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Lavoratrice madre in una cooperativa sociale: “Avvilente dover scegliere tra lavoro e figli”

Riceviamo e pubblichiamo: “I servizi educativi richiedono flessibilità. Punto. Se voglio gli orari di ufficio, allora non è qui, mi è stato detto (…) Io non pretendo gli orari di ufficio, ma mi piacerebbe poter essere sia lavoratrice che madre, fare quello che mi è sempre piaciuto fare, ma anche dedicarmi ai miei figli”.

02 Giugno 2020 - 14:30

Lettera firmata

Sono dipendente di una nota cooperativa sociale di Bologna molto stimata e diventata nel corso degli anni un’istituzione in città. E non a torto. Ha messo in piedi molte cose importanti, si è contraddistinta per il suo impegno in favore dei cosiddetti “ultimi”, senza dimora ma non solo, e lo ha fatto con professionalità, creatività e lungimiranza. Una cooperativa sui generis, che dalla sua nascita ha preso spesso posizione. Non scontato e apprezzabile.
La cooperativa ha attraversato varie fasi e probabilmente io sono stata assunta (tempo indeterminato, tutele crescenti) in un momento in cui si stava riassestando. Poi man mano è cresciuta.
Non passano neanche due anni dalla mia assunzione e rimango incinta. Il mio è considerato lavoro a rischio, e prevede perciò l’interdizione anticipata e sette mesi di maternità obbligatoria post parto. Divento mamma. Alla fine dell’obbligatoria mi faccio un po’ di facoltativa. Nel frattempo, succede che rimango incinta di nuovo. Stesso iter.
Passa veramente un sacco di tempo.
Finita l’obbligatoria, mi accordo con la cooperativa per smaltire la mole di ferie che accumulato in questi anni. Poi di nuovo faccio un po’ di facoltativa.
Passano tre anni da quando ho lavorato l’ultima volta. Nel frattempo in cooperativa ci sono stati molti cambiamenti.
E infine arriva il coronavirus.
Slitto ancora un po’ il ritorno, ma poi basta perché ho voglia di tornare a lavorare, e anche perché ne ho bisogno e non posso permettermi di rimanere a lungo in congedo parentale e avere lo stipendio al 30%.
Faccio un passo indietro.
Poco prima di rimanere incinta la seconda volta, chiedo, in vista del mio ritorno al lavoro, un cambio di servizio perché in quello in cui stavo prima, gli orari, in particolare un turno notturno (che nel periodo invernale si sarebbe intensificato per numero di turni e lunghezza del turno), ma non solo quello in realtà, non mi avrebbero consentito di conciliare vita lavorativa e attività di cura del mio bimbo.
Mi permetto di chiedere un cambio, perché i servizi all’interno della cooperativa sono tanti e non è stato infrequente in questi anni che un lavoratore sia passato ad altro servizio, su propria richiesta.
Mi dicono non c’è nient’altro al momento. Poi rimango incinta di nuovo e il problema non si pone. Si ripresenta poco prima della fine dell’obbligatoria e mi si dice che casomai, potrei ridurre il monte ore ma che devo fare i miei soliti orari. Io non voglio, ma neanche posso, perché non riuscirei a livello di logistica familiare (ovvero non mi sarei potuta incastrare con gli orari del mio compagno). Allora faccio presente che ogni volta che avrò il notturno mi prenderò il congedo parentale.
A quel punto, diventano disponibili altre posizioni.
Passo ad altro servizio. Ho già un part time ma chiedo una piccola riduzione di orario perché con due bambini, senza asili, senza nonni e con l’impossibilità di incastrarmi gli orari col mio compagno, diventa tutto difficilissimo da gestire. Dopo pochi giorni che riprendo a lavorare prendo visione del nuovo contratto. Non ci sono indicate giorni ne’ fasce orarie, ma viene riportato che la cooperativa accetta la richiesta di riduzione oraria e che io accetto gli orari comunicati dal coordinamento. Non lo firmo perché il coordinamento non mi ha comunicato alcunché e poi ho un part time e l’articolo 26 del contratto collettivo nazionale cooperative, nonché il decreto legislativo 81/2015 parlano chiaro a riguardo. Ovvero, per il part time nel contratto devono essere riportati la durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese, all’anno.
Chiedo che si ovvi alla cosa e mi si risponde che un servizio educativo come quello in cui lavoro, richiede flessibilità e per questo “le maglie larghe” nel contratto. Non ci posso credere. Nel frattempo ne nasce un caso. La mia richiesta è inconcepibile e comincia una mediazione infinita con più figure. Mi riscrivono il contratto dandomi stavolta un range orario (9-18) all’interno del quale fare le mie cinque ore giornaliere. In applicazione dei turni comunicati settimanalmente. Non ci posso credere ancora.
Vado a cercare e leggo di sentenze dei tribunali del lavoro che considerano non legittimi i contratti part time in cui non vi sono precise indicazioni orarie.
Il sindacato me lo conferma. Interviene e scrive alla cooperativa chiedendo che il contratto sia conforme a quanto previsto dalle norme che regolano il diritto del lavoro.
Quello che io vorrei è avere degli orari di massima. Poi certo, vista la peculiarità del lavoro in questo ambito, l’elasticità è d’obbligo. E’ per questo che ci sono le clausole di flessibilità. Che nessuno ha pensato di propormi all’interno di una formulazione “legittima” del contratto.
La cooperativa ha accettato di spostarmi su un altro servizio e che io riduca il mio monte ore. Ma evidentemente pensa di andare in deroga alla legge perchè non vuole specificarmi gli orari nel contratto.
E quindi, dopo l’intervento del sindacato, gli risponde affermando che il servizio in cui sono stata trasferita non ha orari rigidi e che se io ho necessità di quelli, allora la proposta è ritirata e verrò spostata nuovamente al mio servizio d’origine, in cui ci sono orari rigidi e predefiniti. Concedendomi, poichè la legge lo prevede, di non fare le notti.
Gran mossa, non c’è che dire.
Specifico che quando lavoravo al servizio in cui mi stanno rimettendo, quasi mai rispettavo gli orari che erano riportati sul mio contratto. Perchè oltre alle cose d’ufficio, c’era tutta quella serie di cose non prevedibili che facevano sì che io mi organizzassi di volta in volta. E quando stavo in ufficio, l’apertura al pubblico era fino alle 19. Un orario non proprio asilo nido friendly. Ebbene no, ne’ io ne’ il mio compagno potremmo andare a prendere i bambini quando escono dal nido. E quindi?
Da anni, nel mio ambiente di lavoro sento ripetere in maniera quasi ossessiva una parola: flessibilità.
Flessibilità flessibilità flessibilità flessibilità flessibilità.
I servizi educativi richiedono flessibilità. Punto.
Se voglio gli orari di ufficio, allora non è qui, mi è stato detto qualche mese fa. Brutalmente, per ammissione stessa del mio interlocutore.
Io non pretendo gli orari di ufficio, ma mi piacerebbe poter essere sia lavoratrice che madre, fare quello che mi è sempre piaciuto fare, ma anche dedicarmi ai miei figli, e gestire la mia vita familiare.
Ho due figli piccolissimi, ho chiesto una riduzione di orario perché non ci starei dentro, vorrei non essere a disposizione della cooperativa dalle 9 alle 18 perché a quel punto sarei passata a full time e avrei avuto uno stipendio dignitoso.
È avvilente pensare che diventare mamma ti costringa a scegliere tra il lavoro e i figli. Del resto, è cosa nota. Poi se accade in una grande multinazionale che fa panini, non che non faccia tristezza, ma almeno te lo aspetti di più rispetto a dove si lavora con e per le persone.
Chi ha una rete familiare più ampia o delle risorse economiche che ti permettono di organizzarti la vita giorno per giorno, beato. Chi ha i nonni vicini o in salute, evviva. Ma non tutti hanno queste fortune.
Ho l’impressione che il travisamento della flessibilità, nonché l’eccessiva disponibilità che si pretende e si dà nel lavoro sociale, abbiano portato a considerare situazioni come la mia, come qualcosa di ineluttabile. Avviene e basta. Un po’ come il capitalismo. Non si può fare diversamente e non ci sono vere alternative.
E se provi a chiedere altro, sei un rigidone rompicoglioni che vive nel proprio mondo.
Ma è proprio vero che non ci sono alternative?