Il terzo capitolo del viaggio di Zic.it nel mondo del rap: anche con Principe parliamo libertà di espressione (“Ce la limitiamo da soli con una atavica mancanza di cultura”), di spazi occupati, di maschilismo e delle/i lavoratrici/ori dello spettacolo. E di una lettera indirizzata a Marchionne durante i 23 anni passati in fonderia.
Dopo le interviste a Inoki e a Kento, prosegue lo speciale sulla situazione del rap in Italia: protagonista della terza puntata è Principe.
La tua evoluzione artistica è caratterizzata da una vena conscious che ha sempre avuto una grande attenzione per il sociale e col tempo è divenuta anche una tua cifra stilistica, ancorata ai valori dell’hip hop originario e al tempo stesso molto schierata, difficile da trovare tra i rapper italiani. Devo ammettere che avevamo perso di vista il tuo percorso dopo averti seguito tra ‘99 e 2002 con gli A.T.P.C. e siamo stati felicemente sorpresi nel ritrovarti nel pezzo “Odio gli indifferenti” di FastCut con Kento.
Riassumere 20 anni di carriera è dura, ho iniziato con le Jam, ho fatto 50mc’s, parte I e II, con gli ATPC, Suite Fondation e altre cose. Però ho iniziato tardi, nel ’95, ero già un ragazzo di 19 anni quando ho scoperto l’hip hop. Ero un tamarro delle case popolari, un mondo veramente lontano da tutto questo, insomma sono sempre stato un po’ in ritardo rispetto ai coetanei che erano già appassionati di questa cultura. Eppure, sono ancora qua. Ho una formazione diversa, non che non mi fossi mai schierato, anzi, diciamo che il mio problema è che non sono mai stato bravo a leccare il culo, mi hanno sempre detto che ero troppo hip hop per i centri sociali e troppo schierato per le situazioni hip hop. Anche nel mio primo disco “Credo”, che è del 2004, la titletrack era bella schierata, poi nel 2007 con il pezzo “Godzilla” vinsi il premio “Una canzone per Amnesty International”. Il problema era che avevo sia l’aspetto hip hop sia quello politico, e in un modo o nell’altro non andavo bene a nessuno dei due mondi. Magari la gente si è accorta di me quando ho fatto “Odio degli indifferenti”, qualcuno mi avrà conosciuto con quel pezzo ed è andato indietro, a risentirsi i miei lavori precedenti, e magari si è accorto che ci sono sempre stato. Poi io ho fatto 23 anni di fonderia, in una società del gruppo Fiat, anche da operaio le mie battaglie le ho sempre fatte e le ho sempre riportate nella musica, però ovviamente è più facile anche per i giornalisti o per gli addetti ai lavori promuovere un altro tipo di personaggio, perché non sono giovane, non ho i muscoli scolpiti o le treccine. Spesso ho rifiutato tante serate perché c’era della gente con la quale non volevo suonare, ho rifiutato collaborazioni, partecipazioni a eventi perché c’era della gente con cui non volevo stare, rapper capaci di andare alle feste della Lega Nord e poi dichiarare di esserci andati a loro insaputa.
Se non sbagliamo quando eri operaio in fonderia a Torino avesti anche una bella polemica con Marchionne.
La lettera che scrissi a Marchionne finì su tutti i giornali, la riportarono in tutte le fabbriche del mondo, dal Messico alla Croazia, se te la vai a rileggere capisci che sono sempre stato “schierato”, poi ovviamente è un percorso. A 20 anni un tamarro delle case popolari ha un’idea, a 40 magari, dopo che hai fatto certe esperienze, vedi le cose in maniera diversa, cresci e maturi, ma non ho cambiato di una virgola la mia rabbia verso fascisti, razzisti e ingiustizie. Nei miei album ci sono sempre stati dei pezzi così, devo dirti che questa è una cosa che un po’ prima mi affliggeva: nel mondo hip hop pensavo di meritare un riconoscimento diverso per le liriche, nel mondo delle serate militanti a volte non essere chiamato mi dispiaceva. Poi magari adesso questo è il momento in cui sono il “king” delle battaglie perché è uscito “Odio gli indifferenti” o il “king” delle liriche o un rapper underground che c’è da sempre. Ma più o meno sono sempre stato lo stesso, con l’odio verso certe cose e con una certa attitudine.
Riproponiamo anche a te una domanda che abbiamo già fatto anche ad altri rapper: cosa ne pensi di quanto sta succedendo in Spagna, dove la magistratura negli ultimi dieci anni ha portato in giudizio molti rapper per le loro parole contro la monarchia, tra cui Pablo Hasel recentemente finito in carcere?
C’è poco da dire, è una situazione vergognosa. Qualche volta penso che siamo più fortunati perché situazioni di questo tipo non accadono, altre volte vince il pessimismo e penso che forse non ci sia neanche bisogno che ci reprimano, perché ci hanno talmente rincoglioniti come popolo che la libertà d’espressione ce la limitiamo da soli con una atavica mancanza di cultura. Detto questo ovviamente la solidarietà a Pablo Hasel è massima, come per qualsiasi persona che subisca una limitazione delle sue libertà, e forse è una cosa che ci tocca di più perché succede proprio dietro casa nostra, però se ci pensi in Spagna c’è ancora una monarchia e hanno avuto Franco fino agli anni 70!
Però anche in Italia la repressione colpisce in maniera molto forte, pensiamo a quanto successo al writer Geco e della difficoltà della cosiddetta scena a prendere posizione…
Quella di Geco è una cosa che mi fa sorridere e incazzare assieme, per certi versi mi deprime anche, perché se domani per un critico d’arte Geco diventa il nuovo Banksy allora la stampa ne parlerà come di un artista geniale e tutti i nostri tuttologi si prodigheranno in elogi e non sarà più visto come un deturpatore. Per quanto mi riguarda ho soltanto amore e stima per Geco, come per i writer in generale. Viviamo in una società in cui la libertà di espressione c’è ma è tollerata solo finchè è all’interno di un recinto, solo finché stai in determinati paletti. In tutto questo la scena rap è sempre stata così, con tanta difficoltà a prendere posizione. Però qui il discorso è più ampio: se parliamo di rap allora il rap è semplicemente una tecnica, la può usare chiunque un po’ come suonare la chitarra. Se invece parliamo di hip hop è diverso. Chi proviene dalla cultura hip hop dovrebbe prendere posizione, e in generale se parliamo di hip hop ancorato a certi valori, la scena c’è, assolutamente, ed è solidale, ma non è da confondere con quella del rap che ha visibilità, che scala le classifiche. Quelli che fanno i rapper senza un minimo di cultura hip hop alle spalle fanno rap e basta, magari sono capaci di fare rap per le pubblicità, per le merendine Kinder, fanno musica di plastica e figurati se prendono posizione, non prendono posizione su niente, vanno dove tira il vento e dicono le loro ****** per vendere dischi ai dodicenni o alla gente rincoglionita. Al giorno d’oggi purtroppo la scena rap è fatta da gente che non sa neanche cosa sia l’hip hop e i suoi valori, non conosce neanche l’esistenza del writing, figurati se riesce a prendere le difese di Geco.
In tutto questo chiediamo anche a te qual è il tuo rapporto con gli spazi occupati e i movimenti, nei tuoi testi i riferimenti sono spesso chiari e ben connotati.
Il mio rapporto è sempre di massima disponibilità, solidarietà e stima perché i movimenti, gli spazi, portano avanti un concetto di resistenza e secondo me sono l’ultima barriera contro le barbarie. Mi piace vederla così, rappresentano la resistenza, e quindi se posso dare una mano in qualsiasi modo ci sono e ci sono sempre stato. Che sia con un pezzo o con un live, nonché con attività che porto avanti nel mio privato.
La crisi per i lavoratori dello spettacolo è durissima, spesso la loro dignità è stata calpestata. Secondo te come se ne esce, la soluzione potrebbe essere quella di organizzarsi anche qui?
In Italia la vedo veramente dura. Chi lavora in questo mondo non è considerato un lavoratore vero proprio, e quindi purtroppo c’è attenzione zero, a meno che tu non faccia parte di una élite di quei quattro o cinque artisti o di quelle due o tre case di produzione più importanti, ma di massima si fa la fame. È un pochettino come il calcio con gli altri sport: al calcio è permesso tutto, se fai ping pong o ginnastica artistica non vieni nemmeno preso in considerazione. La soluzione è quella di organizzarsi, giusto, però prima di organizzarsi uno dovrebbe prendere consapevolezza, coscienza, se no l’organizzazione diventa solo confusione. L’occupazione può essere una tappa nel percorso, ma senza consapevolezza rimane un po’ fine a sé stessa. Forse a volte divento retorico, però se devo parlare dell’Italia penso che in Sicilia ci sia chi vota Lega Nord e Salvini e mi sembra impossibile riuscire a porre qualsiasi base di ragionamento. Più che provare a fare resistenza ogni giorno non so cosa dirti…
Il rap degli ultimi anni si caratterizza per uno spiccato maschilismo e un endemico machismo, come invertire la tendenza, che opinione hai in merito?
Anche qui secondo me dobbiamo scindere tra rap e rap all’interno dell’hip hop, perché chi arriva da quel tipo di cultura ci fa molta più attenzione, perché di cultura parliamo. D’altra parte, però ti dico che il rap parla della realtà, quindi è anche normale che si usino i termini, giusti e sbagliati, della vita quotidiana. Se un ragazzino che si approccia a fare rap ha nel suo gergo comune un determinato tipo di linguaggio è ovvio che finirà per riportarlo nei pezzi. Bisogna invertire la rotta, sempre con la cultura, dando degli esempi positivi, che sia con la scuola o con la musica, che siano i professori o gli allenatori di calcio. Nel mio piccolo, come allenatore, è quello che provo a fare qualche volta ci si riesce qualche volta no, però si cerca di seminare del buono.
Che progetti hai in cantiere?
Sto ultimando l’album, in questo periodo è in fase di mixaggio e siamo agli ultimi ritocchi. Spero che riusciremo a tirare fuori un singolo, sempre underground, prima dell’inizio dell’estate, con la speranza di poter tornare a suonare a settembre, magari ottobre, e ricominciare un po’ da dove ci eravamo lasciati… poi c’è un’altra cosa grossa ma non posso dire niente… ed infine posso dire che il prossimo anno è in programma un EP con un altro rapper. Insomma un bel po’ di progetti in cantiere! Non ci fermiamo mai.
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