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Brasile / Il mito dei governi progressisti

Ancora un contributo dall’America Latina, inviato da Ilaria Camplone e Simone Tufano. “Comprendere la realtà brasiliana richiede lo sforzo critico di contrastare l’apparenza dei fenomeni e la forma in cui sono interpretati dal senso comune”.

10 Marzo 2013 - 14:43

La comprensione della realtà brasiliana richiede lo sforzo critico di contrastare l’apparenza dei fenomeni e la forma in cui sono interpretati dal senso comune per carpirne l’essenza più profonda, spesso definita dalle tendenze strutturali inscritte nel divenire della storia. Questo contrasto rivelerà l’abisso che esiste tra il mito secondo cui il Brasile vive un grande momento di sviluppo -grazie a un governo di sinistra che avrebbe creato le condizioni per combinare crescita, lotta alle disuguaglianze e rinnovata sovranità nazionale- e la drammatica realtà, quella di una società impossibilitata a confrontarsi con le forze esterne e interne che la sottomettono ai terribili effetti di uno sviluppo diseguale e concordato, in un contesto globale di crisi economica generale del sistema capitalistico mondiale.

L’idea che l’economia brasiliana viva un momento senza eguali della sua storia si poggia su diversi elementi: dopo due decadi di stagnazione, tra il 2003 ed il 2011, il reddito pro capite dei brasiliani è cresciuto in media del 2,8 % l’anno. In questo periodo il paese ha mantenuto l’inflazione bassa ed ha saputo controllare, eccezion fatta per la turbolenza finanziaria di fine 2008, la bolla speculativa internazionale non subendo alcuna minaccia di crisi.

Alla fine del 2011, il debito estero era inferiore al volume di valute internazionali detenute nel paese, creando una situazione in cui il Brasile appariva come un creditore internazionale affidabile. Nel periodo del governo Lula (2003-2010) la fase espansiva dell’economia ha permesso la creazione di più di 14 milioni posti di lavoro. Inoltre, dopo decenni di domanda repressa, l’aumento dei salari e un maggiore accesso al credito ha innescato una corsa al consumo.

Il fatturato delle grandi imprese, la crescita economica, l’occupazione, l’ammodernamento delle infrastrutture e l’adeguamento dei modelli di consumo alla moderna nozione di sviluppo, sono stati presi come come una dimostrazione inequivocabile che il Brasile fosse finalmente sulla strada di uno sviluppo capitalistico autonomo e sostenibile.

L’idea che la crescita economica sia stata accompagnata da un miglioramento della disuguaglianze sociali trova un sostegno anche nei fatti. Dopo decenni di immobilità assoluta, il governo Lula ha ridotto il divario di reddito medio tra il 10% più povero della popolazione ed il 10% più ricco. Con l’emersione di più di 20 milioni di brasiliani  dalla   soglia di povertà,  processo che ha permesso alla presidentessa Dilma Rousseff di affermare che il Brasile è diventato un paese di “classe media”. Oltre alla ripresa della crescita economica, il progresso sociale sarebbe da attribuire all’aumento del 60% dei salari minimi avvenuto tra il 2003 e il 2010 (benchè iniziato già con il governo Cardoso) e con l’estensione della copertura socio-sanitario a molte categorie sociali.

Infine, la sensazione diffusa che il paese abbia acquisito maggiore rilevanza sulla scena internazionale ha i suoi fondamenti: il fallimento dell’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti (ALCA) è da attribuire anche alla resistenza del governo brasiliano; il peso del Brasile nel Mercosur e il ruolo di moderatore della diplomazia brasiliana nelle schermaglie in Sud America, rivela il ruolo di protagonista nella regione; la partecipazione al ristretto gruppo G-20, oppure la formazione del forum che riunisce i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), lo colloca tra le maggiori potenze emergenti nello scacchiere mondiale. In più ospiterà due grandi eventi (i Mondiali 2014 e le Olimpiadi 2016), che sarebbero la prova materiale del suo grande prestigio.

Il gigante dai piedi di argilla

Ma il metodo di evidenziare solo gli aspetti positivi fornisce una realtà parziale e ne oscura le contraddizioni interne. E’ sufficiente infatti richiamare l’attenzione su alcuni elementi per rivelare il carattere perverso del modello di sviluppo e accumulazione del paese.

La crescita economica Brasile tra il 2003 e il 2011 è stata modesta, meno del 3% l’anno, molto al di sotto di quel che sarebbe necessario per assorbire la crescita della popolazione e della richiesta di lavoro, e supera a malapena la crescita media delle economie latino-americane, approfittando per altro di un aumento delle esportazioni, spinto dalla crescita della domanda e di conseguenza dei prezzi delle materie prime, nonchè dall’abbondante liquidità internazionale, che ha permesso una politica interna meno restrittiva. L’espansione è stata insomma determinata da una situazione internazionale sui generis che ha permesso al Brasile di navigare in una bolla economica generata dalla speculazione.

Il nuovo ciclo di modernizzazione dei modelli di consumo ha raggiunto solo una parte della popolazione : per i ceti sociali che hanno ottenuto un coinvolgimento diretto in questa logica di consumismo indotto il costo è stato molto elevato e dovrà essere saldato attraverso duri sacrifici. La possibilità d’acquisto per i settori sociali più a rischio è alimentato infatti da una politica che punta ad una espansione indiscriminata del credito, ma non è accompagnata da condizioni materiali che consentano un aumento sostenibile di tale consumo. Il tasso di interesse reale sui prestiti è stratosferico ed in asimmetria totale con la dinamica salariale, generando un ben tristemente noto processo di installazione di schiavitù da debito, in cui una percentuale sempre maggiore del reddito familiare viene utilizzato per ripagare le banche. Ma quando la “bolla” recessiva esploderà e raggiungerà il Brasile, il crescente indebitamento delle famiglie povere tenderà a colpire un sistema bancario che è già in grave crisi.

La logica economica internazionale di accumulo del capitale ha innescato anche in Brasile un processo di deindustrializzazione dell’economia nell’ottica della divisione internazionale del lavoro. La rivitalizzazione delle attività agricole come forza guida del modello brasiliano appare rinforzato dal ruolo strategico mondiale dell’economia agro-esportatrice e latifondista sudamericana.

La crescente importanza dell’estrazione mineraria e la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi ha inoltre generato un’intensificato sfruttamento predatorio, che non tiene in conto il rispetto ambientale. Infine, la mancanza di competitività e di dinamica nell’affrontare le economie asiatiche ha di fatto indebolito l’industria brasiliana innescando un processo irreversibile di deindustrializzazione.

Debito e sfruttamento

L’esposizione del Brasile nelle operazioni di capitali speculativi, intensificata sul piano internazionale negli ultimi anni, comporta una denazionalizzazione dell’economia ed una sua maggiore vulnerabilità. L’esplosiva esposizione del debito estero contratto con le banche internazionali dimostra inoltre l’assoluta mancanza di sostenibilità del modello finanziario, ed i numeri sembrano confermarlo: la grandezza del problema può essere facilmente intuibile della passività dei conti, pari a 542 miliardi di dollari a fine del 2011.

In tale contesto, nulla garantisce che i posti di lavoro creati non scompaiano assieme agli investimenti una volta che la direzione del flusso di capitali esteri dovesse venir meno,. A ciò si aggiunga l’alto numero di poveri in un paese che non ha bisogno di soffrire nuovamente per programmi di adeguamento economico imposti dagli organismi finanziari internazionali. Anche perchè il modello economico brasiliano riposa in ultima analisi sullo sfruttamento intensificato del lavoro: la scandalosa discrepanza tra i guadagni generati dalla produttività del lavoro e l’evoluzione delle retribuzioni dimostrano che, anche in un situazione relativamente favorevole, i lavoratori non hanno beneficiato di nessun progresso economico.

Nel 2010, alla fine del governo Lula, il salario medio è rimasto praticamente allo stesso livello del 1995, in una sorta di stagnazione E la distanza pari a quasi quattro volte tra salari effettivamente versati ed il salario minimo previsto dalla Costituzione brasiliana ne è il miglior esempio.

I governi progressisti hanno approfondito, anche se a un ritmo più lento, il processo di precarizzazione del lavoro e di graduale perdita di diritti: negli anni di Lula, la media settimanale lavorativa brasiliana è rimasta di circa 44 ore, aumentando di un’ora rispetto agli otto anni precedenti, non c’è stata una vera lotta contro il lavoro nero, situazione in cui si trova quasi la metà degli occupati. Inoltre la crescita dell’occupazione è stata accompagnata da un profondo processo di esternalizzazione, stimata in più di un terzo dei posti di lavoro creati negli ultimi anni e pari a quasi un quinto del totale della forza lavoro-dipendente.

Va rilevato inoltre lo sfruttamento del lavoro minorile, che colpisce circa 1,4 milioni di bambini, una quota pari all’intera popolazione di Trinidad e Tobago.

A margine di tutte queste considerazioni è facile rendersi conto che le cause strutturali della povertà e delle disuguaglianze sociali non sono state alterate: circa il 40% della forza lavoro brasiliana rimane disoccupata o sottoccupata, insomma senza reddito o con un lavoro che paga meno di un salario minimo. La persistenza di circa 30 milioni di brasiliani poveri rivela invece la totale assurdità che si cela nell’affermare che un paese come il Brasile sia composto maggioritariamente da una “classe media”.

Ci sono però due eccezioni: la prima è l’aumento della spesa relativa alle politiche legate alla salute sociale, il cui incremento dove però essere attribuito principalmente all’applicazione della costituzione del 1988; la seconda si riferisce invece ai programmi di aiuto diretto ed alla politica assistenziale del Governo Lula, che è più del doppio della quota del precedente governo.

L’idea che il governo Lula abbia rappresentato un cambiamento qualitativo nella politica sociale è un errore, giacchè agisce più sugli effetti prodotti dai problemi sociali che non sulle cause, accontentandosi di ridurre la sofferenza delle persone, entro le limitate possibilità generate da aggiustamenti di bilancio e da una politica fiscale rivolta alla macroeconomia. L’evoluzione nel composizione della spesa pubblica per il sociale tra il 1995 e il 2010 del governo federale dimostra che non c’è mai stato un cambiamento qualitativo nelle politiche di Lula rispetto al suo predecessore, così non si può fare a meno di notare una sorta di inerzia nel superare l’enorme distanza tra le risorse necessarie ad integrare le lacune sulla politica sociale e le risorse finanziare messe in campo.

Una politica estera sottomessa

Anche la politica estera non nasconde la sottomissione ai canoni dell’ordine globale ed alle esigenze dell’impero. In una disperata ricerca di nuovi mercati e capitali esteri, la Presidenza del Repubblica brasiliana è stata sfruttata come commoditie per svendere il resto il mondo: il supporto discreto e vacillante per Hugo Chavez, la vicinanza a Cuba, il flirt con il mondo arabo e la ricerca di forti relazioni economiche con l’India, Russia e Cina risponde anche agli interessi globali. Anche perchè nelle sedi internazionali Lula e Dilma sono divenuti a tutti gli effetti i campioni del neo liberismo.

Uno degli esempi più vergognosi dell’appiattimento della politica estera brasiliana è stato l’invio di truppe ad Haiti, a protezione di un governo illegittimo, corrotto e violento, per svolgere il ruolo di gendarme patetico all’interventismo degli Stati Uniti: sul piano ideologico i governi Lula e Dilma sono rimasti perfettamente inquadrati nell’ideologia neoliberista. Non solo, nei discorsi la leadership si è ricollegata alle tradizioni delle lotte sociali, mentre nella pratica  ha rafforzato i valori ed il modello neoliberista.

Tutto ciò ha portato ad reflusso sorprendente dei movimenti ed ad un processo di disorganizzazione e frammentazione raggiunto, senza eccezione, da tutte le organizzazioni. Con una visione prospettica e storica di lungo durata, le somiglianze tra i governi progressisti e conservatori sono superiori alle differenze: le Dilma, i Lula, così come i Cardozo, fanno parte della stessa famiglia, e ciascuno è responsabile all’adattamento del Brasile agli imperativi di ordine globale del tempo. Il grado di libertà economica e politica si riduce essenzialmente alle seguenti opzioni: maggiore o minore crescita (in un modello di accumulo che non lascia spazio per l’espansione sostenibile di un mercato nazionale) e maggiore o minore concentrazione del reddito (entro i limiti delle una società segnata dalla segregazione sociale). Pertanto, maggiore o minore repressione delle lotte sociali, all’interno di un regime a “democrazia limitata” e sotto il controllo assoluto di una plutocrazia transnazionale.