Storia e memoria

La Lega, Casapound e l’onda nera europea [audio]

Gli interventi dell’incontro svolto al Vag61 di Bologna nell’ambito del Festival sociale delle culture antifasciste 2011, con la partecipazione di Saverio Ferrari.

25 Giugno 2011 - 21:29

Ieri sera, allo spazio libero autogestito Vag61 di Bologna, nell’ambito del Festival sociale delle culture antifasciste 2011 si è svolto l’incontro “L’onda nera europea e l’ultranazionalismo”, con la partecipazione di Saverio Ferrari.

Pubblichiamo il testo e l’audio dell’introduzione di Valerio Monteventi e tre audio estrapolati dall’intervento di Ferrari: il primo sull’onda nera europea, il secondo sulla Lega nord e il terzo su CasaPound.

> Ascolta gli audio:

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> Leggi l’introduzione di Valerio:

Voglio cominciare il mio intervento leggendo una cosa che scrivevamo su Zero in Condotta nel 1997 :

“L’Europa di Maastricht andrebbe fermata prima che sia troppo tardi, prima che tutti vengano trascinati verso una cosa che più nessuno vuole davvero, perché è insensata. E’ insensato fondare un organismo sovranazionale su un sistema di vincoli finanziari.

I suoi effetti immediati già li vediamo: crescita del nazionalismo, crescita della disoccupazione e dell’aggressività. Il processo di unificazione europea non ha mobilitato energie culturali di tipo progettuale.

Nella realtà della vita culturale la glaciale unificazione bancaria sta producendo un effetto di rigetto e di reazione nazionalistica che è destinata a raggiungere livelli insopportabili quando la macchina di compressione sarà definitivamente in funzione”.

Potremmo dire che mai parole furono tanto profetiche…

I vincoli di Maastricht e del Patto di Stabilità hanno fatto emergere una tendenza molto spinta verso lo stato sociale minimo, nel quale il salario indiretto dei precari e dei lavoratori, sotto forma di diritti esigibili, è stato in più punti tagliato.

I ricatti sul debito pubblico della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, insieme alla crisi, hanno fatto il resto: i perni dello stato sociale (scuola, edilizia pubblica, assistenza, sanità e previdenza), sono stati demoliti a colpi di piccone. La disoccupazione e la precarietà sono diventati un elemento caratterizzante di tutti i paesi europei.

Oltre a queste “spiacevoli eredità”, l’Europa di Maastricht ha aperto anche la diga ad un’ondata di destra che ha abbandonato i tratti marginali dell’estrema destra dei gruppi neo-fascisti e neo-nazisti e ha prodotto una nuova generazione di partiti della destra radicale, capaci di condizionare con numeri e percentuali elettorali i governi in vari paesi.

Questa galassia ha approcci molto variegati, ma si trova allineata sull’opposizione agli organismi comunitari, disegnati a suo tempo dal Partito Popolare Europeo e dal Partito Socialista Europeo.

Contro il “gigantismo” di Bruxelles viene auspicato il ritorno al predominio nazionale rispetto al Parlamento europeo, alla Commissione europea e alla moneta comune.

In tempi di crisi, al di là degli slogan propagandistici, la ricetta dei partiti nazionalisti, populisti e localisti è sempre la stessa.

Marciando sulle peggiori pulsioni della popolazione, vengono agitati lo spauracchio dell’invasione degli stranieri e l’ossessione del pericolo musulmano, utilizzando retoriche populiste, fondate sull’antisemitismo, sulla discriminazione delle minoranze etniche, religiose e sessuali, sul fondamentalismo religioso, sulla guerra alla società multiculturale, sul nazionalismo estremo, sull’antieuropeismo.

Su questi tratti hanno costruito le loro fortune movimenti e partiti ultranazionalisti come il Front Nationale dei Le Pen in Francia (che i sondaggi danno al 23% per le prossime elezioni presidenziali del 2012), il Partito austriaco della libertà (Fpö) fondato da Jorg Haider in Austria, l’Unione democratica di centro, creatura xenofoba di Christoph Blocher in Svizzera, l’anti-islamico Partito della libertà dei Paesi Bassi (Pvv) di Geert Wilders.

In Europa Occidentale, hanno sempre più spazio politico e di condizionamento il populismo alpino-padano della Lega Nord in Italia e il localismo dei fiamminghi del Vlaams Blok in Belgio.

Anche in Scandinavia i discorsi sul pericolo dell’islam e degli immigrati musulmani hanno preso piede: in Danimarca il Partito del Popolo Danese (Df) è dal 2001 un alleato indispensabile del governo liberal-conservatore; il Partito del Progresso (FrP) è il secondo partito in Norvegia; mentre in Svezia, superando lo sbarramento del 4%, gli ultranazionalisti di Nuova Democrazia (Sd) hanno fatto il loro ingresso in parlamento a settembre del 2010.

Nella catena di vittorie alle competizione elettorali, l’ultima è quella dello scorso 17 aprile, riportata in Finlandia dai “Veri Finlandesi”, una coalizione ultranazionalista, populista, euroscettica che ha raggiunto a sorpresa il 19% e ha fatto crollare il partito centrista di governo, mettendo una pesante ipoteca sulla politica europea di Helsinki e in particolare sul salvataggio finanziario del Portogallo.

Se continuiamo a scorrere la piantina geografica, possiamo vedere nell’Europa dell’Est la persistenza di movimenti neonazisti, ma, insieme a questi, hanno sempre più forza e capacità di influenza diversi raggruppamenti che si battono per un’identità nazionale etnico-religiosa, che alimentano vecchi contenziosi territoriali e la questione delle minoranze insediate fuori dalle loro frontiere, nei paesi limitrofi.

Parliamo del Partito populista degli Affari Pubblici della Repubblica Ceca, mentre in Slovacchia c’è l’antimagiaro, antisemita e omofobo Partito Nazionale Slovacco.

In Bulgaria c’è Ataka, una coalizione ultranazionalista che vuole la religione cristiana ortodossa come religione di Stato e combatte contro i presunti “privilegi” verso le minoranze linguistiche presenti in Bulgaria, in particolare turchi e rom.

In Polonia, una delle formazioni politiche più in vista è la Lega delle Famiglie Polacche (LPR) che, in nome dei valori cristiani, vorrebbe discriminare ebrei, omosessuali e perfino gli artisti. Ha raggiunto il 16% dei voti alle ultime elezioni europee e si fa forza della della retorica messianica della “Polonia redentrice d’Europa”.

Il Partito della Grande Romania (PRM) è un raggruppamento di estrema destra che ha tra le sue fila ex-ufficiali della Securitate e ha come obiettivi: la realizzazione di campi di concentramento e ghetti per la minoranza rom, la purificazione etnica attraverso l’eliminazione degli ungheresi dalla Transilvania, le persecuzioni antisemite, l’eliminazione degli intellettuali di origine ebrea dalla cultura romena. Questo partito alle elezioni del 2000 arrivò ad essere il secondo partito rumeno con il 23%. Per fortuna, nel 2008, si è fortemente ridimensionato con una caduta al 3% dei voti.

In Ungheria, Jobbik (il partito dei migliori”) ha raccolto il 16,7% dei consensi alle ultime elezioni politiche (con 46 seggi nel Parlamento di Budapest). E’ la terza forza politica ungherese. Lo scorso 20 aprile ha fondato una gendarmeria privata, “per la protezione della nazione dai nemici esterni ed interni” e per picchiare duro sulla “criminalità gitana” dei rom. I suoi valori, mischiati a una forte retorica populista e a una spiccata xenofobia, si basano sull’esaltazione della patria, sull’orgoglio ungherese, sul nazionalismo a base razziale, sull’antisemitismo e sull’anticomunismo.

Quella ungherese è la punta di un grosso iceberg che si sta riversando sul vecchio continente, il paese magiaro non solo subisce la forte influenza dei fascisti di Jobbik, ma il suo governo, guidato dal primo ministro Viktor Orbàn, ha varato una legge sui mezzi di comunicazione e sulla libertà di stampa che non ha precedenti in Europa e che impone restrizioni a tutti i mezzi d’informazione (radiotelevisivi, cartacei, on line), conferendo inoltre ampi poteri a una nuova “Autorità sulle comunicazioni e sui mezzi d’informazione nazionali”. Questa “Autorità” potrà imporre multe da 35.000 euro per i periodici fino a 730.000 euro per i mezzi radiotelevisivi per contenuti considerati contrari “all’interesse pubblico”, “alla morale comune” e “all’ordine nazionale”. I cinque membri che fanno parte dell’Autorità non sono di nomina parlamentare, ma sono indicati dalla Fidesz, il partito di destra al potere, che, alle elezioni del 2010, grazie a una legge elettorale “maggioritaria”, col 52%, ottenne più dei due terzi dei seggi.

Il fatto è ancora più grave perché tutto ciò è avvenuto quasi in contemporanea con l’assunzione da parte dell’Ungheria della presidenza del semestre europeo del 1°gennaio 2011.
Ma il premier Orbàn non si accontenato della “norma-bavaglio” sui media e del clima di censura che ha instaurato. Subito dopo ha deciso di riscrivere la Costituzione ungherese, imponendo una Carta in cui i “temi forti” sono Dio e Patria, orgoglio della nazione etnica magiara ed emergono discriminazioni formali per gay e minoranze etniche. C’è il divieto tassativo di aborto e solo i valori cristiani sono riconosciuti. Lo Stato non viene definito più come Repubblica, ma nella sua essenza nazionale ed etnica. L’esecutivo avrà più poteri, per il controllo della magistratura e dei media. La Corte costituzionale vede fortemente ridotte le sue competenze specie in materia economica e sociale. Il premier nomina un consiglio speciale della Banca nazionale che avrà diritto di veto sui temi di Bilancio. 
Non è difficile trovare in questi passaggi tutte le ambizioni che Berlusconi ha nel suo desiderio di riscrivere la Costituzione Italiana.

C’è un altro aspetto, molto grave, che si trova nella nuova Carta magiara. Lo potremmo definire l’utopia thatcheriana della sospensione di ogni diritto sociale che si trova finalmente realizzata. In aperta contraddizione con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, i diritti non vengono più dichiarati come dati e naturali, ma sono condizionati a obblighi e compiti. Si passa dal diritto al welfare al principio del giusto compenso: per esempio, chiunque goda di un beneficio statale come la pensione o l’assistenza sanitaria, ne ha diritto solo se fa un’attività utile alla comunità, in base al giudizio dell’autorità statale.

Il ruolo dello Stato si riduce nei rapporti sociali, ma aumenta a dismisura il suo carattere autoritario, centralizzando il potere nelle mani dell’esecutivo, ridimensionando gli organi di controllo e limitando la libertà di espressione.

Se qualcuno pensava che tutte queste vicende potessero scuotere l’Unione Europea si sbagliava. Dalle parti di Strasburgo e di Bruxelles non hanno battuto ciglio. Sono lontani i tempi in cui le affermazioni xenofobe e antisemite del governatore della Carinzia Haider avevano suscitato un’ondata di polemiche e di sanzioni diplomatiche all’indirizzo dell’Austria.

Perché, nel caso ungherese, c’è stato questo assordante silenzio?

Forse perché la riscrittura dei diritti nella Costituzione ungherese non è molto diversa dalle logiche che hanno condizionato gli indirizzi delle politiche sociali, del lavoro e della cittadinanza dei vari paesi membri dell’Unione.

Per esempio, la ridefinizione del ruolo e degli obiettivi del welfare non è passata solo dalle politiche monetariste dei governi che, accettando i “patti di stabilità”, imposti a livello europeo sul debito pubblico, hanno emanato provvedimenti di austerità che hanno colpito soprattutto i settori più deboli della popolazione. C’è stata anche una riscrittura delle modalità di accesso ai beni comuni.

Il welfare storico si articolava sulla definizione di alcuni beni comuni. Il loro accesso stava alla base del diritto di cittadinanza. Parliamo del diritto alla salute, del diritto all’istruzione, delle garanzie a tutela dei rischi sociali.

Era la loro natura di beni comuni e non la posizione e le caratteristiche dei destinatari, a determinare il diritto all’accesso ai servizi pubblici. Ora queste ragioni non si ritrovano più nelle politiche dei governi europei.

L’Unione europea, oltre ad aver agito sul piano del controllo dei conti pubblici dei singoli stati membri, ha introdotto sul welfare delle argomentazioni che privilegiano la responsabilità individuale rispetto alla propria condizione di bisogno.

Non viene più posta l’attenzione sulle condizioni sociali e sui i contesti di vita, ma sono i soggetti destinatari che devono dimostrare la loro “volontà di uscire da una situazione di disagio” e manifestare di essere “degni” del riconoscimento dei loro bisogni.

Se questa è la situazione, è facile comprendere il silenzio europeo sulla vicenda ungherese, lì si stanno sperimentando concretamente certi presupposti che stanno alla base delle politiche dell’Unione Europea.

Da questo punto di vista, ultranazionalismo, xenofobia, paura dei diversi non sono tratti identitari delle nuove destre.

Sono anche alla base degli indirizzi politico/sociali della nuova legislazione securitaria europea.

Combattere contro le nuove destre in Europa, significa anche contrastare i tagli al welfare, i respingimenti alle frontiere, le politiche securitarie dei vari governi dell’Unione.