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Bisogna lottare per un Salario Minimo Metropolitano

Settant’anni fa Giuseppe Di Vittorio si domandava: “È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali?”. A distanza di tanto tempo quella domanda nelle aule parlamentari non ha trovato risposte, è meglio percorrere le strade della lotta.

11 Gennaio 2025 - 11:41

Lo sciopero generale non generalizzato

“E’ il momento della rivolta sociale”, fa abbastanza specie vedere decine di militanti della Cgil, con la pettorina rossa che riporta la frase (diventata famosa) del segretario generale del loro sindacato, seduti ai tavolini del McDonald’s di via Indipendenza che addentano voracemente specie diversificate di panini sfornati dalle cucine della multinazionale americana (simbolo per eccellenza della globalizzazione liberista), mentre ragazzi e ragazze in divisa e cappellino del famoso marchio sistemano i tavoli che si sono vuotati per far accomodare altri avventori che sono in fila.

A destare meraviglia e pure un po’ di sconcerto non è tanto il “quadretto metropolitano” del McDonald’s pieno, ma il fatto che tutto questo sia avvenuto la mattina del 29 novembre, a poche decine di metri da una piazza Maggiore piena di manifestanti, nel venerdì dello sciopero generale indetto da Cgil e Uil contro la manovra del governo Meloni e, parallelamente, da quasi tutti i sindacati di base. Avrebbe dovuto interessare, per un’intera giornata o per un intero turno di lavoro, praticamente tutti i settori del pubblico e del privato (dalle scuole alle fabbriche, dalla logistica all’Università, dalla sanità agli enti locali, dai ministeri alle poste, dal commercio ai trasporti). Qualcuno aveva parlato anche di sciopero “generale e generalizzato”, ma per fortuna che il grande corteo che ha portato decine di migliaia di persone nel cuore di Bologna non ha potuto vedere, dietro le paratie che “proteggono” il cantiere della “linea rossa” del tram in via Ugo Bassi, i tanti lavoratori (per lo più migranti), con le pettorine fosforescenti verdi e arancioni, che sgobbavano, al fine di “salvaguardare” gli impegni richiesti per ricevere i fondi del PNRR.

Che sia chiaro: lo sciopero è certamente riuscito, soprattutto nei nostri territori, la giornata è stata bella e le strade della città sono state percorse per ore dal grande corteo partito da porta Lame, poi ci sono stati il corteo del sindacalismo di base (Sgb, Si Cobas, Cub, Cobas) e di altre realtà collettive che ha preso il via da piazza XX Settembre (con la Palestina nello striscione di apertura e nel cuore) e l’altro di Adl Cobas e Municipi sociali che si era dato un concentramento in piazza Verdi. Nella manifestazione dei confederali c’erano soprattutto lavoratrici e lavoratori dell’industria, tanti pensionati e nutrite “delegazioni” della funzione pubblica. La composizione degli altri due cortei era molto militante, tante attiviste e attivisti di vari settori che rappresentavano quello spaccato del mondo del lavoro che non si riconosce nei sindacati concertativi.

Salvo due piccole situazioni, quella delle lavoratrici delle pulizie dell’ospedale Sant’Orsola che sfilavano nella manifestazione partita da piazza Verdi alzando in aria i “moci” (gli strumenti del loro lavoro) o il gruppo di precarie e precari dell’Università che hanno portato il loro striscione fino sotto il palco in piazza Maggiore, non si è vista in tutte le sfilate la “componente dei lavori poveri”, cioè quella marea di uomini e donne, di ragazze e ragazzi, che va a riempire le fila dei settori produttivi che stanno caratterizzando la rapida trasformazione del mercato del lavoro nel territorio bolognese e della città stessa. Parliamo delle lavoratrici e dei lavoratori dei settori della ristorazione e del turismo, del commercio e della grande distribuzione, dei trasporti e dell’aeroporto, della logistica e delle cooperative degli appalti, dei tanti lavori in nero o in “grigio”, dei part-time non volontari o dei lavori a chiamata, dei cosiddetti “contratti multiservizi” o dei tanti lavori precari. Quelli e quelle che, oltre a subire livelli di sfruttamento bestiali, hanno redditi insufficienti a coprire i loro fabbisogni di base, che hanno paghe orarie molto al di sotto della soglia dei “9 euro lordi”, previsti nelle proposte di legge parlamentari che sembrano ormai lontane anni luce.

Giovani, donne e migranti che dai loro lavori ricavano “povertà”. Tutti quei soggetti che spesso svolgono mansioni semplici e ripetitive (ma ormai il fenomeno si sta espandendo anche in settori di lavoro cognitivo), la cui remunerazione è inferiore ai due terzi del salario orario mediano.

Si tratta di una complessità sociale non facile da organizzare: fino ad ora la contrattazione collettiva non è stata in grado di salvaguardare i salari di questa massa di lavoratrici e lavoratori. Queste nuove forme di sfruttamento rappresentano mutamenti negativi del mondo del lavoro rispetto ai quali quasi nessuno è riuscito a mettere in campo forme di lotta che fossero all’altezza della situazione. L’asse della bilancia dei rapporti di forza in questi settori, perciò, non si è mai spostata verso i bisogni della forza lavoro. Salari inadeguati per vivere dignitosamente hanno fatto crescere la cosiddetta “povertà lavorativa”.

Partendo dalla consapevolezza che combattere queste nuove forme di povertà non sarebbe stato meno complesso che contrastare la miseria prodotta dalla disoccupazione, o altre forme di indigenza estrema conseguenti ai tanti fenomeni del disagio sociale, è nata, alcuni mesi fa, l’esperienza di Laboratorio Bologna. Tante realtà collettive legate alle pratiche dal basso dei movimenti cittadini, insieme a molte singolarità, hanno deciso di sperimentare un percorso comune che vedeva nell’inchiesta sociale lo strumento appropriato per capire le trasformazioni e le differenze sociali prodotte dal nuovo mercato del lavoro e, soprattutto, la condizione di precarietà lavorativa/esistenziale che caratterizza diverse persone e le situazioni di indigenza a cui sono costrette.

Dopo alcuni incontri molto partecipati e la produzione di contenuti stimolanti per la crescita del percorso, Laboratorio Bologna non è stato presente nella fase di preparazione dello sciopero generale del 29 novembre. In quella giornata la voce dei precari e delle precarie, di chi subisce sulla propria pelle gli effetti e i contraccolpi della “povertà lavorativa”, non si è fatta sentire come sarebbe stato necessario.

E’ stata persa una buona occasione, ma non tutto il lavoro fatto in precedenza è da batture… anzi…

La drammaticità della situazione è evidente

Da quando, nello scorso mese di maggio, Laboratorio Bologna ha posto la questioni della precarietà e della povertà lavorativa, dei livelli di supersfruttamento in diversi settori produttivi, la trasformazione “turistica” della città (rendendola inaccessibile a diverse fasce di popolazione), la drammaticità della situazione abitativa e i fenomeni di speculazione e di strozzinaggio conseguenti, altri soggetti hanno “contribuito” all’avvio di un’inchiesta sociale a prescindere chi l’avesse inizialmente proposta. C’è stato il lavoro di indagine fatto dall’Ires-Cgil (“L’emergenza come dato di fatto quotidiano: il 42% dei dipendenti non arriva a 20.000 euro lordi l’anno, circa 1.200 euro al mese; e il 38% di operaie e operai non arriva a 15.000 euro lordi l’anno, dunque sotto la soglia psicologica dei 1.000 euro netti al mese”). Ci sono i dati del Bilancio di previsione 2025/2027 dell’Alma Mater che certificano che nell’Università di Bologna (che storicamente è sempre stato l’Ateneo italiano che ha attratto il maggior numero di studenti a basso reddito), a causa del caro affitti e del costo della vita in generale, sta iniziando un cambiamento della fisionomia della popolazione studentesca. C’è una diminuzione degli iscritti a basso reddito e c’è, invece, un incremento di chi si trova nelle fasce superiori. Un cambiamento che coincide anche con un fattore territoriale, ossia con un calo degli studenti che arrivano da altre regioni, soprattutto dal Sud, a fronte di una crescita di coloro che arrivano dall’estero o da altre zone dell’Emilia-Romagna. C’è poi il fatto che molti studenti e studentesse per mantenersi in città devono fare lavori stagionali o saltuari e si aggiungono così alla massa dei precari.

Un altro rapporto significativo è quello della Caritas in cui si sostiene che i dati raccolti nei primi mesi del 2024 registrano un aumento del 10% delle persone che si rivolgono all’ente confessionale. Molti sono nuclei familiari nei quali ci sono dei lavoratori che per i bassi redditi sono costretti a rinunciare ad alcuni servizi importanti (quei cosiddetti bisogni secondari per loro stessi o per la loro fiamiglia come attività sportive o extrascolastiche per i figli). Sempre secondo l’organismo diocesano voci come affitti e spese sanitarigoveroe contribuiscono a spingere le persone in uno stato di povertà. Negli ultimi anni sono raddoppiate le richieste di aiuto da parte chi non ha la casa o da chi ha un alloggio precario. Una volta i poveri che si rivolgevano alla Caritas erano disoccupati o persone con problemi di dipendenze (alcool o sostanze stupefacenti). Oggi parlare di povertà significa cercare risposte molto più complesse e articolate. Per esempio, la cancellazione del reddito di cittadinanza ha determinato un grosso cambiamento: oltre il 60% delle persone che si rivolgono ai centri Caritas chiedono aiuto per pagare le bollette, spese che prima riuscivano a sostenere grazie al contributo statale. L’ultimo dato che emerge dal centro confessionale per la carità della diocesi di Bologna è il dilagare del lavoro povero e intermittente, con salari bassi e contratti atipici che impediscono una vita dignitosa. I giovani e le famiglie con figli sono le fasce più vulnerabili. Il disagio abitativo rappresenta l’emergenza più significativa, con famiglie senza casa o in condizioni abitative inadeguate.

Per quanto riguarda poi le situazioni legate all’Assegno di inclusione (Adi), lo strumento che il governo Meloni ha messo in campo per abolire il Reddito di cittadinanza, secondo l’associazione Piazza Grande la situazione è drammatica: guardando i dati del patronato Inca-Cgil, “su 2.433 domande di Adi da parte di persone che fino alla fine dello scorso anno beneficiavano del Reddito di cittadinanza, quasi la metà di queste richieste (il 44,51%) sono state respinte”. Tra i tanti ostacoli presenti nel sistema di erogazione dell’Adi c’è la richiesta non solo della “fragilità economica”, ma anche quella dello “svantaggio”. Questa condizione aggiuntiva esclude molte persone che si trovano in situazioni economiche difficili, delineando una netta differenza rispetto al Reddito di cittadinanza che offriva sostegno a un pubblico più vasto, compreso chi viveva condizioni di fragilità economica temporanea. In più, il patronato Inca-Cgil (che ha raccolto molte delle domande di Adi) segnala che l’11% delle domande restano “non definite”. Questo gruppo di richiedenti perciò è “intrappolato in un limbo burocratico che si aggiunge alla loro già precaria condizione economica”.

A questi contributi di analisi e di ricerca si possono aggiungere gli innumerevoli articoli apparsi sui quotidiani e in altri organi di informazione, dove sono stati denunciati abusi, sopraffazioni, soprusi in contesti lavorativi e speculazioni in ambito abitativo, comportamenti da vera e propria usura nell’affitto di alloggi, camere o posti letto.

Diciamo così: il lavoro di denuncia è partito ed ha dimostrato complessivamente una certa efficacia. Ormai la consapevolezza che Bologna sia una città sempre più a misura di ricchi e benestanti c’è. Anche nelle statistiche Istat è tra i primi posti tra le città più care: l’inflazione dello scorso novembre era all’1,7 %, con un rincaro annuo di 473 euro a famiglia.

Nel frattempo, a livello nazionale, cresce il divario tra chi guadagna di più e di meno. In Italia il 20% della popolazione con i redditi più alti può contare su entrate superiori a sei volte quelle di coloro che sono nellle fasce più in difficoltà. E, al tempo stesso, siamo l’unico Paese in Europa che, negli ultimi trent’anni, ha visto diminuire il salario medio.

E’ utile fare un confronto anche con la situazione di qualche anno fa: se un tempo in molti dichiaravano convintamente che il lavoro era la porta di accesso alla condizione di cittadinanza, oggi non è più così. Come non è più realistico sostenere che ci sia un rapporto meccanico fra il salario e la condizione di “un’esistenza libera e dignitosa”. Se in un passato recente, a Bologna, con 1.400 euro al mese si tirava la cinghia ma, a fatica e con sacrifici, si riusciva a tirare avanti, adesso, con i rincari dei prezzi che ci sono stati, 1.400/1.500 euro al mese non bastano più a sostenere i costi del carrello della spesa, dell’abitare, delle tariffe, dei carburanti e della salute. Il limite della sopravvivenza si è alzato, ma i redditi sono rimasti fermi al palo o, addirittura, sono arretrati.

In più, la relazione annuale dell’Inps sui salari segnala che sta per raggiungere il 30% la quota di occupati con un salario al di sotto dei 9 euro lordi all’ora e che l’8,7% dei salari non tocca i 10.000 euro l’anno. Secondo le stime, il lavoro povero in Italia è oltre cinque volte la media europea.

Oggi, la povertà lavorativa si è radicata nelle pieghe più nascoste della società, nei territori delle metropoli più avanzate come nelle realtà territoriali periferiche ed arretrate, nelle economie più ricche e produttive come nelle aree depresse o ancora pre-industriali. Produce miseria e discriminazione di genere in materia retributiva (basti pensare ai contratti part-time non volontari, dove la sproporzione fra donne e uomini è da 3 a 1). C’è un altro dato che segnala una vera e propria segregazione di genere: fra gli occupati che hanno redditi sotto i 15.000 euro la stragrande maggioranza è composta da donne (70% a 30%). Se poi si è donna e giovane, la combinazione diventa micidiale.

Ma, ovviamente, non sono solo le donne ad essere segregate nel mercato del lavoro, se si considera la condizione dei lavoratori migranti (il 30% delle loro famiglie è in condizioni di povertà assoluta) si può parlare anche di segmentazione etnica del mercato del lavoro, che si aggiunge alla segregazione di genere e alla segregazione giovanile nell’area del lavoro precario.

Nel Novecento, nella società salariale di massa, la povertà era incarnata dal “disoccupato involontario”, nel capitalismo fordista la disoccupazione era la principale causa di povertà e si differenziava con la condizione di chi lavorava. Oggi, in epoca post-fordista e di capitalismo finanziario, il sommovimento prodotto dall’economia politica neoliberale sul “lavoro subordinato di massa” (disoccupazione, precarizzazione delle situazioni di lavoro, inadeguatezza dei sistemi classici di protezione sociale), dà origine a uno status di “sovrappiù” per tante persone che vivono situazioni comuni o che si accavallano (inoccupabili, inoccupati/e o occupati/e in modo precario, intermittenti) che hanno intaccato pesantemente la loro condizione salariale.

Il quadro è chiaro ma le risposte non si vedono

Il quadro di riferimento è dunque molto chiaro, ma, di fonte al disastro sociale che si sta delineando, c’è la mancanza di risposte adeguate da parte dello Stato, degli enti locali e delle forze sociali che dovrebbero essere “abilitate” ad affrontare queste problematiche.

Certamente l’attuale crisi salariale è la spia delle grosse difficoltà dei sindacati e della contrattazione collettiva, insieme al fallimento dell’ormai insesistente meccanismo di salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali. In più, fa un certo effetto scoprire che ci sono pure alcuni contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali “maggiormente rappresentative” che prevedono “salari poveri”, dando vita a figure sociali che nel mondo anglossasone vengono definite “working poors”.

E’ bene non scordarsi che, fino alla seconda metà degli anni Ottanta, la relazione salariale era legata ad alcune specifiche proprietà: il collegamento all’anzianità (passaggi automatici categoria dopo due anni di lavoro), alla qualificazione professionale, al tempo di lavoro. La relazione salariale identificava il reddito derivante dalla prestazione della forza-lavoro (utilizzando, per definirlo, anche la conflittualità sociale e lo scontro di classe coi padroni).

Oggi, nelle caratteristiche di molti “lavori poveri” la discontinuità dell’impiego e il “tempo determinato” hanno spezzato il collegamento del salario con l’anzianità e con il percorso professionale. Insieme a queste ragioni, la riduzione (imposta dai datori di lavoro) del monte orario produce una quota retributiva complessiva più bassa e, quindi, un diminuito potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori salariati. Poi, per chi lavora nei settori sottoposti a continui cambi di appalto, a prescindere dalle condizioni di sfruttamento in violazione degli obblighi legali e contrattuali, il salario diventa di fatto una variabile dipendente dalle condizioni economiche imposte all’appaltatore, che tendono a scalare progressivamente nelle lunghe filiere di appalti e subappalti.

Il ricorso alla magistratura come extrema ratio

In questa situazione, il ricorso alla magistratura è stato, per molte e molti, l’unico strumento di difesa davanti ad evidenti soprusi e ingiustizie. Il contributo giurisprudenziale non è venuto solo dalla magistratura del lavoro, ma anche dei giudici amministrativi e dalla magistratura penale, che negli anni aveva messo da parte questi temi probabilmente a causa di un contesto sociale nel quale i salari derivati dalla contrattazione collettiva non erano “messi in discussione”, oggi è evidente che non sia più così. Nella stessa riflessione giuslavorista, quando si discute di “salari poveri”, si elogia la giurisprudenza che, a fronte dell’assenza degli altri organi dello Stato, ha dato una risposta attraverso le famose sentenze della Corte di Cassazione del mese di ottobre 2023.

Tutto era partito dal ricorso di lavoratori contrattualizzati come “multiservizi” che lamentavano come, da un appalto all’altro, pur essendo rimasti alle dipendenze dello stesso datore di lavoro, si fosse prodotta la diminuzione della loro retribuzione, in virtù dell’applicazione di contratti nazionali di lavoro sempre diversi e peggiorativi, via via sottoscritti anche dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Concretamente si trattava, a fronte di 40 ore settimanali di lavoro, di salari sconcertanti da 800/900 euro mensili. Con il ricorso chiedevano l’adeguamento delle retribuzioni all’articolo 36 della Costituzione, secondo loro disatteso dai giudici di appello con la motivazione che i contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentativi non si potessero disapplicare.

Nel corso degli ultimi anni ci sono stati diversi ricorsi alla magistratura del lavoro, a causa di retribuzioni che, anche se fissate da contratti collettivi “rappresentativi”, si collocavano su livelli minimi sconcertanti. I settori produttivi maggiormente coinvolti sono stati quelli dei servizi fiduciari, della vigilanza privata, del portierato, delle pulizie, del facchinaggio e della logistica, a cui va aggiunto l’universo incontrollato delle piattaforme digitali.

Pertanto, l’intervento della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 27711 del 2 ottobre 2023 (e altre due contemporanee sentenze “gemelle”), ha avuto gli onori della cronaca sia per le sue motivazioni, sia per l’inevitabile impatto sulla discussione politica in corso sul tema del salario minimo legale.

La novità più evidente è stata di aver ribadito, in modi comprensibili a tutti, che esisteva un minimo costituzionale invalicabile, una soglia di “giusto salario” superiore ad ogni altra “autorità salariale”, in quanto precetto normativo di valore costituzionale. E questa prescrizione era valida per i datori, i sindacati, le associazioni di categoria; ma valeva anche per il legislatore e per i giudici, tenendo conto anche delle indicazioni sovranazionali e di quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale.

Si affermava che la retribuzione sufficiente non era quella che garantiva di non essere poveri, ma quella che assicurava qualcosa in più e si faceva riferimento alla Direttiva Ue del 2022 / numero 20241 che suggeriva di determinare il “salario minimo” attraverso strumenti che tenessero conto, oltre che delle “necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio”, “anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.

La Corte di Cassazione fornì pure ai giudici di merito una serie di istruzioni operative su come condurre la “verifica di proporzionalità e sufficienza”. Vennero elencati come indicatori di un’insufficienza retributiva ex art. 36 Costituzione il valore della soglia di povertà assoluta (calcolato ogni anno dall’Istat relativamente a un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale), l’importo della Naspi o della Cig, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità, l’importo del reddito di cittadinanza, e quali fonti europee e internazionali, la Convenzione Organizzazione Internazionale del Lavoro numero 26 del 16 giugno 1928 (concernente l’introduzione di metodi per la fissazione di salari minimi), l’articolo 4 della Carta sociale Europea, gli articoli 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 sul salario minimo (con il richiamo all’articolo 5, punto 4, che, seppure destinato a quegli Stati il cui salario minimo è fissato per legge, costituisce un indicatore qualificato per una retribuzione minima suggerendo di utilizzare quelli “comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio, e/o valori di riferimento indicativi utilizzati a livello nazionale”).

Le sentenze della Cassazione hanno tentato di storicizzare il livello minimo inderogabile “in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti”, necessario per un’esistenza libera e dignitosa. Avrebbe dovuto farlo la politica, ma conosciamo da tempo come vanno le cose in Italia.

Perchè il Salario Minimo Metropolitano

Nel suo recente libro “Hanno vinto i ricchi – Cronache di una lotta di classe” Riccardo Staglianò ricorda che alla diminuzione dei salari fa riscontro un formidabile aumento dei profitti. Per un secolo il valore della produzione è andato per due terzi ai salari e per un terzo ai profitti, oggi le cose sono molto cambiate. Lo spiega bene anche Giulio Mancon, della rete Sbilanciamoci, nel suo “Rapporto sulla ricchezza” dove spiattella l’ideologia della classe “agiata” e con essa anche i suoi numeri: oggi il 10% delle famiglie più ricche possiede circa il 45% della ricchezza totale e riceve circa il 27% del reddito prodotto, mentre il 50% delle famiglie più povere possiede appena il 10% della ricchezza totale.

Quello che viene da domandarsi è perché, di fronte a questo stato di cose, quelli che hanno subito e sofferto di più si sono quasi sempre sacrificati, sopportando la pesante situazione anziché ribellarsi e chiedere “rumorosamente” conto?

L’inesistenza, a livello istituzionale, anche solo di proposte per aggredire i problemi derivati dalla “povertà lavorativa” è un dato di fatto: non c’è un’idea che sbatta contro un’altra, l’aria fritta diventa l’atteggiamento a cui tanti si ispirano. In questo contesto, sicuramente fa scuola il comunicato fatto uscire da sindacati e amministrazione pubblica nell’ambito della discussione sul Bilancio del Comune di Bologna lo scorso 19 dicembre: “Amministrazione e sindacati hanno condiviso la necessità di rafforzare la contrattazione territoriale, sociale e per lo sviluppo, per ridurre le disuguaglianze, affrontare le numerose fratture sociali, favorendo una più equa redistribuzione della ricchezza, investendo nella giusta transizione, sulla qualificazione del lavoro e rafforzando il welfare e il sistema dei servizi pubblici a partire dalla valorizzazione del personale…
 Sono stati individuati, poi, capitoli importanti che saranno oggetto di ulteriori approfondimenti…”.

Ma, oltre a ciò, è giusto segnalare anche come la mancanza di obiettivi chiari e “coraggiosi” sia stata la causa della paralisi di un movimento di lotta che sarebbe assolutamente necessario ed indispensabile. Avanti di questo passo, a giuste rivendicazioni basate sui bisogni, si sostituiranno speranze legate a desideri sempre più irrangiungibili e sconfortanti.

E, ancora una volta, a dimostrarlo sono comparazioni col passato, parliamo di quelle segnalate non da incalliti rivoluzionari, ma da Ameco (la banca dati macroeconomica del Consiglio Economia e Finanza dell’Unione Europea): i dati sul salario reale lordo registrarono un forte aumento per tutto il periodo in cui la conflittualità era alta. Infatti, fra il 1960 ed il 1980, il salario reale raddoppiò. Negli anni ’80, si registrò un rallentamento e, dall’inizio degli anni ’90 cominciò la stagnazione che stiamo vivendo ancora oggi.

Quindi, è evidente e non potrebbe essere altrimenti, la storia l’ha ampiamente dimostrato: in assenza di conflitto sociale, di una mobilitazione di massa di lavoratori e lavoratrici l’asticella dei diritti non si alzerà mai. La questione dei bassi salari (o, permeglio dire, delle paghe da fame) è ormai al centro del dibattito pubblico in tutto il paese, ma, per farla maturare a livello di lotta, occorre avere propositi espliciti che sappiano coinvolgere le persone. Poi, a un certo punto, da qualche parte bisogna iniziare, ricordandosi che essere “più realisti del re” non porta molto lontano. Le condizioni per mettere in campo qualcosa di concreto ed efficace non nascono da sole, molto spesso sono necessarie forzature per rompere la piattezza dello status quo.

Nella nostra città, avendo (per ora) una prospettiva territoriale, partendo dal percorso intrapreso da Laboratorio Bologna qualche mese fa, si può produrre qualcosa di “materialmente” interessante ed incisivo.

Cominiciamo con una campagna di massa per il Salario Minimo Metropolitano.

Bologna ormai è diventata una città “invivibile” per larghe fasce di popolazione. Certo, ci sono quelli che “contano”, che svolgono lavori “importanti” o altamente tecnologici, o quelli che lucrano sul lavoro di altri: per tutti questi, da queste parti, si guadagna molto di più che altrove. Ma se sei giovane, se sei donna e lavoratrice dipendente, se sei migrante e facchino della logistica o dell’areoporto, se sei un operaio di una piccola impresa o di un’azienda che affitta lavoro, se sei stato inquadrato/a nella categoria dei “multiservizi”, se sei un’addetta delle pulizie, se fai il cameriere o lo sguattero, il barista o “aiuti” in cucina, se fai lavoro di cura o presti servizio in una cooperativa sociale del circuito del welfare privatizzato, se sei un rider o un precario a una precaria, le tue retribuzioni sono molto basse, come in tante città d’Italia (ma volte anche di più).

L’altro elemento con cui fare i conti è il costo della vita: l’importo della spesa per acquistare un “paniere minimo di beni” (affitti, generi alimentari, trasporti, vestiario, una minuscola particella di attività culturali) è superiore alla media delle altre grandi città italiane (è una “bella gara” con Milano). Lavoratrici e lavoratori della fascia “fragile” del lavoro dipendente o parasubordinato non ce la fanno a vivere decorosamente e, lavorando, sono povere/i o poverissime/i.

Tutte e tutti costoro vanno coinvolti in una battaglia per il Salario Minimo Metropolitano. Sia chiaro: per una retribuzione oraria non inferiore a una soglia di dignità, che intacchi in primo luogo il divario retributivo di genere.

Una misura come quella che viene proposta, oltre ad incidere concretamente nel miglioramento della vita delle persone, servirebbe a ristabilire rapporti di forza più equilibrati tra le varie tipologie di “padronanza” e l’altra parte del mondo del lavoro, tutelando maggiormente lavoratrici e lavoratori dalle tante forme di ricattabilità che i contesti delle microimprese favoriscono.

Di questi tempi, la parola d’ordine del salario minimo risulta essere piuttosto efficace dal punto di vista comunicativo, pertanto questa “contingenza favorevole” va sfruttata per promuovere al meglio le lotte e il conflitto sociale necessari per sostenere un obiettivo non certo facile nel contesto politico in cui stiamo vivendo.

Le obiezioni sono piuttosto deboli

Un ambito territoriale del salario minimo, oltre che da parte padronale, trova alcune resistenze sul fronte sindacale. Si sostiene che una contrattazione salariale territoriale potrebbe produrre un rischio di “rottura del principio del contratto nazionale”. A questi dubbiosi si può tranquillamente obiettare che, nella migliore tradizione del sindacalismo italiano, oltre altre vertenze contrattuali nazionali, ci sono sempre state, nell’ambito della contrattazione di “secondo livello”, vertenze territoriali e vertenze aziendali. Semmai a mettere a repentaglio la fondamentale natura dei “contratti di lavoro nazionali” è stata l’intesa firmata dai sindacati “maggiormente rappresentativi” per il cosiddetto “contratto nazionale multiservizi”, che prevede una paga oraria al minimo e un’alta flessibilità: un vero e proprio strumento di “dumping contrattuale” usato in diversi settori come le pulizie e la sanificazione, la rete ospedaliera e il circuito delle Rsa, la ristorazione collettiva, il sistema museale, per i custodi e gli steward di eventi sportivi, per i servizi esternalizzati di grandi fabbriche e pure per istituzioni pubbliche come gli Atenei universitari.

Un tempo, contratti nazionali e contrattazione aziendale si combinavo in una normale attività di relazioni industriali. Oggi, invece, assistiamo a una situazione nazionale bloccata per quanto riguarda i contratti di molti settori e, al tempo stessso, la vertenzialità aziendale rimane un esercizio in uso solo in aziende di grandi dimensioni. Il mondo produttivo del nostro territorio si compone, in larga misura, di piccole e piccolissime imprese, in questi luoghi la contrattazione aziendale non esiste. Il primo obiettivo che, perciò, bisogna porsi è quello di riequilibrare, in un’area come la nostra, il costo della vita e i salari (miseri) di tante persone che vi ci lavorano.

Se oggi si riesce a invertire la rotta a Bologna, questo sarà di aiuto anche in altre città, domani sarà più semplice rivendicare un salario degno di questo nome in tutto il Paese.

Altra questione che viene posta: in questo modo si ritornano a formare le “gabbie salariali” con stipendi diversi da zona a zona. Per onestà chi fa questa obiezione dovrebbe avere il coraggio di riconoscere che oggi le “gabbie salariali” esistono tra Paese e Paese dell’Unione Europea, si potrebbe dire che sono costitutive del processo di integrazione economica continentale. Si veda la situazione dei paesi, di più recente ingresso nella UE, dove il costo del lavoro è barbaramente inferiore ai Paesi fondatori dello spazio economico europeo o del Nord Europa. Del resto, basta vedere l’entità degli stipendi della Germania, della Francia o della Spagna rispetto all’Italia (dove la contrattazione collettiva, in particolare dalla stagione della “politica dei redditi” del 1992/1993, ha condannato milioni di lavoratori e lavoratrici sotto la soglia di quei 9 euro lordi l’ora, proposti dalle forze politiche di centro-sinistra, che hanno fatto tanto chiasso, ma hanno prodotto tanta impotenza).

Per questo, strategicamente, il salario minimo europeo rimane sullo sfondo come obiettivo necessario, ma, per arrivarci, occorre partire dai territori, per non rimanere impigliati in dinamiche parlamentari che non producono nessun cambiamento effettivo.

“C’è chi deve essere povero e chi no”, questo paradigma padronale vale in tutte le dimensioni dello sviluppo capitalistico e in tutte le latitudini del mondo. Per cominciare a ribaltarlo, per riaffermare (al contrario) il diritto a una esistenza degna, è necessario passare anche da rivendicazioni come il salario minimo metropolitano.

Il salario minimo negli altri Paesi

E a proposito di “gabbie salariali”, non fa male prendere in considerazione la situazione di altri Paesi.

Il salario minimo è presente in 22 dei 27 Paesi membri dell’Unione Europea. I primi quattro con il salario minimo per ora di lavoro più alto sono il Lussemburgo (14,86 euro), i Paesi Bassi (13,27 euro), l’Irlanda (12,70 euro) e la Germania (12,82 euro).

Per definire un salario minimo adeguato c’è da tenere in considerazione il fatto che l’Unione Europea ha approvato il 14 settembre 2022 una direttiva sulla materia, che avrebbe dovuto essere recepita dagli Stati membri (che avevano una contrattazione collettiva nazionale al di sotto dell’80%) entro il 15 novembre 2024 (Direttiva EU 2022/2041). In essa è contenuto questo principio: “A tal fine, gli Stati membri possono utilizzare valori indicativi di riferimento comunemente utilizzati a livello internazionale, come il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio, e/o valori indicativi di riferimento utilizzati a livello nazionale”. Questa direttiva indicava ai Paesi membri dell’Unione la necessità di garantire a tutti i lavoratori un salario minimo adeguato che tenesse conto del costo della vita e delle differenze regionali e territoriali, prevedendo revisioni periodiche per garantire che i livelli retributivi rimanessero aggiornati.

Danimarca, Svezia, Austria, Finlandia e Italia, invece, il salario minimo non ce l’hanno. Cipro l’ha introdotto da poco.

In più, ci sono pure altri otto Paesi, candidati o potenziali candidati ad entrare nell’Unione Europea, che hanno un salario minimo nazionale. Si tratta di Montenegro, Moldavia, Macedonia del Nord, Georgia, Albania, Serbia, Turchia e Ucraina.

In diversi paesi europei la percentuale di lavoratori e lavoratrici che percepiscono solo il salario minimo è superiore al 10 per cento.

In Germania è in vigore dal 2015 un salario minimo legale generale (previsto dalla cosiddetta “Mindestlohngesetz”). Nel 2024 il suo importo è stato di 12,41 euro l’ora, dal 1° gennaio 2025 la quota è aumentata a 12,82 euro (lordi). C’è una proposta del ministero del lavoro che prevede un salario minimo a 15 euro l’ora entro il 2026. La misura si applica indipendentemente dall‘ambito di attività e dalla nazionalità del lavoratore. Perciò, ne possono usufruire anche tutti coloro che lavorano in misura ridotta (nei cosiddetti mini-job), sia i lavoratori stagionali, sia i lavoratori stranieri che lavorano in aziende che operano sul territorio tedesco. Non si applica, invece, ai lavoratori di età inferiore ai 18 anni che non hanno completato la formazione professionale. Per garantire che il salario minimo sia effettivamente pagato per tutte le ore lavorate e per contrastare fenomeni di “lavoro nero”, i datori di lavoro hanno l’obbligo della registrazione delle ore di lavoro dei dipendenti. Questa documentazione è richiesta anche nei casi di coloro che lavorano in misura ridotta. La regola, che all’inizio era obbligatoria per i settori dell’edilizia, della ristorazione, delle pulizie, della logistica, dei trasporti, delle spedizioni, per i lavoratori degli ostelli, nei lavori forestali e nell’industria della carne, dopo la sentenza della Corte Europea del 14 maggio 2019 (C-55/18), ha esteso l’obbligarietà a tutti i settori produttivi.

Inoltre, a garanzia che il salario minimo rimanesse adeguato al costo della vita e al suo andamento, nella “Mindestlohngesetz” è prevista l’introduzione di una “Commissione per il salario minimo” formata da rappresentanti dei sindacati e dei datori di lavoro, oltre che ad esperti ed economisti. Ogni due anni, la “Commissione per il salario minimo” presenta al Governo federale una proposta sul livello di adeguamento del salario minimo.

In Francia, a seguito dell’approvazione del Decreto numero 2024-951 del 23 ottobre 2024, a partire dall’1 novembre 2024, c’è stato un aumento dello Smic (Salario Minimo Interprofessionale per la Crescita), in cui il salario minimo orario è stato fissato ad 11,88 euro lordi.

A partire dal 2024, il salario minimo in Spagna è fissato a 1,323 euro al mese (che riflette un aumento del 5% rispetto all’anno precedente) ed è erogato su 14 mensilità annuali. Il salario minimo interprofessionale (Smi) spagnolo si applica a tutti i dipendenti iscritti alla previdenza sociale, compresi i lavoratori part-time. Una serie di tutele legali consente ai lavoratori e alle lavoratrici di richiedere la differenza a fronte di un guadagno al di sotto della soglia prevista per legge. I settori maggiormente interessati sono quello agricolo, quello alberghiero e della ristorazione, quello dei servizi domestici e alla persona. Il salario minimo legale in Spagna viene stabilito dal Governo centrale e può variare a seconda di fattori come l’età e il tipo di contratto.

Una situazione particolare si vive a Barcellona (città che molto spesso viene presa ad esempio a Bologna): oltre allo Smi nazionale, nella capitale catalana, l’Amb (Area Metropolitana di Barcellona – si tratta di un’entità amministrativa pubblica) indica il cosiddetto Stipendio di riferimento metropolitano (Srm), cioè la quantita monetaria minima (in aprile del 2024 fissata nei 1.516,73 mensili) per poter coprire i bisogni di base nella città, tenendo conto del costo medio generale di una “riproduzione sociale standard”. Quindi, quello confezionato dall’Amb, è solo un riferimento salariale (indica semplicemente un calcolo statistico) che risulta essere superiore al costo della vita fissato ufficialmente dallo Smi nazionale. Questo strumento (che sa un po’ di “fuffa metropolitana”) ha lo scopo di indicare “concettualmente” la retribuzione necessaria affinché un lavoratore o una lavoratrice e la sua famiglia possano “vivere dignitosamente” nel capoluogo della Catalogna (come raggiungere la quota necessaria, però, non viene indicato). Il calcolo dell’Srm comprende fra i bisogni base anche gli affitti, i trasporti, l’istruzione, l’abbigliamento e il tempo libero. Secondo quanto ammette l’Amb il 32,8% dei cittadini barcellonesi, pur avendo uno stipendio, non raggiunge il salario minimo necessario per soddisfare i propri bisogni primari e si trovano in una condizione di “povertà lavorativa”. Uno dei motivi principali di questa condizione di povertà è il prezzo degli alloggi che corrisponde a quasi la metà degli stipendi mensili. Di fatto, che sia affitto o mutuo, questa spesa consuma un terzo dello stipendio degli abitanti dell’area metropolitana di Barcellona. Ad essa vanno sommati i costi di elettricità, acqua, gas e restanti bollette, aumentando tale percentuale al 45,2%.

A Barcellona è in vigore anche la “Renta garantizada de ciudadanía” (Rgc), una specie di reddito garantito che si può avere solo se non si lavora e ci si trova in una situazione totalmente precaria: sono circa 600 euro al mese.

Fuori dall’Unione Europea, in Gran Bretagna il salario minimo prende il nome National living wage ed è stato fissato, a livello nazionale, dal 1998. Le aziende che non soddisfano gli standard salariali nazionali sono soggette a multe.

Il Salario minimo nazionale nel Regno Unito differisce a seconda dell’età del lavoratore e, dal mese di aprile del 2024, le tariffe hanno questa scala di valori:

– Tariffa standard per adulti (più di 21 anni): 11,44 euro l’ora;

– Dai 18 ai 20 anni: 8,60 euro l’ora;

– Sotto i 18 anni: 6,40 euro l’ora;

– Apprendisti: 6,40 euro l’ora.

Secondo la legge britannica, alcune industrie possono negoziare livelli salariali minimi diversi da quelli previsti per legge attraverso accordi di contrattazione collettiva (Cba). Questi accordi generalmente aumentano l’importo richiesto come parte degli standard minimi di un contratto e, comunque, i salari interessati da un Cba non possono scendere al di sotto del salario minimo nazionale del Regno Unito.

A Londra esiste un salario di sussistenza, che prende il nome di London Living Wage e ha l’obiettivo di integrare il salario minimo nazionale per adattarlo al costo della vita della metropoli. Le imprese aderiscono in modo volontario, fino ad ora sono state 14.000. Seguendo le indicazioni della Living Wage Foundation, una commissione indipendente pubblica ogni anno il livello necessario delle retribuzioni. Nella commissione sono presenti le parti sociali interessate: datori di lavoro, governo locale e nazionale, sindacati ed esponenti dell’università. Il paniere dei beni su cui viene calcolato il costo della vita londinese viene compilato sulla base di liste di prodotti che vanno oltre le tre voci primarie “alimentazione, abbigliamento, abitazione”, attraverso un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali per una esistenza dignitosa, il cui costo netto mensile viene tradotto poi in un salario lordo mensile e successivamente (con un full-time di 40 ore settimanali) in una cifra lorda oraria. Tra i lavoratori coinvolti in questa misura ci sono soprattutto donne e lavoratori non sindacalizzati e a basso reddito. Comunque, molti lavoratori part-time, della ristorazione e del commercio, e molte donne di Londra hanno paghe che vanno al di sotto della soglia. Nel 2023 il salario minimo nazionale era fissato a 10,42 sterline, mentre il salario di sussistenza londinese arrivava a 13,15 sterline, una integrazione del 26%.

La Svizzera è il Paese con gli stipendi più alti nel continente europeo. Nel Paese non è stato ancora fissato il salario minimo nazionale. E’ utile ricordare che il salario mediano mensile in Svizzera, nell’ultima rilevazione che risale al 2 settembre 2024, è pari a 6.788 franchi (circa 7.273,04 euro). Nel 2014 ci fu un referendum che proponeva l’introduzione di una retribuzione minima obbligatoria nazionale di 22 franchi orari (circa 19 euro) ma fu bocciato, sebbene la paga proposta fosse di gran lunga superiore a quanto offerto nel resto dell’Europa. Il 24 gennaio 2024 è stato presentato in Parlamento un disegno di legge che tende a conferire il carattere obbligatorio generale alle disposizioni dei contratti collettivi di lavoro sui salari minimi, ma, fino ad ora, una riforma nazionale sui salari minimi non è stata ancora approvata.

Per adesso, solo cinque Cantoni su 26 hanno un salario minimo, con un importo che varia da 20 a 24 franchi in base al Cantone, e sono i seguenti:

– Canton Neuchâtel, salario minimo di 21,09 franchi all’ora (circa 22,59 euro).

– Canton Basilea Città, salario minimo di 21 franchi all’ora (circa 22,5 euro), ma non si applica a tutti i settori.

– Canton Giura, salario minimo di 20,60 franchi all’ora (circa 22,07 euro).

– Canton Ginevra, salario minimo di 24 franchi all’ora (circa 25,71 euro).

Le posizioni dei sindacati italiani

Tornando all’Italia, le difficoltà dell’assetto attuale sono state riscontrate, come si diceva sopra, pure dalla giurisprudenza, che ha affrontato il tema, da un lato ribadendo il ruolo centrale della contrattazione collettiva nella determinazione dei livelli salariali, ma dall’altro ha dichiarato insufficiente la retribuzione che spesso viene applicata in base alla contrattazione collettiva.

Sull’introduzione del salario minimo per via legale i sindacati confederali sono divisi. La Cisl è da sempre contraria, sostenendo bizzarramente che la misura potrebbe determinare “una spirale verso il basso della dinamica delle retribuzioni”. Per la Cgil, invece, il salario minimo è uno strumento necessario: “Milioni di persone hanno paghe orarie sotto i 9 euro e non è più accettabile. C’è stata poi una crescita dei cosiddetti contratti pirata, quindi crediamo che questi due temi debbano essere affrontati insieme”. Anche per la Uil il salario minimo serve: “La sensazione che abbiamo è che la politica sia distante dalla realtà e non riesca a rappresentare quei ragazzi che oggi guadagnano pochissimo”. Per l’Ugl “un intervento del legislatore per l’introduzione di un salario minimo legale orario non è utile, essendo sufficiente il ruolo della contrattazione collettiva”.

Per Adl Cobas il salario minimo orario “è fondamentale per garantire una vita libera e dignitosa ai lavoratori e alle proprie famiglie come prescrive la Costituzione; non indebolisce la contrattazione collettiva; permette ai lavoratori di avere il sostegno dello Stato come autorità salariale; tutela i lavoratori dai contratti pirata”.

Per Sial Cobas “solo con le lotte si potrà ottenere il salario minimo e superare il lavoro povero”.

La Confederazione Cobas sostiene: “Ben venga in Italia l’introduzione per legge del salario minimo (orario e mensile), i Cobas si stanno adoperando per questo, insieme alla raccolta di oltre un milione di firme per l’Ice (reddito incondizionato in tutta la Ue), al fine di garantire un reddito minimo nei periodi di difficoltà economico-lavorativi, capace di aiutare a ridurre l’esclusione e le disparità sociali nell’Unione Europea. L’introduzione del salario minimo per legge soddisfa l’articolo 36 della Costituzione ed insieme sostiene l’effettiva parità di genere, oltre a favorire l’abolizione delle discriminazioni e delle disuguaglianze, delle povertà lavorative e delle contrattazioni ‘gialle al ribasso’, colpendo e sanzionando i datori di lavoro spregiudicati”.

Sgb afferma: “Solo una larga mobilitazione potrà sconfiggere le resistenze opposte da anni a questa misura di giustizia sociale da parte del Governo, delle forze politiche che lo sostengono e del blocco sociale che rappresentano. Ci siamo impegnati per la raccolta delle firme a sostegno della Legge di Iniziativa Popolare (…) avente per oggetto l’istituzione, nel Paese, di un salario minimo legale di 10 euro lordi l’ora”.

Per le Camere del Lavoro Autonomo e Precario (Clap): “Sussiste l’urgenza e la necessità di introdurre nel nostro ordinamento un salario minimo per via legale, rivolto universalmente a tutte le lavoratrici e i lavoratori, indipendentemente dal settore economico in cui operano e dal proprio profilo professionale”.

Per i Si Cobas “la rivendicazione di un salario minimo di 12 euro, come esiste già in Germania, avrebbe una diversa capacità di mobilitare e unificare la grande maggioranza dei lavoratori, ma non è nelle corde dei sindacati confederali, alfieri della competitività del made in Italy, e soprattutto delle piccole imprese che prosperano sui bassi salari e sull’esclusione del sindacato”.

Usb è stata una delle organizzazioni promotrici della raccolta di firme per una legge di Iniziativa Popolare per il “Salario minimo a 10 euro l’ora”. Il 28 novembre 2023 sono state consegnate al Senato le 70.000 firme raccolte. “Per dire basta al lavoro povero, perché il problema non sono solo i contratti pirata: troppi contratti hanno salari bassi, per un aumento generale degli stipendi… La proposta di legge si discosta da quella firmata successivamente da M5S, Pd, Azione, Alleanza Verdi-Sinistra e PiùEuropa sul salario minimo orario di 9 euro, perché prevede, oltre alla soglia più alta, adeguamento automatico all’inflazione Ipca e nessun risarcimento per le imprese che adeguano i minimi in base alla legge”.

Per le Acli (che non è un sindacato ma un’associazione di lavoratori cristiani) l’obiettivo è quello di arrivare all’elaborazione di un Indice del lavoro dignitoso: “Un indice scientifico che fissi la soglia di salario minimo costituzionale sufficiente a garantire nei diversi settori un’esistenza libera e dignitosa ai lavoratori e alle loro famiglie, valorizzando i contratti collettivi siglati dai sindacati maggiormente rappresentativi e che possa esprimere una soglia che contribuisca a legittimare solo contratti collettivi autentici e di qualità, non quelli opportunistici”.

E’ dal 1954 che le proposte di legge non passano

Nel mese di luglio del 2023 tutti i partiti di opposizione (Pd, 5 Stelle, Azione, Alleanza Verdi-Sinistra), con l’eccezione di Italia Viva, hanno presentato in Parlamento una proposta di legge per l’introduzione di un salario minimo a 9 euro lordi l’ora. I partiti che compongono la maggioranza che sostiene il governo Meloni si sono dichiarati contrari a un salario minimo stabilito per legge. Come risposta alle forze politiche di centrosinistra, il governo ha dato l’incarico al Cnel (Consiglio Nazionale per l’Economia e il Lavoro) di elaborare entro 60 giorni una proposta per il contrasto al lavoro povero, in modo che potesse arrivare in tempo per la legge di bilancio. Il fatto era piuttosto curioso in quanto l’elaborazione di una proposta sul salario minimo era affidata a un organo il cui presidente è Renato Brunetta, uno storico esponente di Forza Italia che si è sempre dichiarato contrario alla misura. L’esito era perciò piuttosto scontato, Brunetta ha fatto uscire a nome del Cnel un documento in cui si sostiene che il salario minimo “non risolverebbe” la questione del lavoro povero. E che, per garantire delle retribuzioni minime adeguate è auspicabile un ruolo maggiore per la contrattazione collettiva, potenziando il rapporto tra sindacati e associazioni dei datori di lavoro, ossia il sistema già in vigore in Italia che – secondo il Cnel, gran parte della destra e delle organizzazioni padronali – può garantire un risultato migliore del salario minimo. Quello che, a prima vista, poteva sembrare un mero atto burocratico, in realtà è risultato essere un messaggio politico chiaro e forte. Dopo di che il dibattito politico nazionale si è arenato, insieme all’affossamento della proposta di legge delle opposizioni, è calata una cappa di silenzio, nei fatti mai più sollevata.

Un esito simile a quello di un anno e mezzo fa si ebbe, a livello parlamentare, anche nel 1954, quando un gruppo di parlamentari del partito comunista e del partito socialista (primi firmatari Giuseppe De Vittorio, Teresa Noce, Vittorio Foa, insieme agli altri deputati Bei, Santi, Pessi, Roasio, Maglietta, Ravera, Li Causi, Cianca) presentò il Disegno di Legge 895 che prevedeva un minimo salariale indistintamente per tutti i lavoratori del settore industriale, con gli aumenti previsti dalla scala mobile. Si trattava di una proposta di legge attuativa dell’articolo 36 della Costituzione (che testualmente stabilisce: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”), per rispondere al problema dei salari poveri, garantendo ai lavoratori e alle lavoratrici una retribuzione non solo commisurata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, ma anche sufficiente ad assicurare a loro e alle rispettive famiglie un’esistenza libera e dignitosa. Nella presentazione il testo recitava: “La proposta di legge che sottoponiamo alla attenzione del Parlamento trova essenzialmente il suo fondamento nelle gravissime condizioni in cui versano centinaia di migliaia di lavoratori che pur sono regolarmente occupati. (…) La fissazione di un minimo salariale, non rappresenta, (…) esclusivamente un atto di riparazione sociale e giustizia, essa costituisce anche il primo passo per la concreta attuazione dell’art. 36 della Carta costituzionale. È ben noto che la situazione salariale del nostro Paese sia particolarmente precaria (…) Fra questi salari bassissimi e comunque insufficienti ve ne sono taluni corrisposti per certe categorie o in determinate zone, che per la loro avvilente irrisorietà, acquistano le caratteristiche di veri e propri salari schiavisti”. Nell’articolo 1 si affermava: “Tutti i lavoratori, indipendentemente dal sesso e dall’età, occupati nell’industria, nel commercio e nell’artigianato, lavoranti a domicilio o presso terzi, non potranno in nessun caso ricevere una retribuzione inferiore alle lire 100 orarie e alle 800 per il normale orario giornaliero di otto ore, comprensive della paga base e della contingenza, qualunque sia la misura di questa nelle singole province”.

La proposta rimase tale e la legge non venne mai approvata, trovando la dura contrarietà della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati di governo. Qualche tempo dopo Giuseppe Di Vittorio nel suo ultimo discorso da segretario generale della Cgil sostenne: “È giusto che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie, delle loro creature? È giusto questo?”.

Purtroppo, a settant’anni di distanza quelle domande (ancora oggi di grande attualità), nelle aule parlamentari non hanno trovato risposte e chissà mai se in quei palazzi un giorno ce ne saranno.

Gli spiragli a livello locale bisogna aprirli

In Italia il dibattito sul salario minimo è aperto ormai da parecchio tempo. Se da una parte i partiti di destra si sono sempre dichiarati contrari all’introduzione di un minimo salariale per legge, dall’altra, invece, i partiti di centrosinistra ne hanno fatto una battaglia di bandiera che è sbiadita molto in fretta. Nel corso degli anni la sinistra al governo non è mai stata in grado di raggiungere un accordo definitivo o di varare un provvedimento su questa materia.

Per quanto riguarda la città, nelle aule dei palazzi istituzionali il “benaltrismo” sembra la formula più apprezzata. Il sindaco Lepore, a fronte di alcune iniziative partite in un po’ di Comuni, si è limitato a dire che verrà predisposto un “gruppo di studio per esplorare”… Il progressivismo, di cui spesso ci si vanta sotto le Due Torri, in questo caso, sembra avanzare a “corrente alternata” e il silenzio “imbarazzante” della politica cittadina forse più che un “bisogno di studio” sta a testimoniare una mancanza di volontà.

Comunque, come appunti di quello che si sta muovendo nelle istituzioni locali, elenchiamo un po’ di cose avvenute qua e là in varie regioni.

Il Comune di Firenze è stato il primo ad approvare una delibera che stabilisce un salario minimo di 9 euro all’ora per tutti gli appalti di opere e servizi del Comune. E’ stato seguito dalla giunta del sindaco Manfredi di Napoli che ha approvato una delibera che introduce un salario minimo di 9 euro per i dipendenti pubblici e le imprese che intendono lavorare per il Comune del capoluogo campano. La delibera contiene anche vincoli sui contratti collettivi che devono essere applicati al personale impiegato nei lavori, nei servizi e nelle forniture oggetto di appalti pubblici.

A Livorno sono stati dei lavoratori a portare una voce dentro il Consiglio comunale. Una consigliera di Potere al popolo, entrata in contatto con alcuni dipendenti del museo comunale, gestito in subappalto, si è resa conto che molti di quei dipendenti erano coperti da un contratto nazionale “multiservizi”, con una paga sui 7 euro lordi l’ora. E’ stata presentata una mozione che tutte le forze politiche hanno approvato ad eccezione delle destre. Il provvedimento dovrà essere discusso in commissione bilancio e si dovrà trovare il modo per stanziare fondi a garanzia del salario minimo e rendere concreto l’atto.

A Bacoli, comune della città metropolitana di Napoli, il sindaco nel presentare la delibera approvata sui 9 euro di salario minimo, ha ribadito che è venuto il momento di “schierarsi con i giovani sfruttati e i lavoratori sottopagati”: quindi “chiunque vorrà avere l’onore di fare impresa su un’area pubblica, dovrà farlo tutelando i diritti di barman, bagnini, ormeggiatori, guardiani. E lo stesso varrà per gli operai delle ditte edili che svolgeranno lavori pubblici. Idem, per mense scolastiche, guardianìa e tutti i servizi esternalizzati”.

A Milano il movimento di media activism Adesso!, insieme a Tortuga (un think-tank di studenti, ricercatori e professionisti del mondo dell’economia e delle scienze sociali), diversi docenti di diritto del lavoro ed alcuni economisti, in un convegno, che si è tenuto a Palazzo Marino e in cui si è analizzato il rapporto tra stipendi e alto costo della vita a Milano, hanno lanciato un appello al sindaco Beppe Sala per chiedere di introdurre uno strumento simile alla “London living wage”. La proposta che è stata eleborata è molto concreta: l’introduzione di un salario minimo territoriale di 10 euro l’ora per l’area metropolitana di Milano, adeguando i contratti nazionali alle esigenze della città metropolitana attraverso accordi territoriali, mirando a garantire una soglia minima che consenta di rimanere al di sopra del livello di povertà. Il Comune dovrebbe rispondere all’emergenza salariale facendosi co-promotore dell’adeguamento dei contratti, con l’inserimento di elementi di welfare territoriale. Applicando la misura nei bandi pubblici, alle aziende che lavorano con il Comune e ai dipendenti comunali.

Lo spunto è stato preso dalla London living wage, perché, come la vita a Londra è più costosa che in altre province inglesi, lo stesso vale nel confronto tra Milano e le altre province italiane. Infatti, secondo un sondaggio di “Adesso!”, il 62% degli under 40 che vivono nel capoluogo lombardo non riesce a risparmiare neppure un euro al mese. La colpa è da attribuirsi in buona parte al fenomeno del caro affitti, ma anche agli stipendi che non tengono il passo con i costi sempre più onerosi della vita in città.

I promotori del progetto lanciano un appello al sindaco Sala affinché “si faccia promotore di una commissione indipendente con le università e le parti sociali e affidi a questo soggetto super partes il calcolo annuale del salario minimo per vivere a Milano”. Una volta che la soglia sarà stata individuata, Palazzo Marino potrebbe istituire un registro delle aziende che aderiscono e prevedere agevolazioni per chi garantisce il salario minimo milanese ai propri dipendenti”. Ora resta da vedere se il sindaco di Milano è disposto ad applicare una misura simile nella sua città.

L’Assemblea Regionale della Toscana ha approvato una mozione di una consigliera del Movimento 5 Stelle “In merito alla tutela della retribuzione minima in tutti i contratti di di appalto di opere e servizi della Regione”. Nell’atto si chiede alla Giunta regionale di “assicurare, in coerenza con quanto previsto dal Codice degli appalti, per tutte le procedure di gara che vedano direttamente quali stazioni appaltanti Giunta regionale e Consiglio regionale, l’applicazione al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni” di prevedere “un trattamento economico minimo inderogabile pari a 9 euro l’ora” e di farsi promotori dell’applicazione di tale principio “presso i propri organi strumentali e le proprie società partecipate”.

Ecco, la discussione su questi temi sui banchi del Consiglio comunale di Bologna o dell’Assemblea regionale dell’Emilia-Romagna non è che l’abbiamo vista accendersi molto.

Noi pensiamo che le mobilitazioni dal basso non si debbano preoccupare di questa “sonnolenza istituzionale”. Come ci hanno insegnato altri periodi storici, la lotta per il salario minimo deve partire dagli attivisti e dalle attiviste, deve sapere coinvolgere i soggetti sociali che vivono sulla loro pelle questi problemi e, insieme a loro, costruire una massa critica che sappia con forza imporre i propri bisogni. Quelli dei “banchi”, se si sveglieranno, avranno tutto il tempo di “rincorrere” queste istanze e adottare misure adeguate.

Bisogna partire comunque… facendo un bel po’ di rumore (chi va in letargo, per aprire gli occhi, deve ricevere delle belle scrollate).