Speciale

Gli invisibili dei centri di accoglienza per migranti ai tempi del Coronavirus

Nuove testimonianze raccolte da Zeroincondotta da contesti in cui è alto il rischio di emarginazione. Al Cas di via Mattei non sono mai arrivate le risposte da Prefettura e cooperativa che lo gestisce su condizioni di sovraffollamento, mancanza di operatori e di mediatori culturali, carenze igienico/strutturali.

06 Aprile 2020 - 11:14

La dimenticanza nei confronti degli ultimi, dei più deboli socialmente, è sempre stata una delle tante “normalità” che sarebbe meglio non ritrovarsi quando questa storia del Coronavirus sarà finita. Ma è qualcosa di spaventoso essere stati per diverse settimane senza indicazioni del governo e, a cascata, di tutti gli enti che ne discendono, sulle strutture per i migranti e i richiedenti asilo. Gli operatori che lavorano ai Cas oppure nelle strutture più piccole o negli appartamenti del servizio Sprar/Siproim hanno più volte denunciato che una circolare ministeriale che spiegasse come rendere compatibili i principi del diritto d’asilo con le disposizioni di sicurezza per la pandemia non si fosse mai vista: «Di fatto si sono scordati di migliaia di persone, migranti, richiedenti asilo e operatori. E non hanno nemmeno cominciato a pensare a cosa si produrrà fra un po’ di tempo per effetto dell’eliminazione della protezione umanitaria, prevista dai provvedimenti di Salvini sulla sicurezza…Forse si sono scordati che quelle norme sono ancora in vigore… Anche in questo caso, le persone che verranno colpite non sono considerate dai decreti per l’emergenza Covid-19».

Quasi fosse una sorta di “pesce d’aprile”, il primo di questo mese, è uscita una circolare del “Capo Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione” che richiama l’attenzione dei prefetti sulle “disposizioni adottate per la prevenzione della diffusione del virus Covid-19, nell’ambito del sistema di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e dei centri di permanenza per il rimpatrio, anche alla luce dei quesiti ricevuti”. In questa comunicazione del Viminale si dice la più ovvia delle ovvietà: “Per evitare rischi di contagio tra i migranti accolti e tra gli operatori delle strutture di accoglienza, deve essere assicurato il rigoroso rispetto delle misure di contenimento previste a livello nazionale, compreso l’obbligo per gli ospiti di rimanere all’interno delle strutture”. E proprio perché, dal governo in giù, sembrano incuranti della realtà che si vive da tempo nelle strutture di accoglienza, nella nota romana si esterna un consiglio che può sembrare provocatorio: “Fondamentale è l’attività informativa che deve essere assicurata, in modo ampio e aggiornato, dagli enti gestori dei centri, con l’ausilio dei mediatori culturali. In particolare: sui rischi della diffusione del virus, sulle prescrizioni anche igienico-sanitarie, sul distanziamento all’interno dei centri, sulle limitazioni degli spostamenti e, nei casi in cui siano in atto le più stringenti misure previste per i casi di isolamento fiduciario o di quarantena, sull’esigenza del loro assoluto rispetto”. Naturalmente, come tutto questo si possa realizzare è lasciato all’estro e alla fantasia di coloro che si occupano di queste faccende, anzi, per meglio dire, di quelli che sono rimasti ad occuparsi di accoglienza per migranti e rifugiati dopo il massiccio taglio dei fondi, previsto durante il ministero di Salvini, che si è dimostrato, a volte, più letale del virus. Infine, per rispondere a una lettera inviata qualche settimana fa al governo da parte del Tavolo Nazionale per l’Asilo, in cui si chiedeva per Sprar/Siproimi e Cas di “garantire la proroga dei progetti in corso sino alla fine del 2020 e disporre il non allontanamento delle persone accolte”, si dichiara: “Per impedire gli spostamenti sul territorio, sino al termine delle misure emergenziali, dovrà essere garantita e monitorata la prosecuzione dell’accoglienza anche a favore di coloro che non hanno più titolo a permanere nei centri”.

Anche a Bologna, lo scorso 11 marzo, c’è stata una prima lettera di denuncia sulla situazione drammatica del Cas di via Mattei e di altri centri come Villa Aldini e Centro Zaccarelli. L’aveva mandata il Coordinamento Migranti al Comune, alla Prefettura, alla Questura e alla Regione Emilia-Romagna e venivano esposte le condizioni di sovraffollamento, la mancanza di operatori e di mediatori culturali, le carenze igienico/strutturali e la mancanza di prodotti sanitari e per la pulizia. Nella missiva si diceva “il Coronavirus non discrimina tra bianchi e neri”, e si sottolineava la preoccupazione degli ospiti delle strutture, degli operatori e delle operatrici. Si sottolineava come il caso più problematico fosse rappresentato dall’ex hub di via Mattei con il suo alto numero di ospiti. In via Mattei, infatti, vivono in più di 200 persone che dormono in camerate che da cinque, spesso anche dieci, con letti vicini, uno sopra l’altro. Molte di queste stanze non hanno nemmeno le finestre per cambiare l’aria. Alcuni utenti dormono in container, anch’essi sovraffollati, anch’essi senza finestre. La mensa è in comune. Si tratta, cioè, di un insieme di condizioni che sono l’esatto contrario di quello che solitamente viene prescritto.
Già prima dell’emergenza per il Covid-19 la struttura presentava notevoli difficoltà, tali da rendere inopportuna una sua ristrutturazione per portarla ad essere abitabile, funzionale e sicura. Così come è rimasto fino a oggi , il Cas è del tutto inadeguato a garantire sia gli ospiti sia le persone che ci lavorano, dato che è quasi impossibile mantenere le distanze di sicurezza e osservare, nella pratica, le norme igieniche necessarie a prevenire i contagi. In più, il personale, già decimato dai tagli dei Decreti Sicurezza, molte volte schiacciato da una situazione di precarietà, deve aggiungere a tutto questo anche le paure per la propria salute e per i rischi che si corrono in questa situazione. Molti operatori hanno preso ferie o congedi parentali, altri si sono messi in malattia.

A rincarare la dose sono arrivate anche le denunce dei sindacati di base, prima dell’Usb e poi dell’Adl Cobas. Alcuni operatori, iscritti a queste organizzazioni sindacali ci hanno detto che, per diverse settimane non erano fruibili i dispositivi di protezione (Dpi), solo il primo aprile sono arrivate le mascherine e i guanti. Prima di allora la responsabilità del reperimento dei Dpi è stata scaricata spesso sulle spalle dei singoli lavoratori che andavano a cercarli nelle farmacie o nei negozi di paramedicali. In alcuni casi è stato chiesto agli operatori di effettuare interventi di sanificazione e di continuare a seguire gli ospiti sospetti di Covid-19. Ma, in assenza di procedure chiare e di protocolli di collegamento con l’Asl e i servizi territoriali, come si fa richiedere lo svolgimento di funzioni di questo tipo? Per il sindacato Usb gli operatori e le operatrici dei centri d’accoglienza, per tutelarsi, hanno il diritto di stare a casa e, per questi motivi, è stato proclamato lo stato di agitazione. Anche per l’Adl Cobas non vengono garantite le tutele sanitarie, non si riconosce la pericolosità del lavoro che, in queste condizioni, è usurante anche da un punto di vista di rischio biologico. E, tantomeno, vengono previste garanzie economiche, per non parlare del rifornimento dei dispositivi di protezione che non è assolutamente consono alla situazione. Per entrambi i sindacati, ancora una volta, una situazione di emergenza (e questa è sicuramente la più grave) viene scaricata sia sugli utenti che sulle lavoratrici e i lavoratori dell’accoglienza che si sono già trovati altre volte a doversi sobbarcare i costi di precedenti circostanze drammatiche. Inoltre, all’inadeguatezza delle misure adottate a livello centrale, si è aggiunta la condotta dell’Asp Città di Bologna (l’azienda comunale per i servizi alla persona) che sta scoraggiando il lavoro da casa, richiedendo alle cooperative il normale svolgimento delle prestazioni, pur nell’acclarata mancanza di sufficienti e adeguati dispositivi di protezione per gli operatori.
Poi, in questa situazione, emerge ancora di più la condizione di precarietà e il clima di ricatto in cui sono costretti a operare i lavoratori di questo settore. La minaccia del mancato rinnovo del contratto che è sempre presente e il vincolo del senso del dovere verso l’utenza, lasciano poco spazio alla tutela dei propri diritti.

Le testimonianze degli operatori
Oggi, la paura del contagio e la paura di essere licenziati condizionano fortemente anche un diritto sacrosanto come la tutela della propria salute. Lo abbiamo toccato con mano lavorando a questo servizio, quando abbiamo riscontrato una difficoltà notevole a trovare operatori disposti a raccontare i loro problemi e la loro situazione. Alcuni però hanno voluto parlare e noi riportiamo volentieri le loro opinioni.

Prima intervista
«La cosa più grave, fino ad ora, è l’assenza di protocolli e procedure sanitarie. Se per gli appartamenti della Sprar si può seguire l’iter che i normali nuclei familiari hanno con i medici di base, per quanto riguarda le strutture collettive, dalle 20 persone in su, non c’è nulla. L’Igiene e la Sanità Pubblica dovrebbero spiegare nel caso dovesse succedere qualcosa come noi operatori dovremmo comportarci di fronte alla scoperta di un caso di infezione tra gli ospiti».

Quindi, secondo te, tutto è lasciato al caso?
«Per quanto riguarda noi ci hanno detto di rivolgerci agli Rls (i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza)… Se, invece, succede qualcosa a un utente, l’indicazione che abbiamo è di chiamare la committenza e poi si decide sul momento».

Questa situazione si sta verificando un po’ in tutta Italia, non solo a Bologna.
«Sì, è così… solo a Milano questo lavoro sulle procedure viene fatto, ma l’hanno messo in piedi quelli di Emergency… La cosa va benissimo, ma si tratta di una Ong, non è l’indicazione del servizio pubblico».

E per le operatrici e gli operatori è previsto qualcosa di più definito?
«No, per i lavoratori non sono ancora previsti accertamenti sanitari, tipo i tamponi. E, per quanto riguarda i Dpi, in alcune strutture c’erano in altre non sono mai arrivati».

Per quanto riguarda il vostro lavoro vi è stato richiesto un supplemento di compiti rispetto alle vostre mansioni abitudinarie?
«Tra le cose più assurde che ci sono capitate, una è la richiesta della Prefettura di andare a far la spesa per gli ospiti del Cas, per almeno 20 alla volta… Se, normalmente, i cittadini possono uscire ogni tanto per fare la spesa, perché chi abita in struttura (dando tutte le informazioni necessarie sulle norme comportamentali) non lo può fare? Effettuare una spesa per 20 persone in un supermercato, oggi, significa esporsi a una situazione di rischio per un tempo abbastanza lungo… Noi abbiamo paura… Non vorremmo diventare gli “untori” che rischiano di portare il virus in giro per la città… Poi siamo preoccupati anche per le nostre famiglie».

E’ vero che vi hanno chiesto di svolgere anche operazioni di controllo sugli ospiti?
«Si, è vero… ma ci siamo rifiutati… fare i controllori, non fa parte degli incarichi per cui siamo stati assunti… e, comunque, è assurda anche la sola richiesta».

Lo smart working è previsto nel vostro settore?
«Per quanto riguarda il lavoro da casa, l’Asp le prime due settimane ha fatto pressione perché non venisse fatto. In seconda battuta ha ribadito che il servizio doveva essere svolto principalmente nelle strutture, ma era possibile farlo per le aree trasversali, come l’area legale o l’area lavoro. Adesso si può fare, ma al massimo una o due volte la settimana».

Com’è la situazione dei richiedenti asilo?
«Dopo il 30 giugno i permessi di soggiorno per protezione umanitaria (quelli che Salvini aveva tolto) non esisteranno più… E, a tal proposito, non ci sono indicazioni diverse da parte di questo governo su quello che avverrà dopo quella data… Noi la questione l’avevamo già stata posta prima dello scoppio dell’epidemia. Poi ci sono i permessi già scaduti, questi sono prorogati fino al 15 giugno dato che gli uffici stranieri delle questure sono chiusi… Comunque, nella maggior parte dei casi, si tratta di permessi non rinnovabili… C’era chi stava provando di riconvertirli in permessi di lavoro, ma adesso non lo si può fare dato che la maggior parte delle attività produttive sono sospese e gli uffici per sbrigare le pratiche sono chiusi. E’ una situazione che riguarda soprattutto ragazzi dai 18 ai 20 anni, con un buon tasso di scolarizzazione, sui quali si stava lavorando per dei percorsi di inserimento con buoni risultati… Si rischia di perdere tutto quello che si è fatto».

Tutti i progetti messi in piedi per gli ospiti sono fermi?
«Sì, sia quelli di inserimento al lavoro, sia i tirocini formativi, sia i corsi di formazione… Per la formazione alcuni enti hanno iniziato a sperimentare la didattica a distanza, ma solo pochi ragazzi hanno gli strumenti informatici idonei a poterla seguire».

Seconda intervista
Tu, in questo momento, stai andando al lavoro?
«No, ho preso un congedo parentale, scegliendo di non entrare più negli appartamenti del progetto Sprar. Ci chiedono di lavorare in condizioni di rischio troppo elevate, così come altri operatori che non se la sentono, mi sono rifiutano di andare».

Cosa vi hanno chiesto?
«Vogliono che si faccia una visita al giorno all’appartamento, eventualmente la spesa per gli utenti e pure dei controlli sui ragazzi. Spesa e controlli, si tratta di mansioni che non sono di nostra competenza. I ragazzi ospiti, poi, hanno due atteggiamenti diametralmente opposti. C’è chi è molto impaurito e non esce mai… E’ come se si fosse messo in auto-quarantena già prima delle disposizioni che limitano le uscite di casa. C’è, invece, chi se ne frega e continua a uscire tutti i giorni per andare a trovare gli amici. Poi ci sono alcuni ospiti che lavorano e, se l’attività produttiva della loro azienda è permessa vanno normalmente. Poi ce ne sono altri in Cassa Integrazione».

La cosa che ti preoccupava di più era la mancanza per voi operatori di strumenti di protezione adeguati a gestire una situazione così complessa?
«Sì mancano i Dpi necessari… I guanti erano le uniche cose che avevamo a disposizione. Per le mascherine ci dovevamo arrangiare noi, la nostra cooperativa ha ricevuto dall’Asp solo poche mascherine usa e getta. Per entrare negli appartamenti non hanno mai pensato di darci le sovra-scarpe, le tute, e le cuffie per coprire i cappelli. Per gli alloggi non c’è mai stata una sanificazione certificata. Nel caso in un appartamento ci sia uno positivo, questo viene messo in quarantena in una stanza, ma gli altri residenti no. Normalmente quando in una famiglia c’è una persona positiva, tutto il nucleo familiare viene messo in isolamento. Quindi, in un contesto di questo tipo, il rischio che si corre è troppo alto. Essendo sprovvisto di protezioni adeguate, ho pensato non fosse il caso di continuare. Poi, come mi hanno detto dei miei colleghi che sono rimasti in servizio, l’Asp può pure mandare agli operatori dei video rassicuranti. Possono pure spiegare che negli appartamenti si può andare con i dispositivi che si ha a disposizione. Ma io dalla loro “protezione” non mi sento tutelato».

Fino a ora si conoscono dei casi di contagio?
«Si sa di un caso tra tutti gli ospiti degli appartamenti, mentre non si hanno notizie di casi che riguardano gli operatori».

Come è affrontata la questione del cibo per gli ospiti migranti?
«Per il Cas il cibo viene distribuito direttamente dal gestore in struttura. Per quelli che sono in appartamento hanno diritto a un buono pasto di 5 euro al giorno e ai pochi spiccioli del “pocket money”».

E quei famosi 35 euro a testa, argomento principe della polemica salviniana che fine hanno fatto?
«Questa storia andrebbe chiarita una volta per tutte. Nessun migrante, sia esso residente o rifugiato, riceve dall’Italia 35 euro al giorno. Si tratta di una grave inesattezza trasformata a strumento di becera propaganda politica e razziale, specialmente sui social network. In realtà, ogni giorno, i migranti ospitati nei centri d’accoglienza o nelle strutture alloggiative ricevono il cosiddetto “pocket money” e non 35 euro. Quelli vanno direttamente alle cooperative d’accoglienza e servono per coprire diverse spese: vitto, alloggio, ma anche la pulizia dello stabile e lo stipendio del personale dei centri. Il “pocket money”, pertanto, è costituito da pochi spiccioli (la media stimata è di 2,50 euro al giorno) che rappresentano una base di sostentamento che dovrebbe, secondo l’intenzione di alcune cooperative, responsabilizzare i rifugiati e richiedenti asilo».

Una cosa di cui si parla spesso è la precarietà come condizione del lavoro degli operatori.
«Nella mia cooperativa quasi tutti gli operatori sono assunti a tempo indeterminato. Ma ci sono altre coop che gestiscono diversi progetti Sprar a Bologna che hanno quasi tutti i contratti precari, con condizioni economiche e di lavoro per i propri dipendenti tra le peggiori che ci sono in giro».

Tra di voi lavoratori qual è il sentimento più diffuso?
«Gli operatori sono tutti abbastanza agguerriti. I conti si faranno alla fine. Se qualcuno rimarrà infettato la responsabilità è di chi ci a spinto a lavorare nelle strutture senza le condizioni di sicurezza che dovevano essere rispettate».

Quelle risposte mai arrivate
Tornando alla denuncia del Coordinamento Migranti sul Cas di via Mattei, questa è stata fatta propria anche da una rete di realtà collettive, tra cui l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Avvocato di strada di Bologna, Hayat onlus, Trama di terre, Ass. Bianca Guidetti Serra, Appennino Migrante, Ass. Benininesi per la fraternità, Ass. Lavoratori Marocchini in Italia, Ass. Senegalese Chaikh-Anta Diop, la Caritas Diocesana Bologna, le Comunità della Sierra Leone, Gambiana, Nigeriana, Pakistana, il Coordinamento Eritrea Democratica, la Diaspora Guineana dell’Emilia-Romagna, la diaspora Ivoriana dell’Emilia-Romagna e Yeredemeton Comunità Maliana e Usb Bologna. In più, Coordinamenti e Associazioni affermano che i Cas sono strutture con capienze troppo elevate, che la densità con cui sono sistemate le persone impedisce nella pratica il rispetto delle disposizioni di sicurezza, con conseguenze che sono facilmente prevedibili, non solo in termini di contagio, ma anche di impatto sul sistema sanitario. Quindi, è necessario, per i migranti ospitati nei centri di accoglienza, trovare subito degli alloggi più adeguati alle prescrizioni adottate per la pandemia. La richiesta perciò è che la Prefettura e il Comune di Bologna, ognuno per la parte di competenza, per garantire la salute degli ospiti” e dei lavoratori dei grandi centri, riorganizzino il sistema secondo un modello di accoglienza diffusa in piccoli appartamenti distribuiti su tutto il territorio metropolitano.

Sono passate diverse settimane, in questo tempo la Prefettura e la cooperativa che gestisce il Cas di via Mattei hanno cercato di far calare il silenzio sulle condizioni dei migranti ospitati, il Coordinamento Migranti ha proseguito la sua campagna di denuncia facendo uscire diverse fotografie che immortalavano la grave situazione del centro. Secondo il Coordinamento in questo periodo i migranti si sarebbero organizzati da soli per i turni di pulizia e per produrre le mascherine in modo artigianale perché, per il mese di marzo, da Comune, Regione e Prefettura non ne sarebbero arrivate. In più è stato riferito il caso di un migrante messo in isolamento in un container, del quale non si conoscono le condizioni, né se stia stato sottoposto al test tampone per verificare l’eventuale positività al Covid-19. Il 20 marzo si è fatto vivo il Comune di Bologna per voce dell’assessore Lombardo che ha affermato di aver chiesto alla prefettura di valutare l’esistenza di strutture “alternative” per garantire la “sicurezza dei migranti, degli operatori e di tutta la città”. La Prefettura, a quel punto, si è affrettata a dichiarare che i protocolli sanitari e le norme igieniche sono state rispettate. Per quanto riguarda l’ipotesi di chiudere il Cas, si è soprassieduto con molta noncuranza. Anche la nuova giunta regionale, al momento, non sembra avere trovato il tempo di fare almeno una dichiarazione pubblica. Tutti sembrano monitorare la situazione, ma nessuno prende l’iniziativa. Il 25 marzo la Prefettura ha pensato di chiudere il caso con una comunicazione ufficiale a stretto giro, nella quale ha precisato di “avere predisposto tutte le iniziative necessarie per l’applicazione delle misure di carattere igienico sanitario previste dagli strumenti normativi e che in tutti i centri è garantita la presenza di materiale per l’igiene della persona, nonché la minuziosa e costante sanificazione dei locali, secondo i protocolli sanitari”, ed è stata data “adeguata informazione ai migranti sui comportamenti da seguire”.
Insomma, a leggere bene, si tratta di condizioni che secondo molti degli interlocutori che abbiamo sentito non si sarebbero mai date.

A questo punto il Coordinamento Migranti, i sindacati di base, gli operatori, le associazioni, i centri sociali e tutte le persone a cui stanno a cuore i diritti delle persone più deboli, chiedono che sia tolto il velo di silenzio e di omertà che prova a coprire la situazione del Cas di via Mattei e la gestione delle altre strutture di accoglienza. Adesso tutte le istituzioni locali, la Prefettura, l’Asp, le cooperative che gestiscono devono dire con chiarezza come intendono dar seguito alle fumose indicazioni dell’ultima circolare del Viminale. Dalla sicurezza dei migranti del Cas di via Mattei e di quelli che abitano nelle altre strutture, dalle garanzie per la tutela della salute per le persone che in questi centri lavorano, passa la sicurezza della città e di tutto il territorio metropolitano.