale d’arte moderna). Un tempo si chiamava “Palazzo dell’Istituto di aiuto materno e assistenza ai lattanti” ed era stato costruito all’inizio del secolo scorso per usi abitativi e sociali.
Dopo il passaggio del patrimonio delle Opere Pie prima alle Ipab poi alle Asp, il complesso di via Don Minzoni divenne una proprietà dell’Asp città di Bologna. Negli anni ’90 l’immobile fu utilizzato per l’emergenza abitativa. Per diversi anni gli appartamenti vennero assegnati come alloggi di transizione a famiglie in stato di bisogno, tramite contratti di affitto agevolato. Poi l’Asp cominciò a svuotare parti del fabbricato per una situazione di “precaria sicurezza”; in quei frangenti alcuni appartamenti furono occupati abusivamente da altri senza casa, a causa della persistente emergenza abitativa che si viveva in città.
L’11 giugno 2015, le ultime 16 famiglie (con 18 minori) vennero fatte uscire. Sul posto erano presenti alcuni attivisti del sindacato inquilini Asia che diedero una mano in quel “trasloco forzato”. Faticosamente vennero trovate alcune sistemazioni alternative.
Il 15 dicembre 2017 due consiglieri comunali di Coalizione Civica, Federico Martelloni ed Emily Clancy (allora all’opposizione), lanciarono l’allarme per il rischio di vendita dell’intero stabile da parte dell’Asp: «C’è qualcosa che tocca… Con una semplice delibera che non dovrà nemmeno passare dal Consiglio comunale, la Giunta autorizza l’Asp alla vendita dell’intero complesso denominato “Palazzo dell’Istituto di aiuto materno e di assistenza ai lattanti”… Questa decisione è sbagliata e incomprensibile visto che arriva in un momento di gravissima tensione abitativa, di fronte alla povertà e alla disuguaglianza crescenti che rendono difficoltoso per molte famiglie provvedere alle spese per l’affitto… Ci sono ripetute denunce di gravi difficoltà per trovare alloggi in affitto sul mercato da parte di studenti, lavoratori e famiglie, per la crescita senza freni delle locazioni turistiche da un lato e per i veti razzisti dall’altro… All’elenco vanno aggiunti anche i fallimenti dell’Agenzia metropolitana per l’affitto e dei progetti di autorecupero e microcredito… Di fronte a tutto questo la giunta Merola pensa sia cosa buona e giusta disfarsi di una proprietà pubblica di grande valore in pieno centro».
Per dovere di informazione, riportiamo parte del comunicato uscito in questi giorni dal gruppo consiliare di Coalizione Civica: «L’amministrazione comunale sta facendo il massimo possibile con i mezzi e le risorse che ha. Ma da soli non ce la faremo, quelle immagini (dello sgombero con l’abbattimento del muro, ndr) le vedremo più spesso se non mettiamo un argine. Il proprietario ha abusato del suo potere, che va equilibrato con il diritto alla casa»… Si possono comprendere i cambi di posizione avvenuti in questi anni, ma dalla critica radicale all’assoluzione totale delle politiche sull’abitare dell’amministrazione, dello spazio ce ne corre. La scelta di stare in maggioranza potrebbe essere vissuta anche in un modo un po’ diverso dal accontentarsi di essere la malferma stampella della Giunta.
Lasciando per un attimo da parte le logiche dei posizionamenti a Palazzo d’Accursio, e ritornando al l’edificio occupato da pochi giorni, va detto che venne completamente svuotato nel 2018 col trasferimento degli Uffici del Servizio elettorale che stavano al piano terra di via Don Minzoni 12.
Nel 2023, nell’ambito del concorso globale di architettura Reinventing Cities, è stato presentato un progetto (come si dice oggi) di rigenerazione urbana denominato “Molo Bolo”, portato avanti dalla società belga Life Nv (Living in Funky Environments Nv), in collaborazione con Iter Studio Associato (come architetto-urbanista) e Airis (come esperto ambientale). Il progetto prevede la realizzazione di un maxi-studentato privato, con il 30% dei posti da assegnare a prezzi calmierati. Asp concederà alla cordata un diritto di superficie di 99 anni sull’immobile, non è quella vendita che temevano nel 2017 i consiglieri di Coalizione Civica, ma, ugualmente, una privatizzazione per 99 anni dovrebbe esser qualcosa difficile da digerire, invece no (cè poco da fare: così va il mondo)…
Il sindaco Lepore, per difendere il progetto di Asp con l’agenzia belga ha detto che «quello di via Don Minzoni è proprio l’immobile più sbagliato da occupare». E, allora, lo trovi lui un altro per accogliere quei 74 bambini e i loro genitori. Perché la Regione può anche sostenere, a proposito dello sgombero di via Michelino: «Immagini che non appartengono alla storia della nostra terra».
Ma al suo presidente è bene ricordare che l’ente che presiede è oggi quello deputato ad affrontare le questioni abitative e, se non si vogliono più vedere quelle immagini, vanno approntate politiche che eliminino le cause che portano a quelle immagini. La lacrimuccia compassionevole da oratorio, in questi casi, serve a poco, a molto poco… e può essere scambiata per una lacrima da coccodrillo.
Solidarietà e avidità proprietaria
In uno di quei sondaggi che vanno di moda su internet, un post chiedeva: “Siete d’accordo con lo sfratto delle due famiglie a Bologna?”. Nei giudizi apparsi sotto la domanda sono apparsi più di 3.000 commenti, carichi di tutta quella merda che solitamente si annida nei social.
Per fortuna, nella vita reale, si trova qualcosa di diverso. La presa di posizione più significativa è stata quella delle inquiline e degli inquilini del condominio Porto 15, dirimpettai delle famiglie occupanti: «Esprimiamo la nostra piena solidarietà alle famiglie che stanno, con dignità, ridando vita a decine di alloggi abbandonati nel Palazzo di aiuto materno. Un pezzo del nostro stesso palazzo, ma con un destino diametralmente opposto: se via del Porto n. 15 è tornata ad essere alloggi sociali e comunità viva, il resto è destinato a diventare posti letto in uno studentato di lusso. Ieri siamo statə da loro, a portare la nostra vicinanza alle famiglie, al comitato anti-sfratti e a Plat – Piattaforma di Intervento Sociale. Abbiamo ascoltato il papà sfrattato in via Michelino che da mesi cerca casa, ma ovviamente non la trova, a cui le lavoratrici dei servizi sociali inermi e incolpevoli di fronte al definanziamento sistematico del welfare hanno potuto proporre solo una stanza d’albergo distante 60 km da Bologna. Abbiamo ascoltato una mamma vittima di violenza che ha dovuto lasciare la casa dell’ex compagno maltrattante altrimenti le avrebbero allontanato i figli per violenza assistita, e che da un anno è senza casa. Non è la sola, dentro Plat ci sono donne vittime di violenza che hanno perso la casa per salvarsi la vita. Abbiamo ascoltato la maestra, di cui già avevamo letto sui giornali giorni fa, che insieme al figlio è senza casa a seguito del rincaro dell’affitto, da 600 a 1.200 euro, al rinnovo del contratto. Abbiamo visto una marea di bambine e bambini. Abbiamo visto comparire disegni alle finestre, pulite dalla polvere di decenni, e un cartello con la scritta “doposcuola” appiccicato ad una porta. Gli sfratti brutali di via Michelino ci riguardano tutte e tutti, la nostra città sembra da anni rassegnata a questa nuova normalità. Andiamo avanti, illudendoci che a noi, tanto, non potrebbe mai capitare, ma non è così: a Bologna ci sono intere famiglie e madri sole con figlie e figli, con un reddito, fragili e non, che restano senza casa da un giorno all’altro. E qua si pensa a costruire studentati per ricchi».
Ma c’è pure chi, in questa vicenda, ha visto qualcosa di strabiliante. Parliamo di Elisabetta Brunelli, presidente di Ape-Confedilizia che, dopo lo sfratto con abbattimento del muro, ha confezionato un pacchetto di parole sbalorditivo: «Bologna sta diventando la Gotham City d’Italia, una città dove il rispetto delle regole è considerato un dettaglio superfluo e la proprietà privata quasi un reato morale. Case occupate, affitti non pagati, contratti ignorati: chi lavora e chi rispetta la legge si ritrova spesso ostaggio di un sistema che protegge chi viola le regole e punisce chi le osserva. La città che amava definirsi dotta e giusta sembra ormai governata da un’ideologia che confonde solidarietà con anarchia, tutela con lassismo…».
Probabilmente la signora Brunelli di fumetti ne legge parecchi se ha intravisto in Bologna la città immaginaria di Batman, o il “paese dei folli o delle capre” dell’Inghilterra medievale, famoso nelle leggende di quel periodo per la sua presunta follia… Forse, alla presidente dell’Associazione della Proprietà Edilizia bolognese dovrebbero essere assegnate almeno due ore la settimana, obbligatorie, di “ascolto socialmente utile”, così verrebbe a conoscenza di come si campa nella vita reale.
Una provocazione, ma mica tanto…
La responsabilità è una palla difficile da far rimbalzare, ma in questi giorni, sull’emergenza abitativa, se ne sono rimpallate tante di responsabilità tra governo locale e governo nazionale: tra quelle assunte a quelle negate, tra quelle ignorate a quelle sottovalutate, tra quelle rinfacciate a quelle falsificate.
Questo giochino si è riprodotto diverse volte in questi anni, ma di risultati non ne ha prodotti, anzi la situazione è peggiorata. Pertanto, pur non essendo avvezzi alle suggestioni dei “grilli parlanti” cerchiamo di indirizzare la barra su altri scenari.
«Considerato che gravissima è la carenza degli alloggi nel Comune essendo pendenti richieste per alloggio in numero di 1147 da parte di sfrattati e sfrattandi, che attraverso informazioni prese attraverso normali organi di informazione risultano essere assolutamente nell’impossibilità di procurarsi un quartiere o altra sistemazione per non avere i mezzi per pagare un fitto corrente al mercato libero anche di una sola camera, il sindaco ordina la requisizione immediata dello stabile».
Non si tratta di un editto leninista, finito nelle mani di un primo cittadino nostalgico del potere dei Soviet, ma dell’ordinanza di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze di orientamento cristiano sociale.
Era il 1953 e il problema più drammatico che La Pira dovette affrontare era quello dell’emergenza casa. Era preoccupato per l’aumento degli sfratti: 437 nel 1950, 799 nel 1951, per il 1952 ne erano previsti più di mille. Decise, pertanto, di varare un programma di edilizia pubblica (le “case minime”) e, per fronteggiare l’emergenza, chiese ad alcuni proprietari immobiliari di affittare temporaneamente al Comune una serie di appartamenti vuoti. Di fronte alle risposte negative, ordinò la requisizione degli immobili. La Pira emise l’ordinanza su suggerimento di un magistrato cattolico, Giampaolo Meucci, che gli fornì l’appiglio giuridico scovando una legge del 1865 (la n. 2248) che prevedeva la possibilità per l’autorità amministrativa, «per grave necessità pubblica, di disporre della proprietà privata». La firma di quell’ordinanza attirò su La Pira critiche e attacchi da ogni parte, anche il Papa Pio XII parlò di “banditori carasmitici”, richiamando la dottrina sociale della Chiesa a una politica anticomunista senza cedimenti. Ma La Pira non arretrò, tirando dritto sulle sue scelte.
In tempi più recenti, nel 2011, la quarta sezione penale del Tribunale di Roma, confermando quanto già stabilito in precedenza in un caso analogo dalla Corte di Cassazione nel 2007, stabilì con una sentenza che «requisire appartamenti sfitti per contrastare l’emergenza abitativa non è reato».
Poiché «il fatto non sussiste», i giudici romani decisero di assolvere dal reato di “usurpazione di pubbliche funzioni” tre presidenti di tre municipi romani, Susi Fantino (IX), Sandro Medici (X) e Andrea Catarci (XI), sotto accusa per aver requisito nell’ottobre del 2007 –«in via urgente e temporanea» – più di 200 appartamenti sfitti per impedire che le famiglie affittuarie fossero sfrattate. Solo un modo per tamponare, anche se parzialmente e provvisoriamente, l’esplosiva emergenza abitativa della capitale.
«Per difendere un diritto sociale contemplato dalla nostra Costituzione», disse Sandro Medici.
E, allora, non sarebbe ora che anche dalle parti di Palazzo D’Accursio si trovasse un po’ di coraggio e si iniziassero a percorrere anche strade di questo tipo, rispetto a strutture vuote o a ex caserme?
Tra l’altro, è bene ricordare che Giorgio La Pira negli anni successivi fu beatificato e venne fatto santo… Quindi, chissà, ci potrebbe essere anche questa possibilità… avendo a Bologna uno che nella Chiesa (con la “C” maiuscola) qualcosa conta.
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