Storia e memoria

Argentina / Default, ma non “rifiuto del debito”

Nuova corrispondenza dal Sud America dopo la sentenza di un giudice di New York che obbliga l’Argentina a pagare sia coloro che nel 2002 accettarono la rinegoziazione, sia coloro che le si opposero.

15 Dicembre 2012 - 12:37

I primi di dicembre il giudice Thomas Griesa,  della corte di New York, aveva stabilito che l’Argentina doveva rimborsare entro il 15 dicembre il 100% del valore nominale di titoli acquistati dal fondo speculativo del gruppo NML , il cui principale azionista è il noto finanziare statunitense, Paul Singer. L’edge fund (o “fondo avvoltoio”) di Singer è uno dei pochi che nel 2002 non ha voluto accettare le condizioni della ristrutturazione del debito sovrano seguita al default dell’Argentina.

Ma cosa accadeva nel 2002? Il Paese, in ginocchio socialmente ed economicamente, optava per il default con tre principali manovre:

1. Pesificazione della moneta, rompendo il cambio 1:1 con il dollaro. Questa manovra ha determinato la svalutazione del Peso argentino del 300% nei confronti del dollaro, con perdita di potere d’acquisto sui mercati internazionali, ma riappropriazione della politica monetaria e finanziaria;

2. Consequenziale svalutazione del 66% dei titoli di debito, che vengono così agganciati al Peso svalutato e non al Peso parificato al dollaro;

3. Posticipazione (swap) a 3 e a 10 anni del rimborso dei titoli di stato.

Default quindi per l’Argentina non ha significato “rifiutare il debito” (contratto in gran parte illegittimamente dalla dittatura prima e dal neoliberismo menemista poi), ma rinegoziarlo, principalmente dilazionandolo nel tempo e svalutandolo, ovvero cambiando il valore dei titoli da pesos equiparati a dollari a pesos svalutati dalla pesificazione.

Quando ero in Italia, pensavo al caso argentino come un esempio di “rifiuto del debito”, in un senso ampio, politico, direi epistemico. E’ invece nulla di tutto questo. Non è neanche un rifiuto parziale,  come è invece stato in Ecuador, dove si è analizzato il debito attraverso un audit pubblico e partecipativo e si è deciso di cancellare tout court la parte ritenuta illegittima, il famoso debito odioso.

In Argentina nel 2002 il 93% dei creditori ha accettato (furbamente) la ristrutturazione e infatti il 15 dicembre 2012 vedrà ricapitarsi a casa la seconda e ultima cedola, comprendente degli interessi indicizzati alla crescita del pil di questi anni. Conti alla mano, dopo 10 anni i creditori che accettarono la ristrutturazione recuperano oggi circa il 70% del valore nominale dei titoli, ovvero del capitale investito.

La sentenza della scorsa settimana del giudice newyorkese si basa formalmente sul principio del pari passu, secondo il quale possessori di bond dello stesso tipo non possono avere trattamenti differenti. Di fatto il giudice obbliga l’Argentina a pagare sia coloro che hanno accettato la rinegoziazione, sia coloro che le si sono opposti. La sentenza dice che se non si rispetterà quanto sentenziato, il tribunale bloccherà i pagamenti anche ai detentori dei bond ristrutturati. A quel punto scatterebbe un default tecnico da 24 miliardi di dollari, pari al debito emesso dall’Argentina tra il 2005 e il 2010.

Davanti alla guerra scatenatasi tra i capitalisti che avevano accettato la rinegoziazione (molti) e che si sarebbero visti bloccare i pagamenti, e i capitalisti dei fondi avvoltoi (pochissimi) a cui il tribunale di New York dava ragione, la Corte d’Appello USA si è affrettata ad annullare parzialmente la sentenza e chiedere intanto lo sblocco dei pagamenti dei titoli “ristrutturati”, rimandando al 27 febbraio 2013 il verdetto finale sugli edge funds.

Alla disputa si aggiunge inoltre l’attacco dell’agenzia di rating americana Fitch che all’indomani della sentenza taglia di ben 5 punti il rating dell’Argentina. Volano anche le quotazioni dei Cds (Credit default swaps) a 5 anni sul debito sovrano del Paese sudamericano (ovvero gli strumenti derivati che proteggono dal rischio di default) saliti a 4200 punti base mentre solamente a fine ottobre venivano scambiati a 1.000.

Ma l’argentina non andrà in default, troppi sono i potenti che da questa diatriba traggono profitti. Oltre ai creditori che accettarono la rinegoziazione, c’è il governo Argentino e il capitale “amico”, che proprio in questi giorni ha ottenuto una legge ad hoc: la “Ley de Mercado de Capitales”.

La legge, passata con maggioranza più larga rispetto a quella che sostiene il Il governo neo-keynesiano e neo-desarollista e di Cristina Kirchner, ha come principi l’idea che il mercato non si autoregola e che è necessario deviare i capitali dall’economia speculativa all’economia reale. Principi assolutamente condivisibili, ma vediamo come sarebbero implementati dal  governo.

La legge, che modifica la ley 17.811 del 1968, istituisce un pubblico registro per gli agenti di borsa, liberalizzandone l’attività e ponendola sotto il controllo di un organismo pubblico creato ad hoc: la Comisión Nacional de Valores (CNV), con funzione di registro, supervisione e sanzione dei mercati e degli agenti di borsa.

Come dice il ministro dell’economia Lorenzino: “La Borsa non scomparirà, l’idea è che abbia ogni volta più giocatori. La nuova normativa permette di “investire attraverso strumenti semplici ed economici, e finanziare le imprese attraverso l’emissione di obbligazioni e azioni” […] Lo Stato garantirà i risparmi/investimenti attraverso la maggiore regolazione operata dal CNV. […] La regolamentazione del mercato sarà in mano al governo, che avrà potere di attribuzione discrezionale.” Lo Stato quindi centralizza e controlla gli investimenti di Borsa.

Secondo una logica che gli è propria e che abbiamo visto applicare in larga misura nell’ambito delle politiche sociali, il Governo diviene così il principale “distributore” di benefici, in questo caso, il beneficio di operare in borsa, e quello di usufruire degli investimenti convogliati dallo Stato. Se fossi  un investitore insomma, mi metterei dalla parte del governo, così come se fossi un’impresa.

Se lo Stato fosse al servizio dei cittadini, nulla da obiettare, sarebbero delle misure che per lo meno provano a togliere spazio alla speculazione, benchè per comprenderne i veri effetti servirà osservarne il funzionamento nel tempo. Ma lo Stato in generale, lo Stato corporativo argentino in particolare, e soprattutto il governo Kirchnerista, hanno dimostrato da un lato di essere a disposizione di un gruppo ristretto di attori sociali compiacenti, che in cambio di benefici garantiscono una base clientelare per la sua riproduzione al potere, dall’altro di sostenere una politica economica basata sì sullo sviluppo, ma non umano, bensì del grande capitale agropecuario, agrochimico, estrattivista, asservito alla proprietà intellettuale e corporativo.

Sembra quindi che tutto il trambusto sollevato dal caso internazionale sia riuscito in fin dei conti a produrre una legge, molto meno dibattuta e pubblicizzata del caso internazionale in sè, che sembra voler cambiare tutto per non cambiare niente.

Ilaria Camplone (Centro Studi in Salute Internazionale, Università di Bologna)