Editoriale

Il carcere: quella “casa di vetro” scambiata per un acquario

Suicidi tra le/i detenute/i, sovraffollamento, carenza di medici, tempi biblici per l’accesso alle misure alternative: la nostra sarebbe “la città più progressista d’Italia” ma cosa questo stia a significare concretamente ce lo dovrebbero spiegare anche perché, se parliamo di carcere, la Dozza nel panorama italiano è una delle strutture dove abbondano le problematicità.

12 Settembre 2022 - 12:04

“Il carcere è lo specchio della società”, questo vecchio detto è da anni in disuso, anche se potrebbe essere usato tranquillamente in questi giorni, la sua attualità è fuori discussione.

C’è un’altra asserzione che a Bologna, ultimamente, sentiamo ripetere troppo spesso: la nostra sarebbe “la città più progressista d’Italia”. Cosa questo stia a significare concretamente ce lo dovrebbero spiegare, anche perché, se parliamo di carcere, quello di via del Gomito, nel panorama italiano, è uno di quelli dove abbondano le problematicità.

Per farci capire meglio, prendiamo in esame alcuni episodi che si sono verificati in queste settimane.

Il suicidio di un uomo di 53 anni a cui, da circa un mese, era stata revocata una misura alternativa alla detenzione e che, entro la fine dell’anno, avrebbe terminato la sua pena. In seguito a questa tragica circostanza, nei giorni successivi, fanno visita al carcere della Dozza un parlamentare e un consigliere di Fratelli d’Italia, se ne escono con un comunicato in cui si esprime solidarietà al personale della polizia penitenziaria. Un modo piuttosto curioso di interpretare i fatti.

Del resto, sul fronte politico opposto, il silenzio è stata l’unica risposta che si è percepita. Come poteva essere altrimenti: negli ultimi cinque anni ci piacerebbe sapere quanti parlamentari e quanti consiglieri regionali del centrosinistra o della sinistra “coraggiosa” sono andati a vedere cosa succedeva nel carcere di Bologna. Dai 5 Stelle una simile noncuranza la si poteva immaginare, essendo, insieme alla Lega, il partito “manettaro” per eccellenza. Ma dalla “sinistra dei diritti”, quella della difesa della Costituzione (esiste un articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità…”), un simile menefreghismo avrebbe dovuto essere qualcosa di anomalo. E invece niente, non hanno fatto nemmeno una piega quando nel luglio scorso, invece di risolvere il problema dei bambini costretti a vivere in carcere insieme alla madri detenute, fu inaugurato nel reparto femminile della Dozza un nido per i figli delle recluse.

In questi giorni le/i detenute/i hanno portato all’esterno, attraverso una lettera mandata al sindaco, al Tribunale di sorveglianza e ai Garanti delle persone private della libertà, la situazione molto grave in cui versa l’assistenza sanitaria dentro la casa circondariale bolognese: la presenza di un solo medico in tutta la struttura, l’approssimazione con cui vengono somministrate le terapie, l’enorme difficoltà ad essere visitati che costringe spesso i reclusi all’autolesionismo per essere ascoltati.

Il sindaco che, dopo l’ennesima morte in cella, era stato in visita alla Dozza nel maggio scorso, disse che il carcere avrebbe dovuto diventare un quartiere della città (non siamo sicuri che per i quartieri esistenti fosse un augurio auspicabile). Il 6 settembre, attraverso una lettera pubblicata con un certo risalto su un quotidiano della città, ha risposto alla missiva delle/i detenute/i sostenendo che “non possiamo rimanere silenti di fronte a questa situazione”.

Può essere considerato un piccolo passo in avanti rispetto all’oblio dei taciturni colleghi di partito o di coalizione, ma per un pubblico amministratore (che tra l’altro, per la sua funzione, risulta essere la massima autorità sanitaria cittadina) è troppo poco, bisogna che si veda qualcosa di concreto.

Diciamo questo perché questo giornale il 15 novembre 2021 pubblicò un articolo in cui si parlava di una protesta attuata dalle/i detenute/i contro il calo dei medici che, dai dieci presenti nel 2008, quando iniziò ad avere effetto la riforma della Sanità penitenziaria (in Emilia-Romagna era stato siglato un protocollo d’intesa tra Regione e ministero della Giustizia per la presa in carico del servizio da parte delle Asl), erano rimasti solo cinque.

Oggi quei cinque medici sono calati di altre quattro unità e un dottore per 7/800 persone recluse è un affronto oltraggioso a parole come diritti e salute. Cosa hanno fatto in questi otto mesi Comune, dirigenza dell’Asl e Regione? E le tante paladine e i tanti paladini dei diritti che dichiarano di sedere sugli scranni di Palazzo d’Accursio non solo non si sono minimamente preoccupati, ma, come segno di attenzione, non hanno alzato nemmeno un millimetro un sopracciglio.

Molte delle colpe di questa condizione di estremo disagio a cui sono costrette le persone detenute dipende dal perenne sovraffollamento. E questo è senz’altro vero, ma cosa è stato fatto in questi anni per diminuire gli effetti di questa cronica “calamità sociale”?

Il carcere è strapieno, ma le/i detenute/i che avrebbero tutte le carte in regola per accedere a una misura alternativa si vedono fissare le camere di consiglio dal Tribunale di sorveglianza con tempi biblici… inaccettabili (non solo molti mesi, a volte più di un anno).

E anche per quanto riguarda le poche misure alternative concesse c’è un continuo slittamento in avanti rispetto agli anni di detenzione fatti: si concede il lavoro esterno (previsto dall’art. 21 della legge penitenziaria), quando si è scontata più di metà pena, quando cioè si potrebbe ottenere la semilibertà. La semilibertà viene concessa quando si potrebbe essere nei termini per l’affidamento in prova ai servizi sociali. L’affidamento viene concesso quando il residuo di pena è ormai infinitesimale.

Quante volte gli avvocati si sentono dire da un giudice di sorveglianza che, con questo clima politico, come si fa a dare una misura alternativa a un detenuto, soprattutto se straniero? Se per caso un semilibero commettesse qualcosa di illecito gli esponenti di tutti i partiti “salterebbero addosso al povero giudice e lo sbranerebbero”. E, quindi, invece di prendersi le proprie responsabilità (e applicare quello che la legge prevede), si preferisce rinviare all’infinito le decisioni.

Sempre più spesso molte/i detenute/i, a cui viene riconosciuto il diritto ai permessi, si vedono sfumare questo diritto perché i permessi non vengono firmati dal magistrato di sorveglianza. A causa di ciò i giorni concessi, che devono essere usufruiti entro la scadenza indicata nel provvedimento, possono essere usufruiti solo in parte dai “permessanti”.

Ad aggravare questa situazione già molto pesante c’è la consapevolezza che la maggioranza di destra che andrà al governo dopo il 25 settembre metterà mano in tempi rapidi, oltre alla legge sull’aborto, anche alla legge penitenziaria e non certo per migliorarla.

La logica manettara, che ha avuto la sua bella stagione a sinistra, si è rinvigorita prima con la Lega e poi coi 5 Stelle, domani avrà in Meloni la paladina del rigore giudiziario e della detenzione come panacea di tutti i mali.

Il tintinnare delle manette andrà avanti di pari passo con le campagne sulla sicurezza. La cosa curiosa è che i politici di tutti gli schieramenti, quelli che di solito sono molto attenti ai sondaggi e alle tabelle, non si siano mai accorti che, a fronte di una recidiva che normalmente è del 75% per chi esce dal carcere, c’è invece un dato inferiore al 10% per chi ha usufruito di una misura alternativa. Questo dovrebbe almeno far pensare sulla reale utilità del carcere a fronte di percorsi di reinserimento seri e affidabili.

Ci piacerebbe che qualcuno di quelli che, all’inizio della pandemia, fecero una campagna contro i provvedimenti anti-Covid presi per le carceri (liberazione anticipata o detenzione domiciliare per chi avesse scontato la maggior parte della condanna), si domandasse quanti siano stati le/i detenute/i usciti per quelle disposizioni che sono rientrati in carcere per avere commesso un reato durante questo periodo. Ma questa domanda non se la faranno mai, perché la sorpresa che troverebbero metterebbe in crisi i loro “rigorosi” dogmi.

Così come continuiamo a dubitare su tutti quelli che seguitano a sostenere che “il carcere deve essere una casa di vetro”, e non perché il tema della trasparenza su quello che avviene all’interno dei penitenziari non sia importante, ma perché la loro è una logica da “acquario” dove le persone detenute vengono concepite come i pesciolini rossi. Ma le persone non sono pesci, infatti la sofferenza dei pesci viene riconosciuta dagli esseri umani più sensibili se le condizioni offerte in un acquario non sono adatte alle loro esigenze vitali (sovraffollamento, alimentazione sbagliata, acqua dalle caratteristiche non appropriate, specie male assortite, stress dovuto a mancanza di nascondigli). Molto più raramente le stesse esigenze vitali vengono riconosciute a una persona reclusa.