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Finestre aperte sulla crisi / Parlano un operaio dell’Ima e un’operatrice sociale

Sulle pagine di Zic.it l’iniziativa promossa da Vag61 nel contesto dell’emergenza coronavirus “per raccogliere piccole storie, pezzi di esperienze e racconti, lavorativi e non, per condividere ora ma soprattutto per tenere traccia. Tenere traccia dei profondi cambiamenti a cui siamo costretti, degli adattamenti e delle resistenze”. In questo articolo le prime due narrazioni.

08 Aprile 2020 - 12:25

Zic.it collabora all”iniziativa “Finestre aperte sulla crisi”, promossa da Vag61 per raccogliere testimonianze e contributi sulle conseguenze che l’emergenza sanitaria in corso produce sulle esistenze delle persone, partendo dalle esperienze quotidiane che in questi giorni si vivono dal punto di vista lavorativo, sociale, familiare. “Una raccolta di istantanee, di finestre aperte sulla crisi- è la presentazione del progetto- di fili rossi che si intrecciano oltre l’isolamento. Questa pagina vuole provare a raccogliere piccole storie, pezzi di esperienze e racconti, lavorativi e non, per condividere ora ma soprattutto per tenere traccia. Tenere traccia dei profondi cambiamenti a cui siamo costretti, degli adattamenti e delle resistenze, degli strappi e delle cuciture che viviamo sulla pelle ogni giorno. Un puzzle da costruire insieme e a cui attingere per il futuro”. In questo articolo le prime due narrazioni diffuse da Vag61.

Per inviare storie e contributi: infovag61@gmail.com 

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Storia #1: operaio Ima

Sono un operaio dell’Ima, quella che viene definita da più parti “azienda leader mondiale nella produzione di macchine automatiche” e che ha diversi stabilimenti in provincia di Bologna, soprattutto dalle parti di Ozzano. Io, il 18 marzo scorso, prima che il governo decidesse la chiusura delle attività produttive “non essenziali” per la storia del coronavirus, ho scelto di stare a casa. Avevo delle ferie residue del 2019 e quindi ho pensato che era meglio consumarle tutte, poi starò a vedere come si metterà questa cosa della cassa integrazione. Fino a quel momento ho continuato a lavorare nel mio reparto di montaggio, perché si diceva che il nostro settore aveva delle consegne che dovevano assolutamente essere rispettate.

Il 3 marzo un comunicato della direzione aziendale ci comunicava che Ima, seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie, giudicava la situazione dei suoi stabilimenti italiani idonea a proseguire con le attività produttive e di servizio. Tutti i dipendenti venivano invitati a segnalare tempestivamente eventuali sintomi a un apposito ufficio interno che, nel caso, avrebbe facilitato il loro contatto con le autorità sanitarie. Ma si andava avanti… E c’era anche premura per tutte le merci e i pezzi di ricambio che sarebbero stati sottoposti a una specifica disinfezione, che andava certificata prima di ogni spedizione.

Nel ciclo produttivo qualcosa è cambiato, sono stati rafforzati i sistemi di comunicazione digitale ed è stato attivato lo smart working per tecnici e impiegati, ma il nostro lavoro di montatori per assemblare una macchina automatica o una linea di produzione, o un gruppo formato è rimasto uguale. Ogni tanto passava il “team leader” che ci diceva di tenere il metro di distanza, ma senza troppa convinzione, perché sapeva bene che certe lavorazioni si potevano fare solo in coppia e, in quel caso, lo “spazio di sicurezza” non poteva essere mantenuto. Ancora un volta, la scelta era o di rischiare per la nostra salute o azzardare qualcosa di “meccanicamente sbagliato”. Per quanto riguarda poi i dispositivi di protezione, avevamo quelli soliti, occhiali e guanti, per quanto riguarda le mascherine chi ne aveva da parte dalla dotazione ordinaria se le metteva, chi questa scorta non se l’era fatta, ciccia: di nuove mascherine “anticovid-19” non ce n’erano a disposizione.

Quando sono iniziate ad arrivare le notizie che le fabbriche del settore motoristico come Ducati, Lamborghini e Ferrari avevano annunciato la chiusura, abbiamo cominciato a discuterne in reparto. I capi, ma non solo, cercavano di tranquillizzarci sostenendo che per noi non era necessario smettere di lavorare, la produzione poteva continuare perché, nel settore del packaging, l’assemblaggio dei particolari non avviene attraverso la catena di montaggio. In più l’azienda avrebbe iniziato a suddividere i turni di lavoro per attenuare il numero delle presenze.

L’altro cambiamento radicale era il servizio di mensa a mezzogiorno, spariti i pasti caldi, c’erano i panini. Due panini per tutto il turno è dura, ma la cosa peggiore era perdere quel momento di socialità che spezzava la giornata. Si poteva stare in sala mensa molto distanziati oppure si tornava in reparto con il sacchettino dei panini e ci si sedeva da qualche parte, lontani uno dall’altro. In quei momenti mi sono venuti in mente i racconti di mio padre quando lavorava in campagna e a mezzogiorno si sedeva sotto un albero per consumare quello che si era portato da casa. Oppure di mio zio che lavorava in edilizia e col tegamino della gavetta mangiava in cantiere.

Questa situazione anomala sul lavoro avveniva in mezzo all’assedio mediatico sul diffondersi del virus, sull’aumento dei contagi e delle morti, con gli appelli sempre più pressanti a stare a casa. Io avevo poi un situazione familiare e parentale abbastanza variegata e complicata. La mia compagna con cui convivo era stata messa al smart working e se ne stava tutto il giorno a casa. I miei vivono in paese in provincia di Lecce. Mia madre, prima dell’esplosione dell’epidemia, si era trasferita da mia sorella che aveva appena partorito e abita in un paese del Veneto. Sarebbe stata da lei qualche settimana, fino a quando con la bambina non fosse stata un po’ più autonoma, poi quel paese è finito in “zona rossa” e lei da lì non può più uscire. L’altra mia sorella abita a Rimini e fa l’infermiera in ospedale e, come tutti i suoi colleghi, oggi è in prima linea con turni che non hanno orari definiti. Mio padre è quindi rimasto solo al paese, ma la cosa che ci preoccupa di più è che è cardiopatico e, insieme all’età, ha tutte le caratteristiche per essere un soggetto fortemente a rischio. Oltre ad avere il “vizietto” di stare ore seduto sulle panchine della villa comunale a fare chiacchiere coi suoi coetanei.

Quindi, come si dice in questi casi, non è che avessi proprio la mente sgombra per potere tutto il giorno stringere bulloni, mettere in fase una camme o spessorare come si deve una coppia conica.

Devo dire la verità, però, la cosa che mi fatto propendere di stare a casa, più di tutte le altre, è stato dover fare i conti, quasi tutti i giorni, con i posti blocco. Io abito dalle parti di Medicina e mi sembrava di essere tornati ai tempi in cui, nelle nostre zone, davano la caccia a “Igor il russo”. Essere fermato, guardato con sospetto, dovermi giustificare perché costretto ad andare a lavorare, era la cosa che mi pesava di più. Diversi giorni, invece della macchina, mi prendevo lo scooter per fare stradelli secondari e sfuggire ai carabinieri… Demenziale, troppo demenziale… E, allora, ho detto basta!

Mi scappa da ridere (un po’ amaramente): sono in tanti a dire che la classe operaia è in via di estinzione, che fra un po’ saremo come i panda… ma per i panda qualcuno che li voglia proteggere si trova, gli operai invece sono bestie talmente cattive che, per loro, l’hashtag #iostoacasa non vale. Proprio ieri mi ha chiamato un mio amico, anche lui operaio, ma con l’hobby di far finta di capire qualcosa di finanza. Mi voleva trasmettere una notizia straordinaria: il 19 marzo i siti specializzati hanno dato l’annuncio che il titolo dell’IMA in borsa ha segnato un rialzo di quasi il 5% a 45,7 euro. Secondo il management di IMA i risultati dell’esercizio 2019 sono stati positivi e sostanzialmente in linea con le stime. Per l’esercizio 2020, sulla base degli ordini acquisiti nei primi due mesi dell’anno corrente, non ci sarebbero segnali negativi da evidenziare o elementi che potrebbero impattare in maniera rilevante sui risultati aziendali.

“Dai, hai visto che avete il culo parato… L’epidemia non fa danni allo stesso modo a tutti”. Mi ha rassicurato il mio amico.

“Dici…”, gli ho risposto, “Ti avviserò alla fine del prossimo mese se le cose vanno così bene… Chissà se ci mettono in Cig e l’Ima ci anticipa la cassa integrazione per poi farsi rimborsare dall’Inps, oppure dobbiamo essere noi a stare senza stipendio ed aspettare i tempi dell’Inps”.

(22/03/2020)

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Storia #2: il Covid-19 e i lavoratori del sociale che operano nelle comunità

La quotidianità lavorativa viene interrotta da un virus inaspettato, così come erano inaspettate le conseguenze che avrebbe comportato. Il lavoro nel sociale subisce cambiamenti e interruzioni. Molti servizi si fermano, al contrario le strutture h24, che ospitano minori e adulti, non possono né fermarsi nè chiudere, non lo vogliamo neppure. Ci ritroviamo, quindi, a fare fronte a questa emergenza, a cercare gli strumenti migliori e preventivi per tutelarci e tutelare.

Gli educatori che lavorano nelle comunità si ritrovano a fronteggiare una nuova routine, aiutando gli ospiti, le ospiti ad incrementare forme di resilienza.

Lavorare in comunità è intenso e complesso.

Ogni giorno affianchi le persone, sostenendole durante la giornata, accompagnandole e occupandoti di doveri, possibilità, desideri e sofferenza. Oggi, il Covid-19 ha interrotto molte attività e la gestione delle comunità è complessa.

Le strutture che accolgono adolescenti e gli operatori che lavorano in questo ambito, garantendo continuamente una copertura, si ritrovano a fare i conti con sensazioni e sentimenti amplificati che richiedono un contenimento maggiore di contenuti emotivi “esplosivi” e facilmente distruttivi.
Le difficoltà e le tensioni mettono a dura a prova la resistenza e resilienza di ognuno ma ugualmente entrando negli appartamenti, condividendo le giornate con i ragazzi e le ragazze, cogli l’importanza e la bellezza di quanto stai svolgendo.

Informi quotidianamente i minori di ciò che accade, di ciò che non si può fare, accogli ansie e angosce, cercando di incrementare la tolleranza verso questo momento storico, cercando di incrementare l’attesa verso la ripresa di una routine desiderata ma adesso assente e ti reinventi, puntando sulla creatività e sulle risorse di cui ogni ospite dispone.

In base a quanto si vive e condivide, accogli le emozioni e cerchi di trasformarle e confermarle in punti di forza che consentono di rendere piacevole la giornata, nonostante la fatica. Una giornata caratterizzata da noia, paura, rabbia, angoscia, tensione ma anche da condivisioni: studio, film, balli, cucina, pittura, giochi e collaborazione. La stessa collaborazione che ci chiedono per fronteggiare l’emergenza.

Al contrario, riscontri difficoltà minori coi ragazzi e con le ragazze con nuclei depressivi, tendenti al ritiro sociale, che, in questo momento, vivono un inferiore senso di colpa e mostrano una maggiore capacità e voglia di mettersi in gioco.

Lavorare in comunità, oggi, è più difficile ma, allo stesso tempo, riempie di emozioni. Si familiarizza con i vissuti psicosomatici e confermi, rafforzandola, alle persone presenti, la percezione di questo luogo fisico come un luogo protetto.

Un “involucro” volto a salvaguardare e sostenere la psiche di chi ci abita.

Lavorare in comunità ti consente di incontrare tante persone e cogliere l’importanza del lavoro di gruppo, in quanto è una squadra che, in questi momenti in particolare modo, si unisce per sostenersi, gestire insieme e fronteggiare l’emergenza. Questa unità consente, anche, di distrarsi, di sorridere e regalare sorrisi, di condividere e lavorare nonostante la paura e il rischio. Il livello di tutela e attenzione è alto perché è alto il rischio che qualcuno possa essere “catturato” da questo “nemico”.

Il lavoro educativo è essenziale e costante. L’obiettivo è “prendersi cura”, oggi soprattutto per garantire continuamente a queste persone una vicinanza e presenza, lontana e distinta dall’abbandono da cui sono reduci.

Elena Fiorentino

(25/03/2020)