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Detenuto incappucciato e picchiato: quando non basta un video per vedere la tortura

Dieci agenti della polizia penitenziaria condannati, con pene più lievi di quelle chieste dai pm, per un pestaggio del 2023 a Reggio Emilia. “Fu un grave episodio di tortura”, ribadisce Antigone, illustrando le condizioni in cui versa il carcere reggiano. E alla Dozza di Bologna “gravissime difficoltà”: scioperano le/gli avvocate/i.

18 Febbraio 2025 - 18:19

Ieri si è chiuso con una sentenza di condanna il processo di primo grado agli agenti di polizia penitenziaria che erano accusati, a vario titolo, del delitto di tortura, lesioni e falso ideologico per il pestaggio ai danni di un detenuto commesso all’interno del carcere di Reggio-Emilia: “I fatti, che risalgono all’aprile 2023, sono noti alle cronache anche perché ripresi in un video (ancora reperibile on line), nel quale si vede un detenuto incappucciato con una federa, circondato dagli agenti che lo colpiscono, poi lo gettano in una cella di isolamento lasciandolo nudo dalla cintola in giù e sanguinante, con profonde ferite autoinferte a seguito di quanto subito e privo dell’assistenza di polizia penitenziaria o di altro personale per circa 40 minuti”, ricorda l’associazione Antigone Emilia-Romagna, che si era costituita parte civile nel processo, segnalando che “la sentenza ha visto condannati gli agenti per i delitti di abuso di autorità, falso e percosse. Al di là del mancato riconoscimento della responsabilità individuale di questi agenti per il delitto di tortura, ciò che rileva sono i gravissimi episodi documentati nel corso del processo, che hanno mostrato inequivocabilmente le pratiche violente agite in quel penitenziario. L’episodio emerso nel processo, infatti, restituisce un contesto penitenziario deteriorato che si pone nel drammatico solco di quanto già accaduto in altri penitenziari italiani: le immagini documentate nel processo di Reggio-Emilia, così come quelle documentate ad esempio a Santa Maria Capua Vetere e a Torino, ben oltre la sentenza di oggi (ieri, ndr), non possono lasciare indifferenti e devono condurre a una riflessione politica”.

Al termine dell’inchiesta sul pestaggio del 2023 a Reggio Emilia, il pubblico ministero aveva chiesto cinque anni e otto mesi di reclusione per l’unico agente ritenuto responsabile di tutte le imputazioni, cinque anni per chi era accusato di tortura e lesioni e due anni e otto mesi per due poliziotti che devono rispondere di falso, in quanto avrebbero cercato di manipolare le prove. Il giudice del tribunale reggiano ha però stabilito che non si è configurata la fattispecie del reato di tortura, bensì quella di “abuso di autorità contro detenuto in concorso”. Ugualmente “depotenziata” l’accusa di lesioni, commutata in “percosse aggravate”. Come risultato le condanne, sospese, vanno da quattro mesi ad un massimo di due anni.

Quello di Reggio-Emilia è un istituto “a cui da qualche anno dedichiamo una particolare attenzione, non solo per l’episodio al centro di questo processo, ma anche perché nelle nostre visite annuali più recenti abbiamo trovato una struttura deteriorata (due sezioni sono peraltro attualmente chiuse per ristrutturazione) e un clima in generale sempre più teso“, racconta la presidente di Antigone Emilia-Romagna, Giulia Fabini, ieri in aula durante il processo: “L’istituto presenta delle criticità legate anche all’eterogeneità dei circuiti penitenziari presenti: si trova qui un’articolazione della tutela della salute mentale (50 posti), una sezione per detenute transessuali, una per detenute comuni e una per familiari di collaboratori di giustizia. A fronte di questa complessità, il personale giuridico-pedagogico è sottodimensionato, ancora parametrato a quello di quando la struttura era divisa in Opg e casa circondariale: con una popolazione detenuta di 300 persone (dato al 31/1/2025), gli educatori sono cinque, due dedicati alle sezioni della reclusione, uno alla circondariale, uno al femminile e uno alla sezione per detenute transessuali”.

Nel carcere di Reggio Emilia, poi, “l‘incidenza degli eventi critici è alta: nel 2023 si erano registrati 19 tentati suicidi e 233 casi di autolesionismo. Numerosi i provvedimenti disciplinari complessivi, 543, di cui 187 di isolamento. Per avere un’idea più chiara di questi numeri- prosegue Fabini- basta confrontarli con la media per gli istituti visitati da Antigone nel 2023: 82 casi di autolesionismo ogni 100 detenuti contro una media nazionale pari a 20,4; 6,7 tentati suicidi contro una media nazionale di 2,5; 64,8 provvedimenti di isolamento disciplinare contro gli 11,2 della media nazionale. La situazione di Reggio-Emilia si inserisce in un quadro tutt’altro che rassicurante a livello regionale. Siamo arrivati a contare sette morti in poco più di un mese, uno dei quali proprio in questo istituto; gli altri a Piacenza, Bologna e Modena. I processi come quello che si è appena concluso sono molto importanti perché molto comunicano sullo stato del sistema penitenziario e aiutano a vedere più da vicino ciò che succede oltre le mura a volte troppo spesse di questa istituzione”.

Come già avvenuto in altri processi, “Antigone aveva deciso di costituirsi parte civile nel processo per poter sottolineare quanto sia fondamentale garantire alle persone detenute i diritti che le leggi italiane garantiscono loro, ad iniziare dal diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti, così come riporta l’articolo 13 della Costituzione”, sottolinea l’avvocata Simona Filippi, responsabile del contenzioso legale di Antigone, che aggiunge: “Siamo amareggiati perché quanto emerso nel corso del processo, anche tramite il video, restituisce quello che noi continuiamo a ritenere un grave episodio di tortura”.

La sentenza di Reggio Emilia è “coerente con un sistema penitenziario contraddittorio e da riformare”, commenta poi il Garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, anche lui parte civile nel processo: “I fatti sono noti. Le immagini video in cui si vedono gli uomini della polizia penitenziaria utilizzare metodi non regolamentari nella gestione di un detenuto, spingendosi finanche all’applicazione di un cappuccio alla testa della vittima, percossa e denudata, sono inequivocabili e chiare”. Secondo Cavalieri, dunque, “la derubricazione in sentenza del reato di tortura è ora oggetto di riflessione che, per forza, deve essere attenta e misurata”. La vicenda reggiana, continua ancora il garante, “dimostra come sia estremamente difficile che la denuncia di un detenuto giunga a segno, o per lo meno diventi oggetto di un’indagine seria come questa”. In questo senso “solo un ammodernamento degli ambienti detentivi e trattamentali, dotandoli di circuiti di ripresa continua e archiviazione durevole nel tempo, può garantire l’emersione di verità che contrariamente cadono nell’oblio”.

A Bologna, intanto, sono ancora evidenti le “gravissime difficoltà e problematiche che affliggono da tempo” il carcere della Dozza, segnala la Camera penale nel proclamare un’astensione di due giorni dalle udienze per domani e per giovedì. Le ultime visite effettuate nella struttura, riferiscono tra i vari temi le/gli avvocate/i, “hanno restituito una situazione allarmante in termini di sovraffollamento dell’istituto”, che secondo i dati forniti dalla direzione attualmente conta “858 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 500 posti, con un tasso di sovraffollamento del 170% circa”. Tra l’altro, precisa la Camera penale, di questi detenuti “oltre un terzo sono in attesa di giudizio e oltre il 38% soffre di patologie legate alla tossicodipendenza”.

Infine, il direttivo e l’Osservatorio carcere della Camera penale esprimono “la massima preoccupazione per l’imminente trasferimento di circa 50 giovani adulti, provenienti dagli Istituti penali per i minorenni di tutto il territorio nazionale, nel carcere di Bologna”. Per i legali, infatti, si tratta di “un’operazione tanto complessa quanto sciagurata, stante il già elevato tasso di sovraffollamento dell’istituto, ed è lampante che questa scelta aumenterebbe a dismisura le criticità e creerebbe problemi di convivenza all’interno dell’Istituto, oltre a pregiudicare fortemente la continuità delle attività trattamentali di medio-lungo termine che, specie per i giovani detenuti, risultano fondamentali per un pieno reinserimento sociale”.