Umanesimo, ritorno, rancore: un approfondimento che indaga “la voragine in cui questo documento trascina intere generazioni a venire e con esse la possibilità di democrazia reale di questo Paese attraverso la scuola”. Riceviamo e pubblichiamo.
di Collettivo di Scrittura Nolite (*)
Che cosa ci dice il testo delle nuove Indicazioni Nazionali per la scuola dell’infanzia e del Primo ciclo di istruzione?
Innanzitutto ci parla di un rancore a lungo covato nei confronti della scuola repubblicana e della classe docente, che ha un colore politico e una bandiera ed entrambi sono neri. Neri di neofascismo rampante, ma anche neri perché allevati nell’ombra di in una vita sotterranea e nascosta negli anfratti del consumismo e del progressismo di superficie del Belpaese.
Queste Indicazioni non sono a tutt3 invise come tendiamo a immaginare noi, posizionate come siamo nella nostra coscienza di genere e di classe. Al contrario, allineano una serie di parole e concetti cari a una fetta ampia della stessa classe docente.
Una lezione, questa, che il Pasolini di Salò ci ha magistralmente consegnato ma noi, Paese senza memoria e distratto, abbiamo seppellito nell’ipnosi collettiva del berlusconismo.
Per capire la voragine in cui questo documento trascina intere generazioni a venire e con esse la possibilità di democrazia reale di questo Paese attraverso la scuola, dobbiamo riconoscere ed elencare le parole-mantra tanto care a una categoria umana e professionale in declino come quella delle persone docenti attuali.
La prima parola è UMANESIMO: un nuovo umanesimo, citato a più riprese nelle pagine della premessa e debordante nei passaggi di sistema come quelli sulle discipline-simbolo dell’ossessione ministeriale, ovvero la storia e l’insegnamento della lingua italiana.
Siamo davvero immemori se non riusciamo a cogliere l’eco evidente della temperie culturale e sociale che caratterizzò l’avvento del Fascismo in Italia. In letteratura erano gli anni di correnti come Valori Plastici, toccate e lambite anche da poeti sommi del Novecento italiano come Ungaretti, che predicavano il ritorno alla classicità, come forma e misura delle poetiche. Ma anche e soprattutto come modello di un’etica di Stato. Il nuovo umanesimo di cui si blatera nella premessa delle Indicazioni è vecchio e anche assai meno raffinato dell’operazione primo novecentesca degli intellettuali italiani vicini e attratti dal fascismo. Per comprenderlo basta leggere il testo: è un umanesimo che significa innanzitutto antropocentrismo, una summa di un contro-movimento copernicano, l’individuazione di una misura canonica della realtà: L’UOMO, ovviamente cis-etero-bianco e maschio.
Ciò su cui più insiste l’ideologia ministeriale è la totale subordinazione di qualsiasi ragionamento sulla collettività in vista di un primato assoluto dell’individuo. Questo assioma corre per tutto il testo e incardina le articolazioni dei saperi. Ed è per questo che l’orizzonte delle discipline si restringe e diviene a misura di singolo individuo: tornano i confini, riemergono le tradizioni come bussole impazzite di un viaggio nel passato. E la storia non è più la ricerca di una restituzione vivida e attenta di quanto accaduto, ma si rimpicciolisce nell’aneddotica, nella riproposizione di tante piccole storie esemplari da appuntare nella memoria e sul bavero della giacca dei futuri Italiani.
Allo stesso modo la lingua è spogliata di ogni complessità e si ritrova ad essere piegata alla forzata nazionalizzazione di ogni soggettività parlante. Per capire quanto violenta sia l’istanza che sostiene il discorso delle Indicazioni sull’insegnamento dell’italiano, basterebbe ricordare in cosa consistette l’azione del fascismo sui confini tirolesi nel dominio mussoliniano: sostituzione dei cognomi e dei toponimi non italofoni e cancellazione degli aspetti spuri, di contaminazione, nello spazio fisico e simbolico delle popolazioni di confine. Non è difficile rinvenire la stessa solerte volontà di cancellazione nelle pagine che indicano dettagliatamente, affondando nei contenuti, cosa si DEVE insegnare quando si lavora su lingua e letteratura.
In Alto Adige, durante il ventennio, la doppia ss dell’alfabeto tedesco veniva trasmessa di nascosto dalle maestre altoatesine perché era considerato reato insegnarla a scuola: con la stessa solerzia il nostro ministero emette circolari che vietano segni alfabetici come la schwa e gli asterischi perché simboli di una presunta corruzione della lingua. Come se la lingua potesse mai essere innocente essendo, quale è, consustanziale al vivere, incorporata da soggettività diverse e resa mobile dalle traiettorie delle esistenze. Ma innocente e pura è invece la tradizione che i ministeriali sognato di restaurare, sottraendola al corrompersi del presente – come il Graal perduto delle saghe fantasy che tanto amano le Culture di destra – attraverso la restaurazione del canone.
Per comprendere il disegno che sottende queste Indicazioni occorre mettere questa definizione di umanesimo in relazione con la seconda parola-valore della premessa: la PERSONA. Mai come oggi risulta problematica quest’assunzione colpevolmente ingenua e ideologica della parola persona. Dopo le scoperte delle neuroscienze, dopo la revisione profonda del concetto di vita messa in atto dai femminismi antispecisti e dalle riflessioni post pandemiche su ecologie ed ecosistemi, le nuove Indicazioni restaurano una concezione della persona pre-moderna. Giuridicamente fondata sul diritto romano e filosoficamente ricalcata sulla patristica cattolica, la persona a cui aspira lo studente italiano dovrebbe essere una conquista legata alla capacità economica, sostanzialmente la possibilità di possedere, e moralmente delineata sul rispetto e l’introiezione della regola. Proprietà e regola, d’altra parte, seguono una parabola comune nella storia economico-giuridico-filosofica occidentale e le nuove Indicazioni sembrano voler tornare a quella stessa parabola che culmina nell’alleanza fortissima del potere economico e di quello ecclesiastico, per la cancellazione di ogni altra forma di organizzazione sociale e proprietaria basata sull’idea di beni comuni. Il femminismo materialista di Federci ci ha mostrato a quale genocidio è stata capace di dare adito quest’alleanza e oggi non stupisce il prepotente ritorno di un clima di “caccia alle streghe” alimentato da costellazioni catto-integraliste sostenute e foraggiate dalle piattaforme dei poteri economici antidemocratici. Cappe e spade sono le stesse di un tempo e a cadere sono le tante docenti (donne) che, in questo secolo scarso di democrazia, hanno versato un tributo altissimo in termini economici e personali all’alfabetizzazione costituzionale del Paese ricevendone, in cambio, un salario esecrabile divorato dalla cura a cui oggi si aggiunge un’esposizione insostenibile al linciaggio mediatico ad opera della spregiudicata fame di visibilità dei partitini sovranisti italiani.
Non sfugge che se il crisma della persona si gioca tra possesso e coscienza, il perimetro entro cui ci si muove è assai netto e limitato: si diviene persona nell’intenzione del potere che riconosce e nomina ciò che sta in questo perimetro. E così i confini arretrano se gli attributi non sono graditi al potere: il colore della pelle, il genere, la condizione economica, le abilità richieste. Le donne, le persone trans, le persone migranti, le persone con abilità differenti, le persone indigenti non sono “abbastanza” persona secondo l’ideologia sovranista che sostiene le Indicazioni. E infatti non vengono nemmeno nominate, risucchiate, come sono, nella zona grigia e vaga della parola “altro”. Quando serve, però, il confine si estende: accade già nell’attacco sostenuto nei parlamenti d’Europa (e in quello italiano da esponenti di spicco del Governo) a favore del riconoscimento della personalità giuridica del concepito. E questo affinché si possa disporre come di un bene, quindi ancora una volta come di una proprietà, della capacità riproduttiva dei corpi sfruttati e cancellati delle soggettività oppresse che, infatti, persone non sono nel momento in cui la loro capacità di autodeterminarsi viene azzerata. In sintesi, si diventa persone prima di nascere in virtù di quel potere che, nello stesso tempo, non riconosce come persona chi osa varcare un confine.
Educare al nuovo umanesimo mira dunque a introiettare lo status di persona come fine ultimo della formazione. Va da sé che generazioni sostenute da queste visione ideologica e funzionale della persona, saranno inclini a non riconoscere nella capacità di autodeterminazione delle soggettività un valore altrettanto evidente quale quello della cosiddetta “vita nascente”. Ben al di là, allora, dei richiami all’obbedienza si spingono le Indicazioni: naturalizzare la gerarchia tra persone e non persone è l’obiettivo reale di quest’operazione. Così come le associazioni antiabortiste chiedono – e ottengono sempre più spesso – l’obbligo ad ascoltare il battito fetale, altrettanto il documento ministeriale obbliga ad “ascoltare” soltanto le istanze del potere e “silenzia” la legittimità di parole e d’azione di chi è oppresso.
Ed è così che giungiamo, infine, al rancore come nota emotiva ma anche come leva esperenziale che sostiene il colpo di spugna delle nuove Indicazioni sulla scuola italiana. Per decenni si è lasciato che la scuola fosse l’ultima sponda di marginalità varie: economiche, geografiche, esistenziali. La periferizzazione della professione docente rispetto ai centri d’interesse del dibattito pubblico, va di pari passo con la sua precarizzazione e la sua femminilizzazione. Ma quello che la conduzione ministeriale del dicastero della scuola è riuscita a realizzare è lo spostamento semantico e simbolico dalla rabbia al rancore. La rabbia sappiamo poter essere organizzata, restituita in termini di movimento, sindacato, corpo politico sfociando in mediazione e/o trasformazione. Il rancore segue un vettore individuale, si risolve nell’identificazione di un capro espiatorio, si alimenta nell’impotenza e nel rifiuto di ogni trasformazione. C’era una platea ampia di docenti illivoriti da anni di precariato, da disistima sociale, da marginalità sostanziale. Di questo si son resi complici tutti i soggetti istituzionali precedenti a questo governo: le Università pubbliche, che hanno segnato una cesura e una gerarchia fortissima tra mondo della scuola e mondo della ricerca. Ne hanno ricevuto in cambio la rimonta degli atenei telematici privati e la cannibalizzazione delle risorse destinate alla ricerca stessa. La politica, che ha reso la scuola una voce di risparmio in tutte le contingenze di mercato. E il sistema massmediale e dell’informazione, che ha derubricato l’argomento scuola a questione da “specialisti” da risolvere soltanto in toni emergenziali, come panacea e alibi di tutti i mali sociali. In questa spirale hanno giocato un ruolo essenziale anche le nuove povertà, la burocratizzazione degli apparati e delle organizzazioni scolastiche e la caduta degli spazi culturali intermedi di mediazione ed elaborazione: basti guardare a cosa è accaduto all’editoria italiana dove la scrittura magistrale è stata autorizzata solo dentro i contenitori di un’editoria scolastica di qualità bassissima e scollegata dal dibattito culturale. Dove sono i Gianni Rodari e i Mario Lodi pubblicati dalla grande editoria nei giorni nostri?
Di queste docenti sempre più marginalizzate si è smesso di occuparsi e si è lasciato che le scuole divenissero città aperte, terreni di conquista abbandonati ma anche sguarniti di consapevolezza e contezza del proprio ruolo sociale.
Queste condizioni hanno legittimato e aperto la porta agli agguerriti predoni della galassia anti-scelta e per un decennio abbondante si è lasciato che a farne le spese fossero soltanto le single scuole, le singole docenti, a fronte di un’indifferenza collettiva colpevole e miope spesso targata PD.
Si è lasciato che questi movimenti fossero ascoltati, resi credibili. Non si è compreso che il vero obiettivo degli stessi era la distruzione del pensiero critico e della scuola della Costituzione che ne è la premessa determinante.
Queste Indicazioni sono il frutto della fusione della doppia appartenenza di questi movimenti : istituzioni e lobby ad un tempo. Sono loro oggi a dettare l’agenda della scuola e a loro il Ministro concede totale agibilità.
Queste Indicazioni, anche dove nella premessa, parlano di una nuova alleanza scuola famiglia, sostengono e danno corpo all’idea che la famiglia (sempre una e al singolare in quanto archetipo tradizionale) possegga il primato educativo rispetto alla scuola. Un primato che cancella nei fatti e nelle intenzioni la stessa libertà di insegnamento. Un primato che necessita di un potere di controllo. Nel tentativo goffamente camuffato di tornare ai programmi c’è l’idea che dentro il perimetro stretto di ciò che deve essere fatto e non il risultato atteso, indeterminabile, è possibile esercitare il potere del controllo esterno da parte delle famiglie.
In questo schema il Ministero utilizza il rancore della classe docente.
Un rancore che è cresciuto, si è alimentato di una difficoltà crescente a far fronte alle tante istanze che la complessità del reale poneva. Il desiderio di agire verso una semplificazione ha allettato la disperazione di molte e la parola “ritorno” ha cominciato a circolare con insistenza nelle scuole italiane. Il ritorno al voto di condotta, il ritorno ai contenuti, il ritorno al valore e al prestigio del maestro, il ritorno ai ruoli e all’autorità costituita. E se per raggiungere questa “restaurazione” è necessario rinunciare alle prerogative costituzionali della scuola, ovvero la libertà d’insegnamento e la libertà di dissentire, si è disposti a farlo perché nella solitudine delle singole, accidentate ed esili carriere magistrali, il recupero di minimo potere di coercizione sembra una conquista grande come un reame.
Ne Il racconto dell’ancella Margaret Atwood, quando deve scegliere quale fosse il mestiere della terribile carceriera zia Lydia, non esita e la immaginarla maestra di scuola dell’infanzia. Perché lo status di sottomessa rende inclini a esercitare appena possibile la sottomissione e non a liberarsi delle catene che opprimono. Il rancore delle persone docenti nasce da lunga abitudine al buio di isolamento e marginalità: non abbiamo voluto visitare questi spazi di auto-reclusione e adesso i “mostri” sono usciti allo scoperto e sono pronti ad accogliere e a mettere in pratica un “programma” di sostanziale smantellamento della scuola pubblica e laica italiana, volenterosi carnefici di loro stessi.
(*) “Nolite te bastardes carborundorum” è per certi aspetti la sintesi e il manifesto di un movimento di liberazione delle ancelle della Gilead descritta da Margaret Atwood.
Un invito a non farsi schiacciare ma allo stesso tempo un motto carbonaro che si tramanda tra soggettività oppresse.
Il codice di comportamento per i dipendenti della scuola, della ricerca, dell’università, del mondo della sanità e in generale di ogni comparto della PA agiscono in combinato disposto con il nuovo Decreto sulla sicurezza cercando di reprimere e contenere le possibilità del dissenso.
Il prezzo da pagare per l’esercizio pubblico del pensiero critico, eretico e divergente è alto e allo stesso tempo ingiusto e incostituzionale.
Per questo motivo un gruppo di persone che attraversano la scuola da diversi punti di vista si è messo assieme e ha fondato Nolite : un collettivo che offre uno spazio sicuro e attraversabile per ragionare assieme e prendere coralmente la parola nello spazio pubblico.
È corpo vivente non controllabile né imbrigliabile attraverso la torsione autoritaria che stiamo subendo.
È pratica di lotta. È autodeterminazione. È uscire fuori dalla dimensione individuale per fondersi in una dimensione politica collettiva che non è processabile.
Nolite è tutt3. Nolite siamo noi.
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