Attualità

Contro i padroni delle città, non solo il 6 settembre… sempre

Più di 50.000 persone hanno detto no allo sgombero del Leoncavallo e di tutti gli spazi sociali d’Italia. Hanno portato in piazza le “città diverse” e hanno iniziato riprendendosi Milano.

08 Settembre 2025 - 13:14

«Alle feste comandate (dagli altri) c’è sempre una gran partecipazione», commentava ironicamente la sfilata dell’infinito corteo uno storico attivista del centro sociale Bruno di Trento. «Ma poi, molto spesso, la natura originaria delle feste viene stravolta dagli “ospiti non desiderati”».

In effetti, le 50.000 e più persone che hanno riempito le strade di Milano sabato 6 settembre per rispondere allo sgombero del Leoncavallo non erano certo “desiderate” dal governo delle destre e dal ministero dell’Interno (quelli che lo sgombero hanno voluto), non dalla stampa mainstream (che sui numeri dei manifestanti pende sempre dalla parte della Questura), non dalle lobbies della rendita immobiliare e della speculazione urbanistica, non dalla politica/trasversale che nei dieci anni successivi all’Expo 2015 ha favorito un patto con gli affari e ha permesso la realizzazione di quella città “verticale” e delle sue sconce compatibilità e ipocrisie, a misura dei portafogli dei ricchi e ad esclusione di chi soldi in tasca ne ha pochi.

Una manifestazione riuscita, eccome, che da tempo non si vedeva nella “capitale economica d’Italia”, che ha chiamato le cose col suo nome, riutilizzando il termine “padroni”: non un retaggio novecentesco, ma la parola più adatta per indicare chi ha messo le “mani sulla città”.

In diversi temevano che l’evento, annunciato la sera stessa dello sgombero del Leo il 21 agosto, potesse diventare un incontro di stampo “reducista”, come ha detto qualcuno «il passato sfinito nel presente». Altri (pochi) paventavano una caratterizzazione radical/alternativa, tendente allo “chic”, e c’era pure chi presagiva un «corteo degli sconfitti».

Niente di tutto questo: in strada c’erano almeno tre generazioni di militanti, attiviste ed attivisti. E’ stata una manifestazione molto trasversale dove, però, la presenza giovanile ha dato dei punti a tutte le altre. Insomma, qualcosa di molto diverso, irrituale. Su Effimera (a firma Abo) una definizione molto efficace: «Uno spezzone di popolo e di movimento, non uno spezzatino di identità e affinità, un carme all’intelligenza collettiva nel tempo della passività artificiale».

A far camminare tante persone insieme non è stata un’organizzazione o un partito, ma un’idea di città dove il diritto all’abitare, a una accoglienza degna e a una socialità fuori dalle logiche di mercato sono obiettivi primari su cui lottare. Una città dove, per vivere meglio, vanno necessariamente contrastate le politiche del “compra normalizza e vendi” e le direttive del Dl Sicurezza (approvato nei mesi scorsi).

Dietro alle decine di striscioni che hanno dato vita alla colorita scenografia del corteo (da quelli “grafittati” dei centri sociali a quelli più “lineari” dei comitati di quartiere milanesi che hanno ripetuto a iosa “giù le mani dalla città”, dai vignaioli con “Milano trama – La terra trema” all’“Insorgiamo” degli operai dell’ex GKN, da quello dei “Comedians” al “Ubi necesse est – necesse est” degli “ironici latinisti romani” del Forte Prenestino) non c’era di certo un inattuabile “pensiero unico”, ma tante pratiche alternative di vita, di aggregazione, di socialità e di lotta. È finita per sempre l’eventualità che tutti/e la pensino allo stesso modo, la scommessa della manifestazione è stata quella di far convergere sensibilità differenti e diffuse. Tra le migliaia di manifestanti non c’era nessuno con la pretesa di rivendicare a nome di tutti e tutte una storia collettiva, nelle strade di Milano si sono mischiate diversità di idee e di obiettivi. C’erano tante cose e tante suggestioni nell’immensa parata: autogestione, orizzontalità, autoproduzioni, rifiuto della miseria derivata dai “lavori salariati” dell’oggi, necessità di un reddito di esistenza universale, bisogno di autonomia (operaia, diffusa, esistenziale), impresa “socialmente integrata” (così come stanno sperimentando gli operai dell’ex GKN), zone liberate dalle ingerenze del capitale (o come hanno efficacemente scritto in tanti modi “dai padroni”), ecologismo radicale, femminismo, indipendenza culturale, controinformazione (in primo luogo perché nei media mainstream non c’è nessuno capace di far di conto, soprattutto di manifestanti).

Una giornata di lotta

Anche le modalità con cui la giornata di mobilitazione si è dispiegata hanno avuto degli elementi di novità interessanti.

Prima di mezzogiorno un gruppone di qualche centinaio di attiviste ed attivisti è giunto a sorpresa, in via Watteau, davanti alla sede del Leoncavallo sgomberata ad agosto e ancora presidiata da uomini in divisa. Un’azione veloce con fumogeni, qualche petardo, una calata di striscioni e slogan. Subito dopo è si formata una manifestazione spontanea che si è diretta verso la Stazione centrale dove, per le 12, era annunciato un “pre-corteo” dei centri sociali aperto dallo striscione “Contro i padroni della città”.

Il secondo momento della giornata è stata la partenza di questo corteo, con la presenza di diverse migliaia di ragazzi e ragazze, indetto dagli spazi sociali occupati e da collettivi e realtà alternative di Milano e a cui hanno partecipato folte delegazioni di centri sociali di altri territori (Bologna, Reggio Emilia, Nord Est, Brescia, Bergamo, Roma, Torino, Napoli, Messina). Il primo intervento dal camion ha scandito: «Occupiamo spazio con i nostri corpi per ripartire dal desiderio, feroce e inarrestabile, per immaginare l’inimmaginabile e rovesciare tutto. Occupiamo il presente che ci vogliono sottrarre, per determinare il nostro futuro nel segno della solidarietà e dell’accoglienza, del mutuo aiuto e della comunità. Occupiamo contro la città dei padroni. Occupiamo per costruire una città diversa, una alternativa reale; occupiamo affinché tutte e tutti possano vivere bene. Qui siamo e qui restiamo».

Passando davanti al “Pirellino” (uno dei grattacieli incompiuti), dal corteo si è alzata una nuvola rossa prodotta dai fumogeni. Quando il fumo si è diradato il cancello che delimita il cantiere è saltato e c’è stata un’occupazione simbolica di qualche minuto.

Questa azione contro la speculazione edilizia ha prodotto una forte indigestione a Manfredi Catella, costruttore, numero uno di Coima, finito nell’inchiesta milanese sull’urbanistica. La forte acidità di stomaco gli ha fatto emettere un comunicato molto piccato: «Le manifestazioni violente con occupazioni abusive rappresentano evidentemente la nuova proposta del cosiddetto Modello Milano…»

Più avanti, nei luoghi dei grattacieli, una scritta enorme che pubblicizza una finanziaria è stata coperta dallo striscione “contro la città dei padroni”. Il pre-corteo, proseguendo, si è ingrossato enormemente, il suo impatto sul concentramento “ufficiale” di Porta Venezia è stato dirompente.

Quando il corteo ha cominciato a muovere i primi passi, si è subito avuta la sensazione dei “grossi numeri”, chi si è preso la briga di contare chi manifestava non ha bluffato gridando «50.000… siamo 50.000». «Incontabili e incontenibili», gli ha risposto qualcun altro.

Un operaio milanese in pensione, che c’era anche alla manifestazione per lo sgombero del 1994 (quella che mise in fuga la polizia), sentendo dal camion le prime note di Stalingrado ha commentato: «Ma non è la versione degli Stormy Six quella che cantavamo un tempo…».

«Non preoccuparti è una versione ska, con molti ottoni… vedrai che ti piacerà e la canterai», gli ha fatto eco una ragazza.

L’ultimo tratto

Il serpentone umano ha continuato a crescere, ha più di una volta debordato producendo l’effetto “fiume in piena”. Oltre al camion di testa, a scandire i ritmi della marcia c’è stato pure il trattore dei vignaioli de “La terra trema” che hanno distribuito per l’intera marcia “vino rosso e buone sensazioni”.

Lungo il percorso del corteo ci sono state altre azioni: una nelle vicinanze della Prefettura con lanci di uova e petardi verso i cordoni della polizia e un’altra sui ponteggi di un grattacielo in costruzione con la calata di due grandi striscioni: “Giù le mani dagli spazi sociali”.

Dopo diversi chilometri, la sfilata è arrivata nei pressi di piazza Duomo, in quel momento non era ancora sicuro l’arrivo nel cuore della città. A un certo punto gli sbarramenti di polizia sono arretrati e si sono concentrati “a difesa” del grande orologio “countdown” che scandisce i minuti che mancano all’apertura dei giochi olimpici invernali di Milano/Cortina 2026.

Il corteo alla fine ce l’ha fatta: i centri sociali sono entrati in piazza Duomo, il Leoncavallo si è ripreso Milano riaffermando che la città è di chi la vive e la difende, di chi la rende aperta, inclusiva, solidale, antifascista, di chi costruisce pratiche d’esistenza ed esperienze di resistenza e autogoverno, idee condivise da centinaia di collettivi e da migliaia di singolarità diffuse nei territori. Insomma, quanto di più distante esista dall’odierno “Modello Milano”.

Comprendere e coltivare i desideri della piazza del 6 settembre sarà essenziale, sicuramente chi è venuta/o da fuori sarà tornata/o a casa con una buona ed energetica spinta.

Sobriamente, ce l’ha ricordato, salutandoci, un militante “sempre/carico” di uno storico centro sociale di Roma: «Daje… che li sfondiamo».