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Finestre aperte sulla crisi / Si parla di una sanzione ingiusta e di home working

Sulle pagine di Zic.it l’iniziativa promossa da Vag61 nel contesto dell’emergenza coronavirus “per raccogliere piccole storie, pezzi di esperienze e racconti, lavorativi e non, per condividere ora ma soprattutto per tenere traccia. Tenere traccia dei profondi cambiamenti a cui siamo costretti, degli adattamenti e delle resistenze”. In questo articolo la nona e la decima narrazione.

04 Maggio 2020 - 14:46

Zic.it collabora all”iniziativa “Finestre aperte sulla crisi”, promossa da Vag61 per raccogliere testimonianze e contributi sulle conseguenze che l’emergenza sanitaria in corso produce sulle esistenze delle persone, partendo dalle esperienze quotidiane che in questi giorni si vivono dal punto di vista lavorativo, sociale, familiare. “Una raccolta di istantanee, di finestre aperte sulla crisi- è la presentazione del progetto- di fili rossi che si intrecciano oltre l’isolamento. Questa pagina vuole provare a raccogliere piccole storie, pezzi di esperienze e racconti, lavorativi e non, per condividere ora ma soprattutto per tenere traccia. Tenere traccia dei profondi cambiamenti a cui siamo costretti, degli adattamenti e delle resistenze, degli strappi e delle cuciture che viviamo sulla pelle ogni giorno. Un puzzle da costruire insieme e a cui attingere per il futuro”. In questo articolo la settima e l’ottava narrazione diffuse da Vag61.

Per inviare storie e contributi: infovag61@gmail.com 

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Storia #9: “Una sanzione ingiusta”

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Storia #10: home working

Distanziamento sociale e lockdown pesano per tutti e anche per me, ma so di vivere queste settimane in una condizione privilegiata. Ho un lavoro e un contratto: ho da temere come chiunque per gli effetti a lungo termine della crisi economica generata da quella sanitaria, ma non mi sono ritrovato a dover fronteggiare di colpo una caduta di reddito. Continuo a lavorare e ho la possibilità di farlo per lo più da casa, evitando una buona parte del rischio di esposizione al contagio. Lavorare da casa per me significa poter usare un personal computer che è davvero personale e una buona connessione alla rete. Posso contare su un ambiente domestico sufficientemente spazioso e non devo conciliare l’attività lavorativa con compiti di cura. E non ho neanche vicini che fanno risuonare l’inno nazionale dal balcone.

Perchè, allora, rispondere all’invito di scrivere esperienze personali che contribuiscano a raccontare la crisi in corso? Intanto, perchè la condizione favorevole descritta nelle righe precedenti può essere letta in controluce per ottenere, in questo modo, un sommario elenco delle difficoltà con cui è invece costretta a fare i conti un’ampia fascia della popolazione. Al di là della retorica profusa a piene mani dall’inizio dell’emergenza, non siamo tutti sulla stessa barca: c’è chi è esposto alla crisi in maniera molto più forte di altri e, sul versante opposto, c’è perfino chi di questa situazione è pronto ad approfittare per aumentare ulteriormente a proprio vantaggio le disuguaglianze sociali.

Poi c’è, secondo me, un altro motivo per cui può essere utile tener presente anche le condizioni simili a quella che vivo personalmente. Detto che il problema prioritario è senza dubbio quello di chi nella crisi non può lavorare oppure è costretto a farlo rischiando il contagio, cosa significa continuare a lavorare da casa nel tempo della pandemia e dell’emergenza?

Intanto, è molto spesso a sproposito che in questo periodo si sta parlando di “smart working” o, in italiano, di “lavoro agile”. Nella definizione del ministero del Lavoro: “E’ una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”. Allo stesso modo, anche la definizione di “telelavoro” va presa con le pinze: richiama infatti ad un regime di responsabilità dell’azienda rispetto alla forniture degli strumenti di lavoro e delle tutele per salute del lavoratore. A queste tipologie il “lavoro da casa”, oppure “home working”, è accomunato dall’essere parte del “remote working” o “lavoro da remoto”, cioè svolto a distanza rispetto alla sede aziendale. Ma non è affatto scontato che l’home working porti con sè le caratteristiche di autonomia e flessibilità dello smart working e le garanzie del telelavoro: il rischio, invece, è che finisca per tradursi in un trasferimento nudo e crudo delle incombenze dall’ufficio a casa, senza gli opportuni bilanciamenti e con l’aggiunta degli effetti negativi del distanziamento sociale. All’appuntamento inatteso con il lockdown l’Italia non si è certo presentata con un bagaglio di esperienze molto avanzato su questi temi e, quindi, c’è da scommettere che sia stata l’improvvisazione a farla da padrona.

Questo cosa significa, se il lavoro di cui si parla non è organizzato per “cicli e obiettivi”, come scrive il ministero, ma prevede di mantenere livelli di produttività giornaliera o anche oraria? Ad esempio, orari di lavoro che “a casa” possono diventare ancor più labili di quanto già non accada in ufficio o negli altri contesti in cui si presta la propria attività: quello dei “lavoratori iperconnessi”, del resto, era un nervo scoperto già prima del lockdown. Quello che vale per gli orari, poi, vale anche per i ritmi produttivi e per le pause. Insomma, certo, si risparmia il tempo dei trasferimenti casa-lavoro e lavoro-casa, ma al di là di questo è facile che l’operatività distaccata dal corpo aziendale e il contesto domestico, venendo meno le codificazioni e le routine del luogo di lavoro, finiscano per dilatare gli orari e accelerare l’attività. Ovviamente, c’è l’altra faccia della medaglia, perchè a distanza il lavoratore può anche avere più margini per sottrarsi ai dispositivi aziendali di comando e controllo. Ma non è sempre così, non è così per tutti.

Poi ci sono gli aspetti legati non solo a “quanto” si lavora, ma anche al “come”. E’ opportuno premettere che già negli uffici e negli altri luoghi di lavoro, molto spesso, le postazioni e gli strumenti messi a disposizione dalle aziende non garantiscono la sicurezza, la salute e il benessere dei lavoratori. E a casa? Può andar peggio. Quanti nel proprio appartamento dispongono di sedie adatte alla prolungata attività lavorativa, computer con monitor e tastiere sufficientemente ampie, ambienti opportunamente illuminati? Sono solo degli esempi, ma servono a segnalare che – anche da questo punto di vista – determinate ore di lavoro a casa non è affatto detto che siano uguali a alle stesse ore di lavoro nei luoghi ad esso deputati.

Inoltre, c’è da considerare che tutto ciò va inserito nel contesto di queste difficili settimane. Intanto, già di per sè il lavoro da casa è svolto in maniera più solitaria rispetto alle “consuete” interazioni con colleghi e altri interlocutori. Questo è un aspetto che esiste indipendentemente dall’emergenza, ma con l’emergenza assume un valore diverso. Ad esempio perchè nel corso della stessa giornata lavorativa o una volta conclusa questa, non c’è modo di “staccare” com’è indispensabile che sia, dal punto di vista tanto fisico quanto mentale: niente passeggiate o semplici boccate d’aria; la pausa pasto se va bene è fatta nello stesso contesto lavorativo, se va male è fatta davanti al pc mentre si continua a lavorare; i momenti di relax sono circoscritti all’ambiente domestico e questo rappresenta un evidente limite alla possibilità di interazione sociale (vale anche per chi abita con altre persone, ma su chi vive da solo ovviamente questo pesa ancora di più); e così via.

Infine, per molti almeno, la vita non è fatta solo di lavoro e riposo. Ci sono le attività sociali e culturali, ad esempio: come il lavoro anche queste, sempre se si hanno i mezzi necessari, possono essere portate avanti a distanza. E’ un bene, perchè indiscutibilmente rappresentano una preziosa valvola di sfogo e opportunità di reagire all’emergenza e alla crisi in maniera attiva e magari anche collettiva. Per questo, diventa difficile rinunciarvi. Allo stesso tempo, però, anche le attività di questo tipo scontano il peso delle zavorre imposte dal distanziamento. Lavoro “da casa” e altri impegni “da casa”, così, rischiano di determinare un continuum che, per quanto possa essere accogliente il contesto domestico, può paradossalmente portare ad aumento di affaticamenteo e stress. Per dirla diversamente: a parità di confinamento casalingo, i risvolti dell’home working possono far risultare molto lontana quella narrazione fatta di “almeno finalmente abbiamo il tempo per…” e “guardate cosa ci si inventa nelle case pur di combattere la noia”.

Per concludere, la mia condizione privilegiata resta privilegiata. Sarebbe ingiusto lamentarsene, sapendo che per migliaia e migliaia di famiglie e persone le conseguenze dell’epidemia sono smisuratamente più gravi. Allo stesso tempo, però, è bene prendere in considerazione anche ciò accade tra le righe: è anche qui che possono annidarsi le insidie della crisi. Anche quelle di lungo periodo: parlando del lavoro da casa, è molto probabile che il test di massa fatto in queste settimane spingerà aziende e amministrazioni pubbliche a cercare di sfruttare il più possibile gli aspetti positivi (per loro!) e i vantaggi economici dell’home working. Sicuri che sarà anche smart?

(30/04/20)