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Bianzino, secondino condannato in Cassazione

Confermata la (mite) pena all’agente di polizia penitenziaria che disse al 44enne, in carcere per aver coltivato erba, di “non rompere il c…” chiedendo un dottore. Il detenuto morì nella notte.

06 Giugno 2015 - 10:41

di Checchino Antonini da PopoffQuotidiano.it

foto da veritaperaldo.noblogs.orgCaso Bianzino, la Cassazione conferma la condanna della guardia carceraria (un anno e mezzo in primo grado con pena sospesa e sei mesi in meno in appello) imputata di omissione di atti d’ufficio la notte in cui Aldo, mite abanista arrestato perché si coltivava qualche pianta d’“erba”. Morì a 44 anni nel carcere di Perugia dopo essersi sentito male per una improvvisa emorragia cerebrale. Aveva chiesto aiuto. Aveva chiesto più volte un medico. L’agente gli aveva risposto di non rompere il cazzo. E di aspettare la mattina seguente. Aldo venne poi trovato morto, la mattina seguente. La sentenza è arrivata dopo le 23 di ieri sera.

«Questa condanna per questo solo reato è poca cosa ma è qualcosa. Il mio pensiero va a Rudra (il figlio più piccolo di Bianzino, aveva 14 anni quando il padre fu arrestato, ndr)», dice Fabio Anselmo, legale di questa come di altre famiglie di vittime di malapolizia, all’atto finale di un processo in cui il pm ha rinunciato a trasformare il capo d’imputazione aggiungendo l’aggravante che avrebbe consentito di capire perché un uomo entrato in galera in perfetta salute sia crepato in poche ore.

Il processo per omicidio volontario è stato archiviato due volte sebbene ci fossero molti punti ancora da chiarire, come la profonda lesione al fegato rilevata in autopsia.

La tragedia di Aldo, pacifico ebanista che sull’Appennino umbro coltivava il suo pezzetto d’India fatto di canapa. Morì chiedendo invano aiuto. I suoi tre figli non volevano contentini. Sapevano che poteva essere salvato. Sanno che i consulenti del Pm si sono brutalmente smentiti sulle cause di morte. Che il tribunale non ha potuto disporre la perizia perché il pm ha ostinatamente negato la modifica del capo di imputazione. Ma ha vinto lui.

Aldo, pacifico ebanista torinese venuto sull’appennino umbro a cercare il suo pezzetto d’India, crepò per un’emorragia cerebrale detta subaracnoidea, una cosa che non è fulminante ma che si presenta come il più grande mal di testa della tua vita.

Omissione di soccorso e falso e omissione di atti d’ufficio perché la guardia non solo fece orecchie da mercante alle suppliche del detenuto ma perché trafficò coi registri, li truccò e, intorno a lui, l’amministrazione carceraria si sarebbe fatta bastare le voci di un complotto di detenuti contro la polizia penitenziaria o la più banale versione del campanello rotto per censurare l’imbarazzo di una morte lenta e violenta. Capanne, il carcere di Perugia, è così vicino a un buon ospedale che salvarlo non sarebbe stato impossibile. E la negazione del soccorso a una persona imprigionata altro non è che tortura, alla faccia dell’articolo 13 della Costituzione. «L’aver omesso la chiamata del medico per Bianzino (giuridicamente qualificata come omissione di soccorso e d’atti dell’ufficio) non poteva e non può essere scissa dalla morte di Aldo Bianzino – si legge nella memoria difensiva di Fabio Anselmo – La negligenza dell’imputato, che ha omesso di chiamare i soccorsi dopo la richiesta del detenuto, ha privato la persona offesa di una possibilità di salvezza e, tecnicamente, ne ha cagionato la morte. Il fatto di non avere certezze sul successo delle operazioni dei medici, impedite dalla stasi dell’imputato, non significa e non può significare che manca il nesso causale tra l’omissione e la morte».