Editoriale

In ricordo di Gilberto Veronesi

Se n’è andato in solitudine un grande “operaio specializzato della fotografia”, un antifascista coerente, un compagno generoso e altruista dal sorriso semplice e aperto.

16 Dicembre 2020 - 17:46

Le notizie di una morte, molto spesso, arrivano da persone con cui in passato si è avuto un percorso in comune. Si spera sempre che, il sentirsi dopo tanto tempo, porti qualcosa di buono, che sia un’amicizia che torna a portata di mano dopo che per anni ci si era persi di vista.

E invece, purtroppo, quasi mai è così. Lo è stato pure questa mattina, quando ci è arrivata la voce che era morto Gilberto Veronesi, che si era spento per sempre dal suo volto quel sorriso aperto e ironico che aveva sempre portato con sé, anche nei momenti più scuri. E di momenti bui Gilberto, nel corso della sua vita, ne aveva avuti e non pochi. Ma mai gli avevano fatto andar via la sua voglia di tenere botta, di ricominciare da capo e, soprattutto, di continuare ad esprimere la sua grande generosità. Il disinteresse e l’altruismo facevano parte dello stile della vita, così come l’antifascismo e la fotografia l’avevano riempita di contenuti.

L’ultima volta che ci si era visti e frequentati per un po’ di tempo è stato quando, con un gruppo di ragazzi di Vag61 e del Centro di documentazione dei movimenti “Lorusso-Giuliani”, avevamo aiutato Gilberto a sgomberare un garage che racchiudeva un po’ tutta la sua vita, professionale e non solo.

Non ce la faceva più a pagare l’affitto di quello spazio dove aveva riposto tanta roba che prima era stata accatastata nella sua “casa/museo” di via Guerrazzi. Dopo lo sfratto che aveva avuto dalla sua abitazione storica, si era trasferito in un appartamento più piccolo al Pilastro e tanto materiale che aveva messo da parte nel corso degli anni non aveva potuto portarselo con sé. Erano centinaia, forse migliaia, le foto per reportage o per mostre, di tutte le dimensioni, racchiuse in tanti scatoloni. Di contare i negativi era stato impossibile e c’era già la preoccupazione che si sarebbe diventati matti a metterli in ordine. C’erano diversi pannelli di mostre e pacchi di libri fotografici, erano lavori che aveva realizzato con Camera Chiara, l’agenzia che aveva costituito con un altro fotografo, Luciano Nadalini. Erano lavori importanti: esposizioni e produzioni editoriali fatti in collaborazione con l’Anpi e la Fondazione Gramsci oppure autoprodotte, mostre sulla Resistenza e sulla Liberazione dai nazifascisti, sulla città distrutta dai bombardamenti e sul periodo post-bellico, sulla Bologna negli anni Sessanta (il boom economico, lo scudetto nel calcio, il concerto di Jimi Hendrix al palasport, i cortei contro la guerra nel Vietnam, il ’68 studentesco e l’autunno caldo operaio), sulla rivolta giovanile del marzo ’77 (uno dei lavori di ricerca iconografica più importanti), sulla Bologna delle bombe e delle stragi (dall‘Italicus al Rapido 904, da Ustica alla Stazione il 2 agosto). Lavori importanti sulla storia della nostra città, intervallati ad altri organizzati con i reporter di Ufo (Unione Fotografi Organizzati) sui mestieri poveri (dai vecchi tornitori alle sdaure infarinate che impastavano le tigelle) o su Lucio Dalla (i suoi posti, le sue strade, la sua città).

Gilberto aveva tanta roba, perché tutto gli sembrava utilizzabile, da uno scaletto a un’orribile vetrinetta, dalle riviste di fotografia a una collezione di Cronaca Illustrata. “Vi lascio tutto, spero che lo possiate utilizzare al meglio, non tanto per ricordarvi di me, ma delle storie e delle persone di cui abbiamo parlato in tanti anni di lavori e di reportage”. Si volle portare a casa solo una “Pentacon Six” e un vecchio banco ottico.

Erano stati vent’anni di fotografia totalizzante quelli che Gilberto definiva i “penultimi anni” della sua vita. Nei suoi “primi anni” da adulto aveva fatto tante cose: era stato, nella seconda metà degli anni Settanta, uno dei fondatori di Radio Informazione (una delle prime emittenti libere bolognesi), poi, per un periodo aveva fatto il sindacalista. Nei primi anni Ottanta, come tanti altri, era finito in carcere per questioni legate alla lotta politica. La sua esperienza fu, però, piuttosto particolare: venne condannato per delle azioni di autofinanziamento a sostegno dei gruppi antifascisti cileni che si opponevano al regime di Pinochet. Quando uscì di prigione, si avvicinò alla cooperativa editoriale Mongolfiera che produceva il giornale omonimo. Divenne, in poco tempo, il tecnico della camera oscura e delle riproduzioni fotografiche, usava ingranditori reprocamera e bromografo come nessun altro. La sua grande passione per la “tecnica” era apparsa già nel periodo della radio con trasmettitori, mixer e, antenne. In camera oscura, sugli acidi, sulle sensibilità della carta e sulle tecniche di stampa sapeva tutto. Quando cominciò ad impaginare, fare montaggi al computer, preparare le mostre con il pc, si mise a elaborare le “macchine” informatiche per predisporle alle sue necessità e, dalla rete, imparò a conoscere centinaia di programmi.

Su di sé diceva ironicamente: “Io non sono un artista dello scatto, sono un operaio specializzato della fotografia… ci vogliono anche questi”.

Certo, Gilberto non ha mai pensato al futuro, a mettere da parte qualcosa per quanto sarebbe diventato anagraficamente vecchio, tantomeno alla pensione. Lui era concentrato sul presente, sulle cose da fare e, per farle uscire, se necessario, stava in studio giorno e notte.

Poi sono arrivati gli “anni ultimi” e, insieme a loro, una malattia tosta, invalidante un bel po’. Non c’era la forza fisica per fare le stesse cose di prima, ma lui a un eventuale “ombrello di protezione” non aveva mai badato, forse non lo aveva mai concepito. Non aveva assicurazioni o coperture per malattia e cominciò a trovarsi in difficoltà economiche pesanti. Per orgoglio e fierezza non chiese mai niente a nessuno.

Poi, alla malattia che lo tormentava da anni si è aggiunta un’altra tragedia: pochi mesi fa ha perso, in brevissimo tempo, la compagna della sua vita. Anche per lei un brutto male. In pochissimo tempo, rapidissimo, se l’era portata via.

Gilberto è rimasto da solo, ammalato, con i 500 euro della pensione sociale. Quando, tra le tante sfighe, gli è arrivata anche la broncopolmonite, ha deciso di non farsi ricoverare in ospedale. E’ stato trovato qualche giorno fa, rivolto sul divano, stroncato da un attacco cardiaco.

Con le tante cose che Gilberto ha fatto nella vita, con le troppe volte in cui ha dovuto fare a botte con la sfortuna e le disgrazie, con la sua generosità e il suo orgoglio che gli hanno sempre dato la forza per ricominciare… non è giusto morire così, in solitudine.

Chi ha conosciuto Gilberto lo ricorderà con tristezza, per quelli che non l’hanno mai incontrato, quando questo cazzo di Covid ci lascerà un po’ in pace, ci piacerebbe organizzare qualcosa per farlo scoprire attraverso le sue opere (anche se questa definizione dei suoi lavori non gli sarebbe sicuramente piaciuta).