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La storia di Amina: prima la violenza, poi l’umiliazione davanti alla commissione di soli uomini

A raccontarla sono il Coordinamento Migranti, Associazione senegalese e Diaspora ivoriana proseguendo la campagna di denunce sul razzismo istituzionale. Ieri protesta dei profughi di Villa Aldini: struttura occupata per ottenere un incontro in Prefettura.

02 Marzo 2018 - 16:25

“Lungo tutto il loro viaggio per arrivare in Europa, le donne migranti incontrano la violenza maschile nelle forme più brutali. Di fronte alle Commissioni territoriali, le migranti sono perciò costrette a raccontare anche le loro esperienze di violenza. Accade però che, durante le audizioni, le Commissioni territoriali giudichino sommariamente i loro racconti, reputandoli soltanto storie, episodi inventati per conquistarsi il iritto alla protezione umanitaria. Questo è accaduto ad Amina (il nome è di fantasia, ma la storia è vera), che di fronte a sé ha trovato soltanto commissari maschi, nonostante la legge preveda la parità di genere nella composizione delle commissioni. Uomini che l’hanno derisa, che alla violenza hanno aggiunto l’umiliazione e, infine, all’umiliazione il diniego”. E’ la vicenda segnalata nell’ambito della campagna di denunce contro il razzismo istituzionale portata avanti da Coordinamento Migranti, Associazione senegalese di Bologna e Diaspora ivoriana dell’Emilia-Romagna. Continua il comunicato: “Alla Prefettura, che delle Commissioni territoriali è responsabile, chiediamo allora: come può pensare che un uomo abbia la facoltà di decidere sulla veridicità del racconto di una donna che ha subito violenza? Che sia una donna, una nera, una migrante legittima forse il sospetto che la trasforma in un’imputata? Forse l’urgenza di comminare quanti più dinieghi possibile può cancellare le violenze subite dalle donne come Amina, rendendole storie che non vale nemmeno la pena ascoltare? In attesa di una gentile risposta dalla Prefettura, vi informiamo che Amina non si è lasciata umiliare. Ha continuato a lottare e, alla fine, dopo un’odissea di due anni in cui ha presentato ricorso contro il diniego, un giudice le ha dato ragione. Oggi Amina gode di uno status di rifugiata internazionale e l’8 marzo sarà in piazza per lottare contro la violenza sulle donne e il razzismo, quello fascista e quello istituzionale di tutti gli uomini che, sulla base del proprio ruolo, pensano di poter imporre alle donne migranti la ‘verità’ di un patriarcato bianco duro a morire”.

Nel frattempo, sulla stampa mainstream è apparsa oggi la notizia di una protesta messa in atto ieri dai profughi che vivono a Villa Aldini: alcune decine di loro hanno occupato simbolicamente la struttura per diverse ore (è arrivata anche la polizia, ma in base alle informazioni circolate sulla stamap non ci sarebbero state tensioni), fino a che non è stato ottenuto un incontro in Prefettura per parlare di diversi temi. Tra questi, in particolare, le procedure e i tempi dell’iter per la richiesta d’asilo.

Proprio su questo tema si concentra un’altra tappa della campagna di denunce del Coordinamento Migranti e delle altre realtà coinvolte: “Nella gran parte dei casi, ci vuole più di un anno affinché un richiedente asilo venga ascoltato dalla Commissione territoriale, che deciderà se potrà restare regolarmente in Italia o verrà condannato alla clandestinità. La legge parla di 30 giorni, ma le Prefetture si trincerano dietro il numero troppo alto di domande. Sorge un dubbio, però: dato che Minniti si vanta del calo degli sbarchi e quindi delle domande di asilo, come mai i tempi sono rimasti identici? È possibile che il solerte ministro dell’Interno non abbia trasmesso un po’ della sua efficienza ai suoi ‘dipendenti’ della Prefettura di Bologna? C’è forse la volontà politica di ostacolare la vita dei migranti, di sfinirli nelle attese interminabili, di renderli docili e ricattabili e intanto indirizzarli al lavoro gratuito e più spesso esporli al pericolo del lavoro nero? E poi, perché alcuni richiedenti asilo che vivono qui da 7-8 mesi vengono ascoltati dalle Commissioni prima di altri richiedenti che vivono qui da un anno e mezzo? Qual è il criterio che le Commissioni usano, a parte quello di dividere i migranti? Domande che urtano contro la realtà di un’attesa infinita in cui in mano hai dei documenti con cui non puoi fare niente: lavorare in regola e con un salario, aprire un conto in banca – necessario per poter lavorare ed essere pagati – o anche semplicemente accedere alle cure del sistema sanitario nazionale e non solo al primo soccorso. E in quell’attesa essere pure additato come la causa di tutti i mali dell’Italia, perfino del razzismo che impugna una pistola e spara contro chi ha il tuo stesso colore della pelle…”.