Attualità

Argentina / Fasinpat, autogestione e controllo operaio

Dall’Argentina la traduzione (a cura di Ilaria Camplone e Simone Tufano) di un articolo del mensile “Nuestra voz”, del Movimiento Popular La Dignidad.

15 Febbraio 2013 - 16:53

Ecco alcuni frammenti di una lunga intervista, realizzata dai redattori di Nuestra Voz, a due operai della Fasinpat: Elisa Sisterna, rappresentante della Commissione delle donne della fabbrica, e Raul Godoy, uno dei leader più carismatici della lotta per il recupero dell’impresa. Due testimoni che mostrano il percorso personale e collettivo dell’esperienza di autogestione dell’impresa, divenuta ormai esempio per un’intera classe lavoratrice colpita dalla crisi. 

Elisa Sisterna: dalla casa al lavoro, dal lavoro alla lotta

“Entrare nella fabbrica cambiò completamente la mia vita. Prima, chi lavorava nella Fasinpat era il mio ex marito; quando ci separammo andai ad una assemblea nella fabbrica a spiegare quale fosse la mia situazione, ed i compagni votarono affinchè io potessi entrare nella stessa per lavorarvi. Questo successe circa tre anni fa, in un primo momento mi resi conto solo dei benefici per me e per miei figli, soprattutto da un punto economico, dell’avere uno stipendio degno, insomma avevo possibilità che prima mi erano precluse. Successivamente iniziai a crescere anche come persona, partecipai alle riunioni della Commissione delle donne e appoggiai i compagni all’interno del sindacato. E’ una nuova forma di vivere, ti senti utile, senti che stai facendo qualcosa di buono per il prossimo. Attraverso le battaglie abbiamo ottenuto anche la possibilità di creare una scuola secondaria all’interno della fabbrica, l’anno prossimo inizieremo le lezioni. Nella mia vita sono cambiate molte cose, per questo difendo l’autogestione operaia (…)

All’interno della fabbrica ci sono sempre state poche donne, anche se ora siamo di più. Ma a noi toccano molte altre responsabilità, come la gestione della casa, dei figli, e questo rende più difficile l’entrare in politica o nel sindacato. Quando iniziò la nuova gestione dell’impresa, ossia da due anni, per la prima volta entrò nel consiglio sindacale una donna: prima la Commissione delle donne collaborava con i compagni per raccogliere alimenti, andare a parlare con la gente, spiegare la situazione, fare da mangiare, ripartire i viveri. Cose come quelle che si fanno in casa, ma ad un livello collettivo. Negli anni questo cambiò, entrarono nuove compagne che lottarono per i diritti di genere all’interno della stessa fabbrica, come per esempio un giorno dedicato alle donne, l’ora di permesso per allattare o per poter occupare posizioni lavorative che prima ci erano precluse: oggi ci sono donne che lavorano alla smaltatura, io sto lì per esempio. Non siamo molte, però ci siamo. E se anche si tratta di un lavoro un po’ più pesante, per certi versi lo sappiamo fare meglio, perchè abbiamo una cura differente per i dettagli. Oggi la Commissione delle donne fa molte altre cose: organizziamo dibattiti, spettacoli, collaborando con un teatro di un carcere femminile, aiutiamo i compagni del sindacato ed imponiamo all’attenzione di tutti i problemi di genere. Siamo cresciute moltissimo e questo non fa altro che generare altri stimoli”.

Dall’assemblea al sindacato, dal sindacato alla camera: percorsi per la comunità

“Quando cominciò il conflitto, nel ’98, sorse la necessità di recuperare, letteralmente, il sindacato, perchè in quel periodo c’era una forte burocrazia che finiva sempre per appoggiare i bisogni dell’impresa privata. Nel 2000 apparve la lista marrone che arrivò a vincere le elezioni sindacali (…). Il padronato aveva già iniziato a parlare di crisi economica, diceva di essere impossibilitata a pagare gli stipendi, eppure i lavoratori vedevano che non era così: sapevano cosa usciva dalla fabbrica, vedevano la mole di lavoro che si succedeva sulla linea e soprattutto vedevano partire camion pieni di prodotti. Così iniziò una sorta di controllo operaio della produzione (…). Nel frattempo i proprietari dell’impresa decisero di spostare la fabbrica in un altro luogo e iniziarono a mandare lettere di licenziamento. Qui però si sviluppa qualcosa di nuovo e sorprendente: i lavoratori rifiutano i telegrammi in arrivo e iniziano una resistenza attiva. Rimanemmo per quasi 5 mesi in attesa di una risposta da parte del governo o degli apparati di giustizia, anche perchè avevamo dimostrato che l’impresa non era in perdita. Ma come sempre succede per i lavoratori non arrivano mai le risposte. E poichè non si poteva continuare a sostenere la lotta creammo un fondo economico per lo sciopero, una cassa di mutuo soccorso, che serviva soprattutto per comprare i generi alimentari; anche se col tempo era comunque una situazione impossibile da sopportare. E quindi arriviamo al 2001 ed alla decisione di occupare la fabbrica per far ripartire la produzione”.

“La comunità ci diede una mano, anche per evitare lo sgombero tentato dalla polizia, ed anche quello tentato da alcuni militari e da una patota (gruppo paramilitare, nds) legato al sindacato patronale. Quello che implica la produzione operaia non è solo il produrre ma anche offrire una fonte di guadagno che sia degna oltre che dare servizi alla comunità stessa: per questo all’interno della struttura organizziamo attività sociali e culturali, collaboriamo con le scuole, coi centri di salute, con le famiglie. Per esempio abbiamo ricostruito una casa per un nucleo familiare composto da 5 figli che l’aveva persa a causa di un incendio, che tra l’altro aveva ucciso anche i loro genitori; abbiamo aiutato un bambino con gravi problemi di salute ad avere un posto degno in cui vivere e ci siamo occupati di pagargli le cure di cui aveva bisogno. Il nostro è un lavoro sociale”.

“Le decisioni si prendono in maniera assembleare, questa è la base dell’organizzazione. Il sindacato propone e la base decide, si mette tutto ai voti. Internamente ci sono i coordinatori della produzione e quelli per i diversi settori, infine abbiamo un coordinatore generale. Sono gli incaricati che si occupano di vedere i problemi di ogni settore e di porli in risalto agli altri coordinatori affinchè si trovino soluzioni condivise. Il sindacato deve essere consapevole di ogni problematica e farsene carico, così come la Commissione delle donne per i problemi di genere. Inoltre anche se si fa parte attiva di un sindacato questo non vuol dire che si vale più degli altri lavoratori ma solo che si deve avere una responsabilità maggiore. Tutti noi siamo lavoratori prima che sindacalisti, per statuto non possiamo poi esser delegati per più di tre anni, ma abbiamo chiara una cosa, che questa deve continuare ad essere la prospettiva di lotta (…)”.

“Arrivare ad ottenere un deputato è stata invece una lotta successiva e derivava dalla necessità di sviluppare ad un altro livello le tematiche nate da quasi dieci anni di autogestione, nell’ottica di proporre un cambiamento nella società: anche qui siamo organizzati a livello assembleare e le decisioni si prendono tutti assieme. Inoltre abbiamo deciso che più persone dovranno ricoprire quel ruolo, a rotazione (sul modello zapatista, nds) ci si deve dimettere per far spazio al secondo della lista”.

“Le proposte concrete che facciamo sono per i lavoratori, affinchè abbiano un salario migliore, pretendiamo condizioni degne di lavoro e di vita, una casa in cui vivere, salute ed educazione pubblica. In questa provincia manca solo la volontà politica, per questo i nostri compagni sono dentro al parlamento, questa è la nostra lotta (…)”.

Raul Godoy: dieci anni dopo

“Da cinque anni assistiamo ad una crisi storica e globale del modello neoliberista, e la vediamo ovunque, dalle rivolte popolari a Tunez agli scioperi generali in Spagna e Grecia, che hanno una presenza massiccia di giovani ed operai. Questa unità che si vede nelle strade è una risposta molto importante, mostra una forza sociale che ci fortifica. (…) In Argentina c’è una crisi latente ed un governo che negli ultimi mesi si dimostra sempre più brutale: attraverso leggi antiterroristiche, durissime repressioni, come quelle di Qom o del parco Indo-americano; così credo che bisogna dare una risposta unita e forte contro questo sistema di cose, con pratiche che siano alternative, classiste ed anticapitaliste”.

“Nella Fasinpat continuiamo a lottare, come dal primo giorno di occupazione. Ma in una maniera migliore. Abbiamo ottenuto una legge nazionale sull’espropriazione ed abbiamo continuato così, puntando all’essenziale: legittimarci, ottenere il riconoscimento della comunità, naturalizzare l’occupazione della fabbrica e la sua autogestione da parte degli operai (…). Mancano ancora troppi dettagli nell’applicazione della legge e ci sono ancora molte fabbriche recuperate che navigano in cattive acque: così dobbiamo serrare le fila e dare una mano ai compagni ed alle compagne, esigendo dal governo un salario minimo familiare e la copertura medica gratuita. Il recupero delle imprese è una conquista dell’intera classe lavoratrice nazionale, ma la lotta si deve sempre rinnovare, perchè è il simbolo di una realtà diversa divenuta possibile”.

“Quello che abbiamo visto in Argentina nel 2001 si sta ora vivendo su scala mondiale, e questo, per noi che ci consideriamo internazionalisti, che crediamo non esistano frontiere, ha un valore enorme. Parlare con compagni di altre parti del mondo e mostrargli che tutto questo è possibile, e che sono più di dieci anni che lo portiamo avanti, è il nostro piccolo contributo alla lotta. (…) Inoltre, come dirigente sindacale credo che sia giunta l’ora di farla finita con tutta questi burocrati del sindacato, ma è un lavoro che bisogna impostare dal basso, con assemblee di base, con congressi veri. E non si tratta solo della possibilità di farlo ma bensì della necessità di ottenerlo. I tempi sono quelli dettati dalla crisi e le vie d’uscita devono essere radicali. Su questa strada credo si stia assistendo ad un miglioramento: quello che dobbiamo fare è operarci per creare un orizzonte congiunto di lotta (…), basi solide ed infine darci un programma chiaro (…)”.

Un nuovo luogo di lotta

“Una delle sfide più interessanti è rappresentata dalla creazione di una corrente politica nazionale che sostenga l’indipendenza di classe. (…) Per questo abbiamo deciso di entrare nel parlamento, dobbiamo essere la voce dei lavoratori, continuare a confrontarci continuamente ad livello assembleare e plenario: sappiamo perfettamente che il parlamento è composto da un gruppo di banditi che pensa solo ai propri interessi e che difficilmente possono uscire leggi a favore della popolazione, però quello è un buon posto per far sentire le nostre ragioni, per essere il megafono delle lotte che avvengono in strada e dare battaglia su tutti i fronti. La chiave di volta sta nel non perdere l’organizzazione costruita fin qui, nel non perdere il confronto continuo e diretto, il contatto permanente, con la base rinnovandoci attraverso le pratiche assembleari (…)”.