Lettera aperta delle/i docenti, studenti/esse, ricercatori/rici, dottorandi/e che hanno dato vita al percorso Brain-Unibo, in vista di una giornata di mobilitazione in programma il 5 maggio “per un’università innovativa, fuori dagli schemi: uguaglianza, cooperazione, ricchezza”.
“Per un’università innovativa, fuori dagli schemi: uguaglianza, cooperazione, ricchezza” è il titolo di una lettera indirizzata alle candidate e ai candidati alla poltrona dell’Università di Bologna, in vista della scadenza del mandato di Francesco Ubertini: l’iniziativa porta la firma di Brain-Unibo, percorso nato lo scorso anno “che connette varie figure dell’Università nell’ottica di una discussione, presa di parola e iniziativa dentro e contro l’università-piattaforma costruita dalla pandemia e che guarda all’università futura”, scrive Brain-Unibo nel comunicato che accompagna la lettera. Con quest’ultuma “poniamo una sfida di temi e di idee ai candidati e alle candidate al Rettorato, alla comunità accademica e a tutta la città. Vogliamo pensare all’università come a una fucina di idee, conoscenze, sapere e progetti per una nuova eguaglianza, una nuova ricchezza collettiva, una diversa idea di innovazione. E vogliamo che le condizioni materiali di vita di chi studia, fa ricerca e insegna siano prese in considerazione. Su tutti questi temi lanciamo per il prossimo 5 maggio una giornata di mobilitazione, uno spazio pubblico e politico di riflessione sul presente e sul futuro dell’università e per porre una serie di rivendicazioni al Rettore attuale e ai candidati e candidate per il Rettorato venturo”.
Ecco il testo della lettera: “L’ultimo anno non è stato soltanto quello dell’accelerazione pandemica di trasformazioni che da tempo investono il ruolo dell’Università nella società. È stato anche l’anno di nascita di un cervello collettivo che non intende accettare queste trasformazioni in silenzio. Brain-Unibo è lo spazio in cui docenti, studenti, studentesse, ricercatori, ricercatrici, dottorandi e dottorande prendono parola pubblicamente per dare voce alla pretesa condivisa di affermare la possibilità di insegnare, fare ricerca, studiare, innovare contro i limiti imposti da un’università trasformata in laboratorio della disuguaglianza e piattaforma che smercia sapere impoverito. Resilienza e innovazione sono le parole chiave che accompagnano questa trasformazione a tutti i livelli, da quello locale a quello europeo. Resilienza è stata in primo luogo la capacità di adattamento richiesta – esortando l’impegno etico verso la comunità universitaria – a chi ha dovuto affrontare da un giorno all’altro, come docente o studente, il passaggio alla didattica online, a chi ha dovuto in definitiva accettare cambiamenti che, per quanto approvati ‘democraticamente’ dagli organi consiliari competenti, sono stati presentati come ineluttabili attraverso la retorica dell’emergenza. Resilienza è il nome della fatica compiuta individualmente da chi ha dovuto affrontare la piattaforma didattica senza mezzi adeguati – computer e connessioni, in primo luogo, ma anche condizioni abitative e possibilità di accesso alle risorse didattiche – e alla quale non è corrisposto in nessun momento un adeguato intervento politico, se non poche correzioni di facciata a problemi che da mesi mostrano con tutta evidenza il loro carattere strutturale. Resilienza è la condizione di precarietà alla quale si sono adattati dottorande e dottorandi, precarie e precari della ricerca, che hanno dovuto arrangiarsi per farsi carico dei limiti di accesso alle fonti, degli insormontabili ostacoli alla mobilità o alla ricerca sul campo, ricevendo al più una proroga e nessuna risposta alla difficoltà generale di portare avanti i propri progetti. Resilienza è il termine che nei programmi ministeriali ed europei contrassegna una ricerca la cui eccellenza coincide con la capacità di adattarsi alle esigenze di un sistema industriale messo a dura prova dalla pandemia, e che richiede un sapere funzionale ad assicurare profitti e stabilità sociale – prodotti e policies – per riprodursi”.
In questa cornice, continua la lettera, “non è possibile alcuna innovazione, anche se questa viene continuamente invocata. Per noi, un’innovazione che confina la ricerca dentro gli spazi angusti delle destinations europee e non solo, che traduce la cooperazione in competizione finalizzata all’acquisizione di fondi, che omologa e impoverisce la didattica, quando non la trasforma in un ‘podcast’ per studenti posti in fondo alla catena del distanziamento, non è un obiettivo tecnico da perseguire, ma una volontà politica da rifiutare. Per noi, una resilienza che si traduce in precarietà strutturale e invito alla valorizzazione del proprio capitale umano da prestare su un mercato delle competenze sempre più scarso di risorse e votato alla competizione più spregiudicata non è un orizzonte da abbracciare, ma un comando da respingere. La nuova università resiliente e innovativa, verso cui i programmi delle e dei candidati al rettorato uniformemente convergono, mette al centro l’industrializzazione dei dottorati di ricerca, l’adattamento della ricerca alle necessità fissate dai piani di finanziamento da cui le università dipendono, la Dad come paradigma della formazione povera e diseguale e l’investimento nella Terza Missione, che assume ora un ruolo preponderante facendo di ricerca e didattica dei ‘prodotti accademici’ in sé stessi secondari, valutati solo per la loro appetibilità di mercato. Con il nostro percorso di assemblee e discussioni, che sempre più stabilmente coinvolge anche altri Atenei italiani, abbiamo messo al centro la necessità di ripensare l’università e il suo costitutivo intreccio con la città e la società. Per noi, innovativa è la didattica che permette di emanciparsi dalla condizione di ‘merci povere e precarie’ che l’università produce; innovativa è la ricerca libera dall’obbligo disposto dalle finalità applicative e innovativa è l’università che rifiuta la competizione e la gerarchia tra Atenei che indirizzano la cooperazione verso la sola acquisizione di fondi. Innovativa è anche, quindi, l’università che vede nella Dad uno strumento per combattere le diseguaglianze e accorciare le distanze, anziché confermarle come incontestabile verità sociale, che non scarica il peso della crisi sulle spalle di studenti e studentesse, ma rovescia il rapporto con la città e la società a loro favore, piuttosto che a favore del mercato. L’università non è una torre d’avorio chiusa in sé stessa, ma un centro nevralgico della produzione e riproduzione sociale, uno spazio in cui creare conoscenze, idee e una ricchezza disponibile per contestare, individualmente e collettivamente, l’ineluttabilità delle disuguaglianze che la pandemia ha fatto esplodere. In questi mesi di confronto collettivo, costruito con assemblee trasversali fra le diverse figure che attraversano l’università, noi abbiamo elaborato discorsi, domande e rivendicazioni che costituiscono il punto di partenza fondamentale per una reale innovazione. Più che programmi già scritti ai quali dare assenso oppure un voto, ci interessa la possibilità reale di cambiare le coordinate di questo governo della scienza e della sua funzione sociale. Per questo sfidiamo i candidati e le candidate al rettorato a esprimersi su quelle che per noi sono le reali poste in gioco nel presente e nel futuro dell’Università, a partire da quella di Bologna. Lo facciamo con un foglio che sintetizza un percorso ampio di presa di parola e rivendicazione e lo facciamo in vista del prossimo 5 maggio, quando intendiamo uscire dai confini delle stanze virtuali in cui la pandemia ci ha ricacciato per portare in piazza la presenza di una voce collettiva”.