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Ateneo “forcaiolo con gli studenti e garantista con i baroni”, Cua al 33

Gli studenti davanti al rettorato rilanciano la contestazione del G7 lavoro a Torino “per rendere indigesto il banchetto ai signori della disoccupazione”. E anche Hobo punta il dito contro “la miseria dell’ambiente accademico”.

27 Settembre 2017 - 18:37

“Questo pomeriggio ci siamo recati alla sede del rettorato universitario, in via Zamboni 33, per realizzare un presidio comunicativo e simbolico allo scopo di esplicitare energicamente il nostro punto di vista in merito ai gravi casi di corruzione endemica del sistema accademico e della ricerca di questo paese, saliti agli onori della cronaca negli scorsi giorni”. Così il Cua in un comunicato.

Prosegue il testo: “Premettendo fin da subito che, come abbiamo già scritto più volte e anche di recente, non saremo mai noi a gioire per interrogatori, perquisizioni o arresti di chicchessia, secondo una logica giustizialista e manettara che mai ci è appartenuta, riteniamo non di meno che gli eventi degli scorsi giorni necessitino di una presa di parola da parte di coloro che, come noi studenti universitari, con questa università corrotta deve farci i conti tutti i giorni. Riteniamo che il rettore Ubertini debba rendere conto di quanto è accaduto – e, probabilmente, continua ad accadere – sotto i suoi occhi, poiché il sistema corruttivo e illecito interno agli apparati universitari è da ritenersi, oggettivamente, responsabilità anche sua, nella misura in cui sarebbe suo l’onere di sorvegliare sul corretto funzionamento dell’istituzione che si trova a dirigere. Il fatto che non lo stia facendo, ma che anzi le uniche prese di parola ufficiali dell’Unibo, in merito ai gravi episodi raccontati dai giornali negli ultimi giorni, siano state di sostegno e solidarietà con i professori coinvolti nello scandalo, fanno del rettore Ubertini e della sua cerchia i degni punti di vertice di un sistema di casta, geloso dei propri privilegi e protettivo verso i suoi membri, anche di fronte alle loro peggiori nefandezze”.

Riteniamo altresì ulteriormente inammissibile, alla luce di quanto detto, l’atteggiamento tenuto dai vertici dell’Unibo in questi mesi, forcaiolo con i propri studenti, condannati senza processo a pesanti pene sulla base di semplici indizi di reato, e garantista con i baroni corrotti e corruttori. E’ necessario a questo punto constatare come il quadro emerso dall’intera faccenda e il bifrontismo dimostrato da parte dei vertici degli apparati universitari bolognesi in questa faccenda siano in perfetta linea con le direttive di questo governo, portate avanti dai suoi membri per mezzo di esplicite prese di parola dall’alto valore simbolico.

“Dal ministro dell’istruzione Valeria Fedeli – si legge poi – che ha recentemente attribuito la responsabilità del basso tasso di laureati alla scarsa lungimiranza delle famiglie a basso reddito, al ministro del lavoro Giuliano Poletti, i cui attacchi ai giovani e ai disoccupati di questo paese ormai non si contano più, le intenzioni del governo targato PD nei nostri confronti sono espresse ormai in modo sempre più esplicito: vogliono condannarci ad un futuro precario di rinuncia e sfruttamento. Proprio per questa ragione non possiamo più tollerare questo stato di cose, e per questo saremo in piazza a Torino nei prossimi giorni assieme a moltissime realtà del nostro paese, tra studenti medi, sindacati di base e giovani precari per contestare il G7 del lavoro che si terrà in quei giorni proprio nel capoluogo piemontese presso la reggia di Venaria. Invitiamo perciò tutti coloro che sono stanchi di credere alle promesse di questa classe dirigente corrotta di scendere in piazza con noi nei prossimi giorni, a fianco di tutte le realtà che saranno a Torino il 28, il 29 e il 30 settembre per rendere indigesto il banchetto ai signori della disoccupazione, miseria e povertà: questo G7 non s’ha da fa!”.

Sulla “miseria dell’ambiente accademico e dei suoi baroni” interviene anche Hobo, pubblicando il seguente testo: “C’era una volta, in una cittadella dentro un’altra città, un uomo piccolo piccolo. Indossava, insieme agli occhiali, una lunga parrucca dai boccoli argentati: i primi, vessillo di illuminata saggezza, acquisita – così pare – su tomi traboccanti leggi e condanne, torture e umiliazioni; la seconda, simbolo dell’intoccabilità della santa casta cui, orgogliosamente, si compiaceva di appartenere. Tutte le mattine, riflettendo l’immagine sacra sua nel magnifico specchio, donatogli dal suo superiore, si diceva: ‘E’ vero, questo volto da sorcio non sarà ciò che madre natura di meglio ha creato, ma questi occhiali e questa parrucca fanno di me il più bello di tutto il reame! Giovanni Luchetti, quanto sei bello!’. Un giorno, il temibile Ubertini, erede legittimo e diretto del pensiero cattotecnicista, e capo della banda che aveva preso il potere nella cittadella, decise di creare un Tribunale ad hoc per i misfatti che agitavano il reame. Il Temibile applicò ciò che il suo predecessore, insigne latinista che ora si aggira chino e schivo (a metà tra la depressione e l’oblio) tra i vicoli del reame, aveva pensato e istituito per contrastare i continui assalti ai palazzi del potere che avevano attraversato la sua reggenza. Giovanni ed altri illustri vennero nominati testimoni e sacri esecutori del Codice Etico. Arrivò l’ora di applicarlo. Giovanni, emerito giurista, nel gruppetto rappresentava la legge. Ad ogni sospensione, prima di emettere la sentenza, massaggiava con la sinistra i boccoli e, con la destra si aggiustava gli occhiali sul naso verso la fronte. In stato di estasi pensava: questi untorelli vanno puniti: ‘Colpevole!’, urlava. ‘Colpevole’ ripeteva. Ma venne il giorno. Una mattina si scoprì che i giudici togati di città, solitamente fedeli alleati del Tribunale della cittadella, decisero di mettersi di traverso: ammanettarono e rinchiusero tra quattro mura alcuni dei membri della banda che regnava nella cittadella. Tra il popolo la notizia non destò scalpore: abituati all’ingiustizia della legge nessuno gioì per la condanna. I giudici di città si erano spesso accaniti contro gli abitanti del regno, i quali erano abituati a non gioire né a soffrire a seguito delle loro pronunce”.

Prosegue il testo: “Lo scalpore, però, salì nervosamente tra i membri della banda. Giovanni, alfiere del Re, dovette stemperarlo. Si alzò sul piedistallo appositamente collocato nella pubblica piazza e arringò: ‘Non potete dubitare dei nostri occhiali e della nostra parrucca, essi sono il simbolo della nostra onestà e delle nostre capacità scientifiche!’. Nel sentire queste parole, un gruppetto di bambini e bambine, stupiti, si avvicinarono al piedistallo, dicendo: ‘Ma perché il mio papà viene punito da quell’uomo, e quello stesso uomo oggi, invece di punire chi ha rubato, lo difende?’. ‘Ma perché quest’uomo dice beni dei ladroni?’. A queste parole Giovanni, esperto uomo di banda, non trasalì. Non ancora. I bambini, sfuggiti dalle grinfie delle guardie, sgattaiolarono sul piedistallo e denudarono il barone dei simboli del potere. Uno di loro gli rubò gli occhiali e li indossò: ‘Ma con questi non si vede nulla’, disse; un altro pose la parrucca sulla nuca: ‘ma…questa capelli puzzano!’. Una donna urlò: ‘Guardatelo quant’è brutto!’. Giovanni, ormai nudo, impotente e spaventato dovette fuggire tra sputi, urla e sassi. Di corsa si diresse verso la sua lussuosa abitazione, aprì la porta e si precipitò allo specchio. Alla vista del suo riflesso si rese conto che, senza i preziosi orpelli del potere, la sua immagine cambiava. Nessuno lo rispettava; nemmeno lui si riconosceva più. La notte trascorse peggio del giorno: ripercorse passo per passo la scalata della sua banda, quindi la sua, verso il potere. Camminando all’indietro sull’impervia strada si accorse che ogni sorriso, ogni ‘sì’, ogni compito accettato supinamente derivava da quegli occhiali e da quella parrucca, e peggio, che ogni suo gesto o pensiero – l’amore e la sua concezione di giustizia – era asservito alla sacra legge impostagli dall’ambizione di poter decidere di essere lui la legge. Titubò Giovanni. La mattina seguente, ancora nudo, si guardò allo specchio: ‘Così non mi posso sopportare’, disse. Deglutì e scelse di indossare nuovamente la parrucca e gli occhiali di riserva che sempre teneva nel cassetto. Uscito di casa, inorgoglito dalla sua ritrovata bellezza, si ritrovò davanti alcuni uomini e alcune donne del regno. Nessuno aveva più paura. Nessuno desiderava più occhiali e parrucca”.