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I giorni del No-Ocse [foto+video]

Il CentroDoc “Lorusso-Giuliani” ripercorre le mobilitazioni bolognesi del 2000 contro il “club dei ricchi”, in vista di un’iniziativa online prevista venerdì: il racconto della nascita del movimento e delle piazze contro Forza Nuova e contro il vertice, le copertine di Zero in condotta, i documenti d’archivio, le foto di Luciano Nadalini, i video delle manifestazioni.

10 Giugno 2020 - 16:14

Pubblichiamo l’approfondimento “I giorni del No-Ocse”: le mobilitazioni bolognesi che anticiparono il luglio 2001 contro il G8 a Genova raccontate a vent’anni di distanza dal Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”, che per venerdì 12 giugno alle 19 organizza una diretta Facebook e un’assemblea telematica per raccontare “la nascita di un nuovo movimento che diede la sveglia alla città”, come scrive il CentroDoc nella presentazione dell’iniziativa. In questa pagina il racconto di tutta la vicenda del contro-vertice dalle assemblee di aprile alle giornate del 12-15 giugno 2000, corredato da una selezione di fotografie di Luciano Nadalini, dalle copertine di Zero in condotta – allora settimanale cartaceo – che seguì passo passo l’intera mobilitazione – e dai video realizzati da Visual City Virus e VidiMov con le immagini del corteo contro Forza Nuova del 13 maggio e delle giornate di assedio e “Con-testa-azione” di giugno contro il vertice Ocse. In fondo al testo: i pdf con i materiali d’archivio e il link alla raccolta completa delle fotografie.

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Seattle e i “no global”

Il vento di Seattle del 30 novembre 1999 tirava ancora forte. In quella data il Wto (World Trade Organization) aveva indetto una conferenza presso il Washington State Convention and Trade Center di Seattle per definire il punto di partenza di un nuovo ciclo di scambi commerciali. Ma gli incontri dell’Organizzazione mondiale del commercio furono completamente oscurati dalle massicce proteste organizzate attorno agli edifici in cui erano presenti i delegati di molti paesi stranieri. I ricchi del mondo dovettero rinunciare all’accordo per l’assedio dei manifestanti e per i ripetuti scontri di piazza con la polizia. Per cinque giorni, nelle strade di Seattle, i “no global” diedero forma a un nuovo movimento che, molto rapidamente, si diffuse in tutto il mondo.

I “no global”, oltre che un movimento contro la globalizzazione neoliberista, rappresentarono anche una modalità nuova di intendere la politica e la stessa democrazia. Molto più efficace e diretto quel “no” davanti all’aggettivo “global”, piuttosto che il rassicurante “new” della seconda ora. Quel “no” fu un grido contro gli effetti sociali disastrosi della globalizzazione economica ma, al tempo stesso, un appello per un’altra globalizzazione, quella dei diritti.

Il nostro paese, in pochi mesi, divenne il teatro internazionale delle proteste contro la globalizzazione. Il 19 e 20 maggio 2000 ad Ancona si manifestò contro le riunioni della Conferenza per lo sviluppo e la sicurezza dell’Adriatico e dello Ionio. Poi fu la volta di Firenze a scendere in piazza il 24 maggio contro i ministri della Difesa e i vertici militari degli Stati aderenti alla Nato. A Genova, dal 24 al 26 maggio, venne organizzata “Tebio, la fiera internazionale sulle biotech”. Quella mostra-convegno fu un’altra occasione per mettere insieme ambientalisti, terzomondisti, centri sociali e contadini per contestare, attraverso il coordinamento “MobiliTebio”, uno sviluppo basato sulle biotecnologie.

A metà del mese di giugno toccò a Bologna. Nel capoluogo emiliano, dal 12 al 15 giugno, era stata convocata una Conferenza dell’Ocse sulle piccole e medie imprese nell’era della globalizzazione.

L’Ocse, il club dei ricchi

Ocse stava per Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ma era conosciuta dai più come il ”Club dei ricchi” perché i 29 paesi che ne facevano parte producevano i due terzi dei beni e dei servizi del mondo.

Il giudizio dei no global sull’Ocse era netto: «Si tratta di un vero e proprio direttorio che offre ai Governi un quadro per esaminare, elaborare e perfezionare le politiche interne e internazionali che, nel contesto della globalizzazione dell’economia devono formare un insieme sempre più omogeneo. Le sue finalità, implicite ed esplicite, sono: abolire le barriere doganali e i vincoli legislativi che impediscono la libera circolazione dei capitali; rendere competitive le imprese dei singoli territori, affinché le lobbies padronali dei paesi ricchi si possano appropriare delle risorse a livello planetario, dalle merci al lavoro in tutte le loro forme».

La conferenza di Bologna, promossa dall’Ocse e dal Ministero dell’Industria, aveva al centro il tema della Piccola e Media Impresa. Come paese ospitante era stata scelta l’Italia perché le piccole e medie imprese avevano un peso maggiore nel tessuto produttivo rispetto agli altri paesi industrializzati. Come sede l’opzione era caduta su Bologna perché l’Emilia Romagna, da sempre, era considerata il laboratorio dove si erano sperimentate le varie forme della produzione decentrata e integrata. Il modello delle piccole e medie imprese, eterodirette dalle grandi aziende e subordinate al grande capitale, interessava i fautori della globalizzazione neoliberista perché in quei comparti produttivi i salari erano più bassi e le condizioni di lavoro più pesanti, i diritti sindacali erano ridotti al minimo o assenti del tutto, la flessibilità della produzione era altissima e spesso selvaggia.

All’incontro di Bologna avrebbero partecipato dirigenti d’impresa, banchieri, economisti, finanzieri, rappresentanti degli imprenditori e ministri, mentre non era prevista nessuna partecipazione per i rappresentanti dei lavoratori, né tantomeno di disoccupati e precari.

Organismi e persone non legittimate da nessun voto popolare, si sarebbero riuniti per decidere sempre più flessibilità, mobilità, lavoro precario, a termine, part time e in affitto. Obiettivo dell’incontro era la firma della “Carta di Bologna”: un manifesto della new economy per aprire le porte della globalizzazione alle piccole imprese.

La Rete Contropiani / No-Ocse

Le prime assemblee per preparare un “Contro-Vertice” iniziarono nell’aprile del 2000 in quello che un tempo era stato un cinema per film porno. I locali erano quelli dell’ex “Ambasciatori” (oggi prestigiosa galleria commerciale), situati in via Orefici, nelle vicinanze del vecchio “Mercato di Mezzo”.

Lo spazio era affidato ai volontari dell’associazione Piazza Grande, ma ogni mercoledì, per alcuni mesi, cominciò a ospitare le assemblee della rete Contropiani/No-Ocse. Il clima che si respirava era influenzato dal vento di Seattle, era qualcosa di nuovo rispetto agli anni di calma piatta del movimento.

Il primo documento dei “no-ocse” bolognesi esprimeva concetti chiari sulle giornate del vertice di giugno: «La conferenza di Bologna si presenta come un momento di elaborazione delle strategie di dominio dei poteri finanziari, senza alcuna attenzione né alle conseguenze umane ed ecologiche della spoliazione dei paesi poveri del sud del mondo, né alle esigenze di invertire, anche nei paesi di capitalismo avanzato, una logica di sviluppo che riduce l’occupazione condannando larghe fasce di giovani ad un futuro senza prospettive. Il movimento globale che si prepara a manifestare anche a Bologna non si limita però a una considerazione di tipo formale. Questo movimento è l’occasione per entrare nel merito di questioni come l’ambiente, il salario, l’esclusione, e per elaborare linee positive di ricerca e di azione. La cosiddetta “Carta di Bologna” uscirà da un altro di quei summit internazionali in cui si parla di globalizzazione e di sviluppo economico a porte chiuse. Dal 12 al 15 giugno i ministri del Club dei ricchi sveleranno alle piccole e medie imprese come approfittare della globalizzazione e come essere più competitivi in barba ai diritti dei lavoratori. Sarà l’ennesimo vertice liberista, all’insegna della globalizzazione, della competitività e dell’estrema flessibilità della manodopera, dove la tutela dei lavoratori della piccola e media impresa è un argomento non previsto. L’Ocse e il Wto sono organizzazioni internazionali antidemocratiche ed arbitrarie, in quanto operano al di fuori del controllo di chi ne subisce le conseguenze: tali organismi agiscono nell’assoluta mancanza di trasparenza e utilizzano (anche) la guerra per difendere i loro interessi economici. Inoltre, si servono delle istituzioni politiche locali, nazionali ed internazionali per attuare il loro progetto neoliberista. Qualcuno ne difende strenuamente il ruolo e la funzione, qualcun altro ritiene, più laicamente, che debbano essere “democratizzate” e modernizzate. Per quel che riguarda noi, crediamo semplicemente che tali organismi non abbiano alcuna legittimità, ed è per questa ragione che abbiamo scelto di impedire loro di parlare a Bologna, come è stato a Seattle nel dicembre scorso».

Si organizza il contro-vertice

Negli incontri del mercoledì all’ex Ambasciatori, settimana dopo settimana, con la rete Contropiani / No-Ocse prendeva corpo un nuovo movimento che non guardava indietro, che non era regressivo o nostalgico, ma era critico e radicale contro i processi di globalizzazione in atto. Un movimento libertario che, semmai, voleva allargare e globalizzare i diritti, denunciando le crepe di un sistema totalizzante, che riproponeva la guerra come soluzione, che rapinava le risorse ambientali e impoveriva interi popoli, riducendo gli individui a merci, sempre più flessibili e precarie.

Contropiani era un nome collettivo, un’identità e non un coordinamento di sigle. Ci lavoravano attivisti sociali e politici di tre generazioni e ogni voto valeva per uno.

Più di ogni altra cosa, a rendere limpido quello che stava nascendo furono le parole di Egidio Monferdin (un compagno che oggi non c’è più e che era stato molto attivo negli anni ’70): «Io sento il bisogno di ricominciare, perché ho ancora voglia di cambiare, perché è cambiato il mondo, perché siamo cambiati noi, tutti. Le nostre esperienze di vita di questi anni hanno conosciuto e preso strade diverse. Oggi queste strade si sono di nuovo incrociate, in un movimento globale che non si è mai visto. E allora ripartiamo da capo, questo non significa tornare indietro. Quelli della mia età possono elaborare il loro vissuto per avere una base più solida per guardare al futuro…».

In vista del “vertice” sulla piccola e media industria, il nuovo movimento si proponeva di contestare alla radice la logica liberista: «Vogliamo evitare che sia un incontro in cui padroni e governi decidano, fuori di qualsiasi controllo, di questioni che riguardano la vita di milioni di persone. Per parte nostra non taceremo. Abbiamo intenzione di realizzare una serie di iniziative, in vista del convegno, sulla base di un documento che presenteremo pubblicamente, e, alla fine, daremo vita a un vero e proprio contro-convegno».

Sulla giornata di azione globale, prevista per il 14 giugno, i no-ocse la immaginavano in questo modo: «Le azioni li vorremmo organizzare in maniera non gerarchica, come una rete decentralizzata e informale di gruppi autonomi che lottano per la solidarietà e la cooperazione usando forme organizzative non autoritarie di democrazia dal basso. Ogni evento o azione va organizzato autonomamente da ciascun gruppo, mentre coalizioni di vari movimenti o gruppi potrebbero essere formati a livello locale, regionale, etc… La nostra strategia a livello locale è che i vari gruppi cooperino a creare un’atmosfera festosa come scenario delle loro azioni. Esempi di azioni immaginabili sono: feste di strada, scioperi, distribuzione di volantini, teatro di strada, picchetti, occupazioni, blocchi stradali, pedalate di massa, esposizione di striscioni, sabotaggi, carnevalate, fiere simulate, cortei, musica, danza, azioni di solidarietà, riunioni fuori dagli spazi istituzionali, recupero di spazi come strade, terre demaniali e centri direzionali, per un loro uso collettivo».

Per il vertice dell’Ocse, i no-global bolognesi, oltre alle manifestazioni piazza, discussero di usare altre tattiche di protesta. Non solo cortei, blocchi e sit-in, ma anche attività di controinformazione e boicottaggio su Internet. La prima tappa fu la costruzione di un network massmediale indipendente: Contropiani2000.org. Per quanto riguarda la comunicazione, venne aperta una collaborazione costante con il settimanale Zero in condotta che pubblicò i programmi delle iniziative del contro-vertice, interventi e riflessioni. Venne costituito un centro di produzione e diffusione di materiali informativi. Venne costituito un coordinamento per la messa in rete delle azioni e delle iniziative proposte anche da fuori città, per l’organizzazione di eventi “per la parola e il confronto” e per l’apertura di spazi musicali, video e rassegne.

Ma non era finita lì. Un gruppo di cyberwarriors propose di boicottare i siti ufficiali dell’Ocse, organizzando un “netstrike”. Si trattava di un vero e proprio “corteo telematico”, una mobilitazione sulla rete che consisteva nel concentrare i modem e i mouse di migliaia di navigatori su un determinato sito web fino a ingolfarlo. “Netstrike No Ocse” sostenne che «l’azione avrà lo stesso effetto dirompente di una manifestazione di piazza… sarà un corteo virtuale composto da migliaia di persone che occuperanno le vie d’accesso all’incontro».

Le donne di “Zona femminista – Zona lesbica”, promuovendo anch’esse la mobilitazione contro l’Ocse, affermarono: «Siamo quelle che pagano di più il prezzo della riorganizzazione internazionale del capitale, nel sud come nel nord del mondo, come mano d’opera meno pagata, come produttrici di un lavoro “invisibile”non quantificabile, come ammortizzatori sociali, come valvola di sfogo di frustrazioni sociali ed economiche… Negli ultimi tempi ci è toccato assistere a riassestamenti ed evoluzioni rapidissime del potere. L’oppressione si è rifatta il look: quello che prima era lo stato nazione adesso è formato da agenzie globali. I processi economici sono ormai gli unici a decidere del destino di tutti gli essere viventi. La donna boliviana fa la lotta per l’acqua e ci muore. Noi facciamo una vita virtuale, “tranquilla”, vedi le grandi disperazioni e ti senti nel “fortino bianco” ma li dentro c’è la biogenetica, il cancro, la prostituzione, la morte sul lavoro… Riprendiamo il filo che ci lega alle donne, ai giovani, agli operai di Seattle; alle donne del Chiapas; alle contadine boliviane e a quante lottano nel mondo contro l’oppressione e lo sfruttamento».

Nell’appello, che Contropiani lanciò a livello mondiale, venne scritto: «Il romanzo di fine secolo ha narrato l’abbattimento delle frontiere per mercati e capitali, mentre si ergevano barriere invalicabili costruite per respingere i vissuti e i desideri di milioni di migranti; ha illustrato l’emancipazione della donna attraverso l’approssimazione al modello maschile; ha raccontato di come la competizione rappresenti un valore e i diritti sociali una spesa da contenere, ha spiegato che nel mondo tutto è in vendita mentre quel che non è in vendita è fuori dal mondo, ha sottolineato gli aumenti di produttività determinati dall’introduzione delle nuove tecnologie e ha inserito in note a piè di pagina la fisiologica riduzione delle opportunità di reddito, mentre andava evidenziata con caratteri cubitali la necessità di ridurre il tempo di lavoro e redistribuire la ricchezza socialmente prodotta. Per il secolo che viene va scritto un romanzo collettivo nel quale i campi lager per migranti clandestini siano ricordo di un tempo triste in cui i mari e le frontiere grondavano di sangue e di vergogna; nel quale l’autonomia economica della donna si coniughi con il diritto di disporre liberamente del proprio corpo, della propria vita, della propria sessualità; nel quale opporre alla competizione fra le imprese la potenza produttiva della cooperazione sociale; nel quale eguali diritti per tutte e tutti prefigurino un modello di sviluppo diverso e opposto a quello che abbiamo conosciuto e odiato».

Nelle assemblee preparatorie

Nelle assemblee preparatorie al Contro-Vertice si aprì una riflessione sui modi in cui la forma impresa si era trasformata negli ultimi anni per effetto dello sviluppo delle nuove tecnologie.

Certo, c’era stata una valorizzazione del lavoro mentale, ma, allo stesso tempo, si era resa possibile la dislocazione della produzione in aree del Sud del mondo. La globalizzazione aveva significato essenzialmente fluidificazione del lavoro attraverso la creazione di circuiti di rete e l’integrazione di comparti produttivi distanti.

Molte delle lavorazioni industriali meccaniche erano state trasferite in aree nelle quali il costo del lavoro era bassissimo, con una forte riduzione del costo del lavoro a parità di produttività.

Contemporaneamente, nelle aree di sviluppo high tech, la forma classica dell’impresa gerarchizzata e strutturata in maniera disciplinare andava via via trasformandosi con le regole produttive che si incarnavano in automatismi tecnolinguistici. Non c’era più il caporeparto a svolgere il compito da cane da guardia che obbligava a tenere un ritmo lavorativo forsennato come ai tempi della catena di montaggio. Nei contesti del lavoro cognitivo era la macchina, il telefono cellulare, l’investimento di desiderio e l’illusione economica a creare le condizioni per una giornata di lavoro illimitata.

Se qualcuno pensava che lo sviluppo delle nuove tecnologie poteva produrre come effetto una riduzione del tempo di lavoro, questa idea era risultata una pia illusione dato che stava succedendo piuttosto il contrario.

Fin quando il lavoro aveva caratteri di sostanziale intercambiabilità e di spersonalizzazione, e il rapporto dipendente era chiaramente iscritto nel rapporto salariato, il lavoro veniva percepito come qualcosa di estraneo. Le tecnologie digitali, invece, avevano aperto una storia radicalmente nuova. La stessa nozione di produttività (quantità di valore prodotto nell’unità di tempo) era divenuta più indefinita e difficile da classificare. Anche il rapporto tra tempo e quantità di valore andava ridefinito perché non tutte le ore di un lavoratore cognitivo erano uguali, dal punto di vista del valore prodotto.

L’altro dato che balzava tristemente agli occhi era che la maggior parte dei lavoratori high tech consideravano lavoro e impresa come la stessa cosa, indipendentemente dalle condizioni giuridiche e formali entro le quali il rapporto di lavoro si svolgeva. Inoltre andava considerato il fatto che, mentre il lavoratore industriale metteva nella prestazione salariata le sue energie puramente meccaniche, ripetitive, spersonalizzate, il lavoratore high tech con caratteristiche creative, comunicative, innovative, molto spesso metteva nella sua prestazione il meglio delle proprie capacità intellettuali.

Parlando di impresa, per la Rete Contropiani, questa differenza era decisiva. Nel terzo millennio, per una sezione sempre più significativa della forza lavoro globalizzata, l’impresa tendeva ad essere l’oggetto di un investimento non solo economico ma anche psichico e desiderante. Molti di questi lavoratori consideravano il lavoro come la parte più interessante della loro vita e non si opponevano più al prolungamento della giornata lavorativa.

Questo significava che, per un settore del neo-lavoro (certo minoritario a livello mondiale, ma non più minoritario nei paesi ad alto sviluppo tecnologico e alta intensità di connessione telematica), la nozione di impresa aveva acquistato un significato del tutto diverso da quello del passato.

Nella fase industriale del capitalismo l’impresa aveva un significato di mera organizzazione del capitale per una finalità economica come lo sfruttamento del lavoro umano e l’accumulazione di capitale. Con la globalizzazione neo liberista il contesto dell’impresa e la sua demarcazione erano ancora dettati dall’economia, e quindi dalle forme economiche del capitalismo, dallo sfruttamento e della scarsità del reddito, ma ora l’impresa significava qualcosa di molto più complesso, e questa ambiguità il movimento no global avrebbe dovuto coglierla.

(A tanti anni di distanza, nei tempi del lockdown e del lavoro da remoto, quella discussione fatta dai No-Ocse risulta essere di una disarmante attualità. Infatti, anche dopo il Coronavirus, lo smart working, senza vincoli di tempo e di luogo, trasformerà lavoro giornaliero di tante persone).

La tragedia dei bimbi rom

La tragica morte di Alex e Amanda, due bambini rom arsi vivi nella loro roulotte, nella notte del 3 aprile 2000, all’interno del campo nomadi di S. Caterina di Quarto divenne un tema di primaria importanza all’assemblea dell’ex Ambasciatori e ripropose l’annosa questione della precaria e indegna sistemazione allestita per i profughi di etnia rom fuggiti dalle zone di guerra e di forte tensione etnica dell’area balcanica a partire dalla fine degli anni ’80.

L’Italia era l’unico paese, in Europa, che ancora concepiva e permetteva l’esistenza di campi sosta simili a quello di S. Caterina, le cui pessime condizioni igieniche erano state più volte denunciate e il cui stato di totale insicurezza per chi ci abitava era ben conosciuto dagli amministratori locali che si erano succediti al governo della città.

Episodi come quello avvenuto a Bologna si erano ripetuti più volte, nella più totale impunità, da Milano a Roma, ovunque vi fossero rom che ancora non avevano mai potuto godere di una casa e, da sempre, costretti a subire continui abusi dei più elementari diritti umani.

Il movimento bolognese decise di mobilitarsi per la tragica morte dei bambini rom, di essere presente ai funerali di Alex ed Amanda e di scendere in piazza 8 aprile, nella Giornata internazionale del popolo rom, con un corteo che partì da Piazza Maggiore.

Il 12 aprile viene lanciato l’appello

Le giornate di giugno dei No-Ocse sarebbero state costruite attorno a tre idee:

«Salario Minimo Planetario, perché oltre la dimensione planetaria della produzione venga garantito il diritto ad un reddito dignitoso e sufficiente a tutti i soggetti che contribuiscono alla creazione della ricchezza sociale globale.

Libertà di movimento per tutte e tutti, perché gli spostamenti delle persone rientrino anch’essi nella sfera dei diritti di cittadinanza, e non in quella dei doveri dell’economia.

Libertà di accesso ai saperi, con particolare riguardo ai risultati della ricerca scientifica, che non possono diventare merci sottoposte a brevetti, ma devono restare libero patrimonio del sapere e della cooperazione sociale.

La data del 14 giugno 2000 a Bologna sarà una giornata di Sciopero di Cittadinanza la cui piattaforma è racchiusa in queste tre proposizioni».

Oltre alle manifestazioni, i no-ocse proponevano una conferenza alternativa, in cui sarebbero stati trattati temi come il diritto alla mobilità per le persone e il reddito di cittadinanza, per non cedere al ricatto della disoccupazione, della miseria di un lavoro precario e non garantito.

L’obiettivo era creare uno spazio pubblico di riflessione, approfondimento, dibattito ed elaborazione durante il vertice Ocse per smontare, demistificare, analizzare criticamente la new economy. Per costruire collettivamente una “contro-carta”, più complessa, più plurale, più sociale, che si esprimesse in uno spazio pubblico di dissidenza critica ancora più aperto ed esteso di quello che si è costituito in città nella fase preparatoria alle giornate di giugno.

Alcuni punti usciti dal lungo dibattito delle settimane precedenti vennero presentati: «In nome della libertà della ricerca rifiutiamo la sua sottomissione al criterio del profitto economico. In nome della universalità dei diritti umani ci opponiamo a un uso del sapere che accentui le disuguaglianze sociali anziché ridurle. Il patrimonio conoscitivo non può essere trasformato in uno strumento di potere e, di conseguenza, non può essere ammessa l’appropriazione privata dei prodotti della ricerca sulla vita. La ricerca e il “diritto di proprietà intellettuale” sono il nodo reale su cui aprire uno scontro che sia globale, fortemente etico, e senza alcuna offerta di negoziare alcunché, se non una trasformazione che sia assolutamente radicale, e perciò e non contrattabile. Combattere l’imbarbarimento globale delle società e degli individui, restituire potere alle singole persone. La globalizzazione mette in pericolo principi etici fondamentali: il diritto alla salute ed alla felicità degli individui, la proprietà ed il controllo sulle idee e sui processi cognitivi. Limita la possibilità di comunicare con gli altri, sottrae agli individui e all’intera umanità il diritto di disporre liberamente di informazioni fondamentali che non possono essere informazioni proprietarie, soggette a copyright».

La settimana delle alternative

Dall’8 al 13 maggio, nella Sala dei Notai, in Piazza Maggiore, Le Monde Diplomatique, insieme all’Associazione culturale Punto Rosso, al quotidiano Il manifesto; alla rivista Carta-Cantieri sociali, al settimanale Zero in condotta, all’Archivio storico Marco Pezzi e con il contributo organizzativo di alcune decine associazioni sociali e ambientaliste, promosse “La settimana delle alternative”.

Le Monde diplomatique era la più autorevole rivista europea di politica internazionale. Fondata nel 1954, era diventata un punto di riferimento per tutti quei gruppi, associazioni, movimenti del mondo laico, cattolico e ambientalista che cercavano di costruire un’alternativa equa e solidale al capitale globalizzato. Tradotto in 12 paesi del mondo, dal 1995, Le Monde diplomatique era pubblicato in lingua italiana come supplemento mensile al quotidiano Il manifesto.

Le Monde diplomatique era il giornale che per primo aveva parlato del “pensiero unico”. Nel gennaio del 1995, in un editoriale, il suo direttore Ignacio Ramonet l’aveva definito come «la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale».

Ramonet era noto nel mondo della sinistra critica, era tra i promotori del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, oltre che membro onorario di Attac, l’associazione che promuoveva la Tobin Tax, cioè una tassazione delle transazioni finanziarie. e

Il gruppo redazionale di Le Monde diplomatique aveva deciso di sostenere direttamente la posizione politica di Attac fortemente avversa alle politiche neoliberiste e chiaramente orientata ai valori della dignità umana e della protezione dell’ambiente.

La settimana bolognese di Le Monde diplomatique, promossa dal Forum mondiale delle alternative e da Attac-Italia, era la prima occasione di contatto diretto del movimento italiano con la redazione del mensile francese. Si trattava di un importante momento di riflessione sulle nuove prospettive con le quali i movimenti di opposizione dovevano confrontarsi all’inizio del nuovo secolo, dopo le grandi manifestazioni di Seattle e il convegno di Milano su “L’orizzonte delle alternative”.

Il programma si articolava in una serie di incontri nei quali i redattori del giornale avrebbero affrontato alcuni fra i temi principali del dibattito politico. L’obiettivo era che l’incontro potesse rappresentare un ulteriore passo nella costituzione di una rete di soggetti in grado di rompere il muro del “pensiero unico” neoliberista. La Rete Contropiani non aderì formalmente all’appuntamento, ma molti attivisti parteciparono agli incontri e ai momenti di discussione.

13 maggio: in diecimila contro Forza Nuova, una nuova stagione dell’antifascismo

Per il 13 maggio 2000 Forza Nuova aveva indetto a Bologna una manifestazione europea. Il programma del raduno fascista prevedeva un convegno alla mattina presso un grande albergo cittadino, poi un corteo per le vie del centro da concludersi in piazza Galvani con un comizio. Erano previste delegazioni dell’estrema destra da quasi tutti i paesi europei. Era annunciato anche l’arrivo di diversi gruppi di naziskin.

La giunta di centro destra del sindaco Guazzaloca, e in particolare il suo vicesindaco Giovanni Salizzoni (che si proclamava “antifascista democratico cristiano”), aveva dichiarato la sua disponibilità a garantire l’agibilità politica a Forza Nuova. Le proteste delle associazioni partigiane, prima, dei partiti di centro-sinistra e di CGIL-CISL-UIL poi, non erano riuscite a raggiungere grandi risultati. Tutte le realtà di movimento avevano deciso di indire una grande manifestazione contro il raduno fascista. Come contraltare, la sinistra istituzionale aveva indetto il classico presidio in piazza Nettuno, delegando in toto alla questura il controllo della manifestazione di Forza Nuova.

Il 7 maggio il “Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico” decise di vietare sia il corteo dei fascisti sia il corteo antifascista del movimento. Nei giorni successivi veniva revocata l’autorizzazione al comizio di Forza Nuova in piazza Galvani. I fascisti avrebbero potuto riunirsi in piazza del Baraccano. La mattina del 13 maggio l’albergo dove doveva svolgersi il convegno fascista disdisse la prenotazione. Polizia e carabinieri iniziarono a militarizzare la zona dei viali di circonvallazione, dalle parti dei giardini Margherita, per permettere a un centinaio di nazisti di radunarsi al Baraccano.

Alle tre del pomeriggio, in piazza Nettuno, cominciarono a radunarsi migliaia di persone. L’indicazione dei compagni del movimento era di formare un corteo per dirigersi verso il Baraccano. La piazza si svuotò, più di diecimila persone si incamminarono per via dell’Archiginnasio. Quando la testa della manifestazione arrivò all’altezza di piazza Minghetti, su via Farini si trovò davanti un massiccio spiegamento di polizia. Poco dopo partì una carica pesante, che vide una risposta compatta dei manifestanti. Ci furono diversi momenti di scontro, poi il corteo si ricompattò mezz’ora dopo in piazza Maggiore.

Da lì ripartì per via Rizzoli, una massa enorme (soprattutto giovani) riprese le strade della città, ritornando verso il luogo degli scontri, fino a Porta Santo Stefano. Intanto, la polizia aveva fatto defluire i nazi dal Baraccano con alcuni pullman. I manifestanti si ripresero la parte della città che era stata militarizzata per proteggere l’incursione dei neo-fascisti.

Il giorno successivo, quasi all’unanimità, i commentatori politici si scamiciarono negli attacchi al corteo antifascista.

“Contro tutti i fascismi globalizziamo i diritti” era lo striscione di Contropiani che apriva tutti e due i cortei di Sabato 13 maggio contro Forza Nuova. Da quel giorno molte persone si ritrovarono nella dimensione pubblica della città, nelle sue strade e piazze, finalmente riattraversate da un flusso concreto di saperi e di sensibilità, finalmente e ancora una volta, in movimento. Per dire no ai nuovi fascismi, come sempre frullati misti di spranghe e doppiopetti.

Video (realizzazione Visual City Virus): qui

L’assemblea del 2 giugno

Venerdì 2 giugno all’ex cinema Ambasciatori si tenne l’assemblea conclusiva per definire tutti gli appuntamenti per le giornate di protesta contro il Vertice. Fu la più grossa tra quelle che si erano tenute nei mesi precedenti. Più di 400 le persone presenti, 43 gli interventi, tre ore e mezza la durata, più di 2.000 le sigarette fumate, circa 150 gli spinelli accesi, per quella che fu ricordata come l’assemblea più affumicata della storia dei movimenti.

Erano presenti all’incontro anche delegazioni dei centri sociali della “Carta di Milano”, dei centri sociali del Nord-Est, del Movimento Antagonista Toscano, di un centro sociale di Feltre, del centro sociale Vittoria di Milano.

Si discusse a lungo e con tante sfumature su come sarebbero state le mosse delle contromanifestazioni dal 12 al 15 di giugno, alla fine le decisioni vennero prese e le indicazioni vennero date.

In primo luogo i simboli. Sarebbero stati due: il carrello della spesa per affermare che “i nostri corpi non sono in vendita” e l’elmetto giallo antinfortunio degli operai per dire “basta con le morti sul lavoro”.

L’idea di fondo era di formare, per tutte le giornate, una variegata catena umana che occupasse una grande fetta del centro storico e assediasse tutti i delegati dell’Ocse che si sarebbero ritrovati nelle prestigiose sale dei palazzi medievali collocati tra Piazza Maggiore e Piazza Nettuno. La prevista “grande abbuffata” doveva andare di traverso ai potenti della terra e ai loro vassalli, valvassori e valvassini. La parola d’ordine che lanciarono i no-ocse fu: “Loro mangeranno nel castello, noi li prenderemo d’ assedio come i servi della gleba”.

L’assedio sarebbe stato “sceneggiato” in tanti modi, ma la sua incisività doveva essere reale. Probabilmente, per la presenza annunciata di tremila tra poliziotti e carabinieri, la forza per impedire fisicamente l’accesso delle delegazioni straniere al cuore del vertice, situato in Sala Borsa, non ci sarebbe stata. Ma la sera del 14 giugno il blocco, per lasciare tutti dentro e impedire lo spostamento dei delegati nella sontuosa Villa Albergati, andava assolutamente praticato e la principesca cena di gala per i rappresentati dei 29 paesi membri dell’Ocse andava fatta saltare.

Nel giorno clou del 14 giugno, si prevedevano iniziative per tutta la giornata e per tutta la città. “Con-testa-azione / Sciopero di cittadinanza” il titolo deciso. L’appello era “tutte e tutti in strada per impedire / bloccare / distribuire / boicottare / sabotare /contestare /ridicolizzare il vertice Ocse”.

Diversi punti di concentramento attorno a Piazza Maggiore, per una battaglia di logoramento e di blocco, più che di scontro frontale. Una strategia di pressing e accerchiamento avvolgente, riprendendo lo “show down” che si era visto a Seattle. Massa di corpi con tante iniziative di resistenza attiva e una “rete di informatori” per spiare le mosse del nemico: «I compagni che lavorano negli alberghi ci diranno dove sono alloggiate le delegazioni straniere e noi si va a far casino sotto le camere e le si tiene sveglie il più a lungo possibile»… «I compagni che lavorano all’Atc ci indicheranno gli spostamenti dei percorsi dei bus e noi potremo capire come sarà disposta la polizia». L’obiettivo era di essere in migliaia, tenere bloccato il quadrilatero del centro per setto/otto ore. Con blocchi e catene umane in quattro o cinque vie, con la possibilità per ogni gruppo di scegliersi la propria strada, superando le divergenze che pure erano uscite.

«Alle vetrine mettiamoci una pietra sopra», con un gustoso gioco di parole venne chiuso un argomento, l’assalto alle vetrine delle banche, posto in alcuni interventi. A chi aveva paura di un arrivo incontrollato di gente da fuori qualcuno rispose: «Magari arrivano diecimila giapponesi incazzati e radono al suolo Bologna… così tutti siamo a posto».

Per quanto riguarda le iniziative di avvicinamento e di completamento del contro-vertice, venne stilato un corposo calendario di seminari da tenersi presso le facoltà di Scienze Politiche ed Economia. “Diritto al sapere e alla conoscenza critica e logica di impresa”, “La globalizzazione e l’America Latina”, “Sicurezza nei luoghi di lavoro”, “Libertà di movimento per tutti gli essere umani”, “Libertà di accesso ai saperi”, “Salario minimo planetario”.

Il contro-vertice si sarebbe aperto ufficialmente il 9 giugno al Livello 57, con un seminario antiproibizionista dal titolo “Codici, pillole e carni umane”. Il 13 giugno ci sarebbe stato un incontro molto emozionante con le “madri di Piazza de Mayo” e non mancò neppure la mostra degli “Artisti contro l’Ocse”.

Ci fu spazio anche per l’annuncio delle iniziative fuori della cornice della Rete Contropiani: Comitato Senza Frontiere, Autonomia di Classe e Circolo Anarchico Berneri avrebbero promosso un corteo per il 10 giugno, partente da piazza dell’Unità. Corteo “autonomo” anche di RdB il 14 giugno (alle ore 16) sempre da Piazza dell’Unità.

Anche campeggi e luoghi per dormire, separati a seconda delle sensibilità politiche: Campeggio di lotta di autonomi e anarchici in via della Pietra, le sale del Tpo e del Livello 57 per i centri sociali del Nord-Est e della “Carta di Milano”, un capannone che era stato usato in precedenza per il “Piano Freddo” in via Ranzani per Contropiani.

Per le assemblee plenarie previste nelle giornate e, soprattutto, quella di chiusura del 15 giugno per discutere e approvare la “Contro-Carta di Bologna”, venne concessa dal Comune la multisala di via dello Scalo.

La settimana prima

In prossimità della settimana calda del vertice Ocse–PMI si ebbe la percezione che il Ministero dell’Interno non sarebbe stato con le mani in mano.

Il questore Domenico Bagnato dichiarò: “Siamo preoccupati, certo. Bisogna distinguere, comunque. Cercheremo di contenere i cortei disarmati e reprimeremo i violenti”.

L’assessore comunale alla sicurezza Giovanni Preziosa, da dusex super-poliziotto, preparò un piano blindato della città, sullo stile “difesa del fortino”, per non far passare nei quattro giorni nemmeno uno spillo. Voci accreditate parlarono del fatto che, oltre la blindatura di gran parte del centro storico, ci sarebbe stato un manipolo di rinforzi messi a disposizione dall’FBI per tutelare i delegati americani. L’8 giugno un giornaletto di estrema destra, diretto da Massimiliano Mazzanti, pubblicò in esclusiva la pianta del “Piano” dell’amico Preziosa. Sia nel caso che quanto riportato corrispondesse a verità, sia nel caso che fosse una forma di pressione sulla giunta di centro-destra per arrivare a misure di restrizione molto gravi, il segnale era esplicito: i tremila agenti annunciati avevano ben chiaro verso quale parte si sarebbero dovuti voltare. In tutti i casi, quelle grandi manovre fecero pensare che la dichiarata “volontà di ascoltare tutti”, annunciata in conferenza stampa dal Ministro dell’Industria Letta, si sarebbe ridotta a una risposta decisamente repressiva per chi voleva contestare il vertice neoliberista.

La stessa Rete Contropiani denunciò i continui fermi e le schedature della polizia nei confronti degli attivisti che facevano volantinaggio in città. Per opporsi a questi atteggiamenti intimidatori vennero raccolte centinaia di fotocopie di carte d’identità e consegnate in Prefettura durante un sit-in di protesta.

Alla vigilia dell’inizio del vertice, il sindaco Guazzaloca, preoccupato per i prevedibili mancati affari dei commercianti (suoi soggetti sociali di riferimento), giurò che il “Piano Preziosa” non avrebbe dettato le linee di comportamento della giunta comunale.

Sul versante del governo nazionale le dichiarazioni fatte dal presidente del consiglio Giuliano Amato furono l’apoteosi dell’ipocrisia: «I manifestanti del contro-vertice di Bologna hanno le nostre stesse preoccupazioni. Le nuove tecnologie devono essere utilizzate per rimuovere i confini tra ricchezza e povertà e considero questo il compito principale dei governi dei paesi industrializzati, prima ancora di quello delle economie emergenti», concludendo che, comunque, «è fondamentale ridurre i costi sulla nascita delle imprese».

Anche l’Ocse proponeva di abbassare le tasse alle aziende, senza dire una parola sui bassi salari e sulle pensioni da fame. E pure Innocenzo Cipolletta, direttore di Confindustria, si accodò chiedendo meno regole e meno vincoli per le imprese.

L’11 giugno

La Rete Contropiani decise di aprire le manifestazioni contro il vertice Ocse, con un presidio solidale davanti al Centro di Accoglienza per profughi della ex-Jugoslavia di Trebbo di Reno. Quella struttura, insieme al campo di Pianazze e ai diversi campi “nomadi”, rappresentava il passaggio dai campi della vergogna del lungo il fiume Reno ai campi della morte di Bologna, città “sicura”.

I campi e i CPA per profughi e immigrati , secondo i no-ocse, rappresentavano il degrado di un sistema amministrativo che, degli anni, aveva organicamente pianificato e applicato i meccanismi dell’esclusione:

L’espulsione era la strategia primaria dell’esclusione, per non includere nel sistema e agire con sgomberi, fogli di via, provvedimenti di ordine pubblico, rimpatri forzati, non concessione dei permessi di soggiorno ed ogni altra pratica per salvaguardare lo “spazio vitale” dell’Europa blindata di Schengen. La securitarizzazione degli interventi rappresentava il meccanismo ultimo dell’esclusione. Chiamando continuamente in causa la legalità/illegalità, si legittimava l’impostazione di interventi basati sul controllo e sull’ordine pubblico.

Gli zingari, gli immigrati e i profughi erano cittadini che vedono negati i loro diritti di cittadinanza.

Almeno mille profughi rom della ex-Jugoslavia erano arrivati a Bologna nei primi anni ‘90 a causa della guerra in corso nel loro paese. Di questi, solo la metà avevano trovato una sistemazione nei centri di accoglienza aperti nel 1994 nei comuni del bolognese. A sei anni di distanza, non si avevano notizie delle 600 persone che non avevano trovato alcuna forma di accoglienza.

Dopo la morte di Alex e Amanda era stata ribadita alle istituzioni la necessità di interventi urgenti di risanamento delle aree sosta e dei centri di accoglienza. Avevano risposto con la proposta di apertura di un lager etnico all’ex caserma Chiarini di Via Mattei.

Avevano riproposto l’aumento delle espulsioni, degli sgomberi e dei controlli.

Il 12 giugno

Il movimento no-ocse cominciò a farsi vedere con una miriade di piccole iniziative in città. Vennero offerti “contro- aperitivi” in strada e piatti di spaghetti con passata di pomodoro bio, vennero fatti sfilare carrelli da ipermercato con dentro “merce umana globalizzata”. Poi gli attivisti si misero a distribuire tortellini “bolognesi doc”. Una parte di questi vennero lanciati contro le vetrine di due Mc Donald’s. Un gruppo poi decise di usare lo spogliarello come arma. Completamente nudi sotto le Due Torri, con decine di poliziotti che tentavano di tenerli coperti con dei cordoni protettivi. «L’abbiamo fatto perché dicono che siamo violenti e noi rispondiamo con il nostro corpo nudo, non è in vendita», dichiarò uno dei “nudisti di strada”.

Alle 12 dello stesso giorno partì anche un Netstrike contro il sito dell’Ocse. L’idea era quella di un’azione individuale in rete portata avanti contemporaneamente da una massa di scioperanti possessori di accessi Internet. “Puntarono” i loro modem verso il sito dell’Ocse e lo occuparono fino a renderlo inutilizzabile almeno per le ore della mobilitazione.

Il 13 giugno

Nell’ambito delle azioni di avvicinamento al clou del 14 giugno, nel pomeriggio del giorno prima, un gruppo di attivisti si arrampicò sul vecchio gazometro di Viale Berti Pichat, srotolando un grande striscione contro l’Ocse. Sotto, davanti alla sede di Hera, venivano distribuiti volantini e si formò un presidio che occupò metà della carreggiata stradale. Il gazometro era un posto fantastico, che ricordava le immagini dei grandi fotografi sulla prima rivoluzione industriale. Era il simbolo arrugginito della Bologna industriale, ormai arrugginita. Negli anni ’80, un assessore socialista all’urbanistica aveva lanciato un concorso di idee per trasformare il gazometro in un centro culturale, per farne il Beaubourg di Bologna. Poi, l’assessore sparì, i soldi preventivati per l’intervento anche e, nell’abbandono, era aumentata solo la ruggine.

Presto arrivarono la Digos e i blindati, erano venuti anche loro a presidiare la zona. I poliziotti cominciarono a far pressione perché quelli che si erano arrampicati alla sommità del gazometro scendessero, perché era molto pericoloso. Dopo un tira e molla di alcune ore, gli attivisti cominciarono a scendere dalla scala che si attorcigliava a spirale attorno al grande manufatto. Dissero che Bologna da lassù era bella e affascinante, ma si era alzato troppo il vento e, citando Che Guevara, “per tentare di vivere” era meglio scendere. I continui cigolii di quella “montagna di ferro” completamente arrugginito non erano per nulla rassicuranti.

La “sera della vigilia” i luoghi trasformati da alcuni giorni in dormitori vennero utilizzati anche per discutere, in affollate assemblee, gli ultimi dettagli per il giorno dopo. Ci furono anche i training con le diverse fasi delle “prove tecniche di impatto”.

Al Tpo di via Irnerio passarono la notte gli attivisti dei centri sociali del Nord-Est, al Livello 57 (in via Muggia, sotto il ponte di Stalingrado) c’erano quelli degli altri centri sociali della “Carta di Milano”. La rete Contropiani si era installata in via Ranzani, lì vennero accolti molti “cani sciolti” e i militanti dei collettivi fuori dai giri delle reti nazionali. Anche molte case degli studenti fuori-sede si aprirono per ospitare altri manifestanti venuti da altre città.

Tpo, Livello 57 e Contropiani, a poche centinaia di metri da via Irnerio a via Ranzani al ponte di Stalingrado, si era formato un triangolo scaleno immaginario che conteneva tutte le anime dei no-global/no-ocse, una zona multicolore che si contrapponeva alla “Zona rossa” tracciata attorno ai palazzi del potere a difesa dei rappresentati del “club dei ricchi” del mondo.

Il 14 giugno

Alle 5 del mattino già tremila tra poliziotti e carabinieri presidiavano in assetto antisommossa tutti gli accessi al centro della città.

Il primo corteo partì dal TPO, prestissimo. Per gli aficionados dei movimenti quell’orario mattutino, normalmente, sarebbe stato inaffrontabile, ma quel giorno non si poteva fare altrimenti per provare a bloccare i delegati dell’Ocse.

Alla sfilata partecipavano un migliaio di persone, di cui almeno duecento formavano una testuggine, con le tute bianche, i gommoni protettivi, gli scudi in plexiglas e una rete, alle spalle dei primi cento, che aveva la funzione di “parare” i lacrimogeni. Gli attivisti del “cuneo” avevano caschi da motociclista e da football americano, caschetti gialli dell’anti-infortunistica operaia, protezioni di gomma piuma e maschere antigas. Prima della partenza dichiararono: “Saremo a mani nude, ma vogliamo bloccare una parte dei delegati, o quantomeno farli arrivare molto in ritardo alla conferenza. Tutti gli strumenti protettivi ci servono per non farci rompere le teste dai manganelli… Facciamo la nostra disobbedienza civile pensando alla gente che, a causa della globalizzazione, ci lascia le penne”.

Cominciarono a sfilare velocemente per via Irnerio, poi svoltarono a sinistra per via Indipendenza, con l’intento di raggiungere piazza Maggiore. Il cordone degli agenti, posizionato sulla grande arteria centrale, a cinquanta metri da Piazza Nettuno, era enorme e dava l’idea di essere invalicabile.

Quasi in contemporanea, sotto le due Torri, i militanti anarchici e di “autonomia di classe” bloccarono la strada. Erano alcune centinaia, in quel concentramento la situazione era tesa. La sede di via Avesella la notte prima era stata perquisita dalla polizia. Poco prima delle 9, molti dei presenti si sedettero sulle strisce pedonali in via Rizzoli, impedendo il passaggio e bloccando la circolazione degli autobus.

Il terzo concentramento era dalla parte opposta alle torri, oltre il “castello” di Palazzo Re Enzo, in via Ugo Bassi, a poche decine di metri dall’angolo del palazzo comunale, costeggiato da via Venezian. Qui si raggrupparono tre/quattro mila persone, con la Rete Contropiani c’erano le associazioni, i “creativi” e i “movimentisti di età avanzata”. Davanti all’enorme cordone poliziesco si schierano tre o quattro file di “caschetti gialli”, con un uomo nudo dalla “testa di lupo” che, a ripetizione, faceva incursioni verso gli agenti.

Poco dopo le 10, da via Indipendenza, i manifestanti provarono a forzare il blocco delle “divise blu”, un camion con sound system dava il tempo al ritmo della musica techno. Immediatamente partì una carica e un lancio dei lacrimogeni. I tonfi dei manganelli sugli scudi di plexiglas producevano un rumore impressionante. Ai lati del corteo ragazzi con secchi d’acqua avevano il compito di recuperare i lacrimogeni lanciati dagli agenti e spegnerli.

Il corteo tenne, indietreggiò lentamente e, poco dopo, riprovò a sfondare. Ci provarono almeno tre volte, ogni volta la polizia picchiava duramente sulla testuggine: gli scudi di plastica cominciarono a saltare in aria, insieme a qualche casco. Le cariche furono violente, qualcuno le definì “eccessive”. Tre dimostranti rimasero feriti a terra, alcuni vennero fermati, un fotografo dell’agenzia Eikon si prese una robusta manganellata in testa. Diversi ragazzi vennero trascinati per i caschi, uno dei feriti, sulla barella denunciò di essere stato colpito da almeno dieci poliziotti: “Ero a terra e ognuno che passava mi mollava un calcio o una randellata”.

In un momento di tregua, alcuni parlamentari presenti intavolarono delle trattative con le forze dell’ordine, quando si ebbe la certezza che i fermati sarebbero stati rilasciati, il corteo fece retromarcia e, facendo il percorso a ritroso, si andò a congiungere ai manifestanti di via Ugo Bassi. Molti attivisti dei centri sociali erano comunque soddisfatti: “Grazie alla testuggine abbiamo fatto ritardare il vertice di almeno un’ora”. Dopo l’unione dei due assembramenti, verso le 13, un unico corteo si portò in Piazza san Francesco, davanti alla chiesa il “popolo di Seattle” nostrano si concesse una pausa per riposarsi e ristorarsi alla belle e meglio.

Passate un paio d’ore, poco prima delle 16, si riformò la testa di una grande manifestazione, con quasi diecimila persone che si incolonnarono di nuovo verso Piazza Maggiore, con alla testa la mucca Ercolina dei Cobas del latte.

Quasi in contemporanea, partì da piazza dell’Unità un corteo di alcune migliaia di manifestanti, era organizzato dalle RdB e vide la partecipazione anche del movimento anarchico, del collettivo Senza Frontiere e di Autonomia di Classe.

La Rete Contropiani/No-Ocse e i centri sociali del Nord-Est e della “Carta di Milano”, che a metà mattinata non ce l’avevano fatta a passare, nel pomeriggio riuscirono a ottenere la “conquista simbolica” di costeggiare il “castello dell’Ocse” sfilando sotto i palazzi di piazza Maggiore.

Nella piazza grande, però, dopo che le componenti organizzate erano sfilate, un migliaio di manifestanti si fermò sotto il palazzo dove si stava concludendo il convegno. Quei ragazzi e quelle ragazze si sedettero a terra spontaneamente e dettero vita a un sit-in fino alle nove di sera che, di fatto, impedì ai convegnisti di uscire, facendo saltare la cena di gran gala prevista, come atto finale, nella sontuosa Villa Albergati. Qualcuno sostenne che quello fu l’unico momento di “reale disobbedienza civile” espresso in tutta la giornata.

Nel frattempo, c’era un altro corteo, quello del sindacalismo di base, che sfilava ancora per le strade della città ed era arrivato fino a via Ugo Bassi, trovandosi a dover fronteggiare l’ennesimo cordone di polizia.

Una giornata lunga quella di quel 14 giugno 2000, tutto quello che, in modo più o meno organizzato, faceva riferimento al movimento bolognese quel giorno era presente nelle strade e nelle piazze. Lo sforzo che era stato fatto perché si agisse almeno da elementi di disturbo nella giornata decisiva del vertice, probabilmente, non aveva prodotto quello che, per tante settimane, si era preparato.

L’evidenza non veniva negata da nessuno: la Carta di Bologna che l’Ocse aveva come scopo finale del convegno era stata stilata e, forse, non poteva essere altrimenti.

Massmediaticamente i no-global bolognesi avevano forato, ma l’obiettivo di bloccare il vertice che, al di là delle forme, era stato assunto un po’ da tutti, non si era raggiunto.

Ci fu chi, come Bifo, affermò che si era finiti dentro un grande videogame: «I cortei, gli scontri, i percorsi erano meticolosamente preparati, come in un videogame. E proprio per questo hanno sconfitto la potentissima macchina organizzativa del potere. La guerra che stiamo combattendo non ha nulla a che fare con la forza militare o con il coraggio fisico dei manifestanti. C’è bisogno anche di forza militare e di coraggio fisico (come ha dimostrato il comportamento vorrei dire eroico seppur simulato delle tute bianche). Ma la materialità dell’azione non è che un elemento estetico-comunicativo del costrutto virtuale nel quale si gioca la vera (l’unica) battaglia. Cosa pensavate di fare, ragazzi? Di battervi con delle pietre contro un dispositivo repressivo fatto di satelliti elicotteri plotoncini guidati cellularmente?»

Video (realizzazione VidiMov): qui

 

Il 15 giugno: “Noi non abbiamo vinto, ma l’Ocse ha perso”

Il 15 giugno, nella assemblea finale alla multisala di via dello Scalo, si discusse cosa sarebbe successo dopo. L’elaborazione della “contro-carta” segnò il passaggio ad una fase di innovazione politica radicale. I contenuti che avevano iniziato a emergere dal lavoro dei seminari, dalla discussione che c’era stata nei mesi da aprile a giugno, erano contenuti di tipo strategico che disegnavano un orizzonte di lungo periodo. Non si trattava di vincere o perdere. Anche se si fosse riusciti a fermare la follia iperliberista, gli effetti di venti anni dominati dalla dittatura del profitto non si potevano dissolvere in qualche giorno.

La forbice tra minoranza ricca e maggioranza super-povera si era allargata smisuratamente negli ultimi venti anni. Gli organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale avevano lavorato metodicamente a strangolare i paesi poveri, imponendo loro la riduzione della spesa pubblica per la sanità e l’istruzione, e quindi l’asservimento finanziario. L’esclusione era stata coltivata con cura, e si erano create le condizioni per una disperazione che si manifestava nelle forme dell’integralismo, della guerra interetnica, della malattia endemica, della psicosi aggressiva.

La cancellazione del debito era un atto di giustizia indispensabile, ma occorreva rendere strutturale un riequilibrio economico sul lungo periodo, cioè occorreva introdurre nella coscienza contemporanea un principio che sembrava cancellato: uguale lavoro, uguale salario.

Per queste ragioni era stata lanciata la parola d’ordine del salario minimo planetario. Certo non era una strada semplice. Ma il compito del movimento non era quello di una battaglia legislativa, di una proposta per obiettivi riformisticamente praticabili. Non serviva a niente ragionare in termini di rappresentanza politica, perché nessuno aveva in mente di formare un nuovo partito o di costituire un gruppo di pressione o di creare una chiesa dogmatica.

Zero in condotta, il giornale che per intere settimane aveva seguito da vicino, internamente, la mobilitazione contro il vertice, aveva intitolato “Noi non abbiamo vinto, ma l’Ocse ha perso”.

«L’Ocse aveva pianificato di fare un convegno a porte chiuse, senza informare neppure la popolazione della città ospitante. Il loro piano non ha funzionato. Per tre mesi cittadine e cittadini di Bologna, lavoratori e insegnati, studenti e ricercatori, precari e disoccupati, femministe e migranti si sono riuniti in decine di assemblee pubbliche per discutere i contenuti di quel vertice. In tutto il mondo la rete telematica ha amplificato la protesta degli esclusi. I consulenti e i burocrati dell’Ocse sono stati ricompensati per aver scritto i loro documenti, ma migliaia di persone stanno scrivendo i “contropiani” anche se non saranno pagati per questo. Insomma, dovrebbero riconoscerlo, qualunque cosa abbiano fatto dentro il “castello di Piazza Nettuno”, hanno perso questa battaglia».

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Documenti:  L’appelloManifestare informatiCarta dei dirittiPeace & Love (Wu Ming)Come in un videogame (Bifo)

Immagini: la raccolta delle foto di Luciano Nadalini