Opinioni

Appunti sulla Grecia (e l’Europa) #2

L’ultimatum delle istituzioni europee, i diktat della Troika, il referendum greco. Raccogliamo e pubblichiamo nuovi contributi proposti da ∫connessioni precarie, Effimera, Dinamopress, Global Project, InfoAut, EuroNomade.

04 Luglio 2015 - 17:16

L’occasione del no. Sulla critica della democrazia del debito.

Editoriale (da ∫connessioni precarie; 4 luglio)

troika-zic-2Quanti no si possono dire in una domenica? Quale occasione rappresenta il referendum greco contro l’ultimatum delle istituzioni europee? Il referendum è stato un passaggio obbligato, dopo che, negli ultimi mesi, contro la pretesa greca di sottrarsi alla tirannia del debito, si è consolidata una vera e propria rivolta pro-slavery. Le élite europee – istituzionali, mediatiche ed economiche, conservatrici e socialiste – si sono coalizzate per dimostrare che una simile pretesa è tecnicamente insostenibile, ma soprattutto con l’intenzione di provare che essa è politicamente inammissibile. Gli assoggettati al debito devono stare al loro posto e subire le condizioni di salario e di reddito che le riscoperte «leggi naturali» del capitalismo riservano loro. Le settimane che hanno preceduto l’indizione del referendum sono state dominate dal tentativo sempre più plateale e volgare di delegittimare le pretese che il governo greco ha osato portare la tavolo delle trattative. Il carattere europeo e globale del referendum non è dato dallo scontro della Grecia con il resto d’Europa, ma dal tentativo di dare una lezione complessiva a chi pensa di potersi opporre alla tirannia della finanza. A questo punto in gioco non ci sono miliardi di euro, e non c’è nemmeno il nome della moneta con cui contabilizzare debiti e sacrifici. C’è il potere di decidere a favore di chi paga il prezzo più pesante della crisi.

Su questo terreno tutto politico, la Grecia non è però l’eccezione che si vuole descrivere. La Grecia è un caso tra gli altri. La differenza non sta nell’ammontare del suo debito, o nella sua sostenibilità, ma nel fatto che negli ultimi mesi ha colto l’occasione di dire no alle politiche dell’austerity. Il referendum è l’occasione per ribadire quel no. Più che la forma in cui ciò avviene è importante l’indisponibilità ribadita a sottostare a quelle regole. La legittimità della pretesa di non essere assoggettati all’austerità non dipende dalla maggioranza numerica di una figura immaginaria definita popolo. La vittoria del no non è temuta perché potrebbe riattivare la fede nella democrazia, ma perché imporrebbe un terreno di trattativa considerato abnorme. Non a caso, l’ineffabile Signor Schäuble, al quale non fa difetto la più brutale schiettezza, ha già chiarito che in ogni caso l’accordo sarebbe difficile se non impossibile. La vittoria del no deciderebbe però la scala sulla quale l’intera questione può essere articolata. Una questione finora confinata al piano greco ed europeo diventerebbe improvvisamente globale perché, diversamente da quanto accaduto in Argentina nel 2001, oggi non siamo solo di fronte al possibile fallimento di un singolo Stato. Oggi il rischio default riguarda molti Stati. Per non cadere in quel baratro o per non esservi gettati è obbligatorio subire quotidianamente le imposizioni di un potere che nessuno può davvero determinare. Milioni di persone vedono perciò in quello dei greci il loro possibile destino. Milioni di persone rischiano perciò di considerare una vittoria del no come una loro possibile futura vittoria. Ha colpito l’insistenza quasi ossessiva con la quale i mediatori greci hanno continuato ad affermare che l’accordo era prossimo. Continuano a farlo anche ora, annunciandolo come esito immediato del referendum. Questa strategia mira a interrompere una comunicazione che altrimenti sarebbe a senso unico, perché le autorità europee finora non hanno realmente trattato, ma solo enunciato le condizioni per la capitolazione della Grecia. Quella strategia, allo stesso tempo, legittima la presenza al tavolo delle trattative di una parte non prevista, minacciando di attivare un soggetto latente non solo in Grecia, ma anche nel resto d’Europa. Questa possibile e imprevista presenza giustifica persino la perdita certa dei miliardi prestati alla Grecia. Evitare quella presenza è ora il vero problema della Troika. Non si tratta più del debito o del modo in cui viene calcolato, la questione è ora farlo apertamente valere come irresistibile vincolo politico. Il debito non è una grandezza economica, ma la forma del comando politico esercitato su milioni di uomini e di donne senza distinzione di Stato e di confini. (continua)

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La Grecia non ha paura

Editoriale (da Effimera; 4 luglio)

“Il precariato deve operare per restringere il campo d’azione dei mercati finanziari. Questo non tramite l’illusione di una loro impossibile riforma, ma tramite la costruzione di un contropotere in grado di eroderne l’efficacia”.

Passati pochi anni da quando si scrissero queste parole che invitavano a “non avere paura del default”, ecco che, tra poche ore, la Grecia verrà chiamata a esprimersi sui termini non negoziabili dell’accordo che le è stato imposto dalle istituzioni dell’Eurozona. Porta con sé, dentro le urne, i pensieri e le speranze di tante e tanti abitanti d’Europa.

Molto abbiamo scritto, in questi mesi, cercando di ricostruire la difficile trattativa tra Eurogruppo e governo greco, sin dagli esordi sottoposto al ricatto di ciò che abbiamo chiamato “il terrorismo della Bce”; abbiamo cercato di ricostruire la verità (parresia) e la crudeltà dell’origine del debito greco e provato a smontarne la retorica imperante, analizzando nei dettagli la sua reale composizione; abbiamo fatto notare che molti punti indicati dalla plutocrazia europea fossero già stati accolti da Tsipras ; abbiamo spiegato, insomma, quali strade Atene abbia provato a percorrere, fino all’ultimo, per evitare la rottura, prospettando una dilazione dei tempi e una possibile chiusura onorevole del patto per entrambe le parti. In tutto questo percorso, la Grecia ha rappresentato un’opzione sinceramente riformista, dal nostro punto di vista forse fin troppo cauta. Eppure, essa è stata respinta e ritenuta “indecente” poiché si permetteva di mettere in discussione i principi di un potere tanto rarefatto quanto aggressivo.

A questo punto, poco resta da aggiungere, in attesa dell’esito di un verdetto dove ci auguriamo che le ragioni del NO prevalgano così da riuscire a imprimere una forma nuova al presente e da consentirci un’ipotesi di futuro.

Questa vicenda ci segnala la necessità di ripensare il nostro rapporto con l’idea stessa di Europa: abbiamo criticato con convinzione i princìpi dell’Europa di Maastricht centrati su una visione strettamente economicista cioè pesantemente condizionati, sin dagli esordi, dalle volontà di operatori economici, grandi imprese, gruppi finanziari, banche, eurocrazie. Tuttavia, abbiamo sempre ritenuto di poter combattere per modificare tale impostazione, insistendo sulla necessità di processi di integrazione prima di tutto politici e sociali che rispondessero a un bisogno diverso d’Europa, fondato su altri interessi, culturali, geopolitici, solidali. Oggi dobbiamo aggiungere: si tratta di una grande utopia? Resta innegabile che, in questo momento, sentiamo più ostile lo spazio europeo nel quale sembrano prevalere le previsioni unilaterali di grandi apparati totalitari, in diretta collisione con i desideri e le necessità delle persone nella vita e nel lavoro. Se analizziamo le modalità con cui è stata condotta la trattativa greca ed è stato vergognosamente “non gestito” il problema dei profughi che fuggono da paesi che la stessa Europa ha contribuito a destabilizzare, non riusciamo a farci illusioni. L’assetto attuale dell’Europa istituzionale pare inesorabilmente in direzione opposta da quella chesolo la nascita di un forte movimento sociale paneuropeo potrebbe imprimere. (continua)

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Atene, the day before

di Giansandro Merli (da Dinamopress; 4 luglio)

Manca soltanto un giorno al referendum indetto dal governo di Alexis Tsipras sull’accordo con la Troika. La capitale greca, dopo le grandi manifestazioni di ieri, appare oggi una città sospesa e divisa
Leggi anche L’insostenibile razionalità della Troika di VaneBix
Ci sono luoghi nel mondo dove la Storia sembra scorrere a un ritmo lento e rilassato. Ci sono cittá che cambiano verso l’alto, nella skyline, o sotto la scorza di una monotonia che si ripete.

Poi c’é Atene. Atene che cambia dentro. Atene della crisi, che ogni volta ti regala un dettaglio inedito, dietro cui si nasconde un significato piú grande, che a volte sfugge, a volte é chiaro. I ragazzini con le divise addosso e le armi in mano ad ogni angolo di Exarcheia, dopo la rivolta di dicembre 2008. I marmi divelti dei palazzi delle strade che confluiscono a Syntagma, a partire dal 2010. Centinaia di tossici che assediano il perimetro di Exarcheia, a ridosso delle elezioni di giugno 2012. Criminali robusti e vestititi di nero che minacciano con lo sguardo e con le mani, che torturano e uccidono, dopo l’ingresso in Parlamento dei loro camerati. L’entusiasmo inquieto e l’attesa preoccupata dopo la caduta dell’ennesimo governo, poche ore prima che la speranza dell’alternativa diventi fatto concreto.

Oggi Atene regala l’immagine di una cittá sospesa e divisa. Le macchinette della metro sono coperte da un cartello: ‘I trasporti pubblici sono gratuiti fino a nuova comunicazione’. Gli OXI e i NAI si alternano a singhiozzo sui manifesti che coprono i pali e i muri del centro e sulle copertine dei giornali esposti in ogni Periptero [edicole a chiosco, nda]. Nei bar affollati si legge, la carta stampata o le schermate degli smartphone, e si discute.

Questa é Atene, il giorno prima che la Storia si affacci di nuovo in cittá. Questa é Atene, il giorno dopo le piazze di chiusura della campagna referendaria. Piena quella per il sí. Strabordante, commovente, da brividi quella per il no. (continua)

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L’opportunità catastrofica del no

di Fabio Mengali (da Globalproject; 4 luglio)

“E’ un momento storico”, “non riesco ad immaginarmi cosa succederà”, “comunque vada, l’importante non è tanto domenica quanto la risposta che riusciremo a dare il lunedì”. Gli ateniesi, o almeno quelli più impegnati sul fronte dell’attivismo sociale e politico, pronunciano in parole diverse uno stesso pensiero. Il referendum di domani è un evento non scontato che non può non far prendere posizione, non schierarsi. Eppure, ogni volta che si entra in argomento, l’incertezza e la cautela riempiono i tono del discorso. Sia chiaro: non è che le persone non sappiano cosa votare. Così come soltanto una minoranza minoritaria – scusate il gioco di parole – pensa davvero di boicottare il voto di domenica, di non avvicinarsi alle urne per motivi ideologici o di tattica politica. E’ il caso del KKE, i comunisti, e di una parte del movimento anarchico sicuramente non marginale in Grecia. Non ci interessa riferirci qui a chi vuole difendere la propria identità o a chi per attitudine non vuole stare all’interno di processi veri perché contraddittori.

Il problema piuttosto è che il precipitare del tavolo del negoziato tra Grecia e istituzioni europee, l’ultima proposta di Tsipras, la consapevolezza che in gioco ci sia l’intero progetto comunitario europeo, ha inevitabilmente polarizzato la società civile. (continua)

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Dalla parte dei bambini (che crescono in fretta)

(da Infoaut; 4 luglio)

Molte cose sono state scritte e dette nelle ultime ore e negli ultimi giorni sull’ultimo capitolo di quella che è già passata alla storia come “crisi greca”. Non c’è più molto da aggiungere, dal momento che la posta in gioco è chiara, come evidenti sono i posizionamenti e gli interessi che si fronteggiano tra le piazze dell’Oxi e quelle del Nai.

Un buon punto di partenza per aggiungere qualche considerazione allo scenario attuale, sono forse le parole di Christine Lagarde, algida dirigente-capo del Fondo Monetario Internazionale che ha liquidato qualche giorno fa le istanze del governo greco in questi termini: “Ora l’emergenza è ristabilire il dialogo con gli adulti nella stanza”. Nonostante uno dei principali nodi della discordia ruoti intorno agli ulteriori tagli da fare sulle pensioni greche, lo scontro che oppone questa Grecia alla Trojka è già anche, e pienamente, un conflitto generazionale, tra un nuovo governo chiamato a rispondere degli sbagli dei propri genitori (il debito-colpa contratto da conservatori e social-democratici nella spensierata età dell’oro della finanziarizzazione facile) a nuovi e più tirannici patrigni. (Forse, ma vi accenniamo solo tra parentesi, è anche embrionalmente lo scontro tra due differenti composizioni di classe – generazionalmente segnate – all’interno del proletariato greco). Nella misura in cui la scelta dell’infanzia e dell’asolescenza è la scelta dell’ignoto, che comporta il rischio (contro il declino naturale e tranquillo della vecchiaia), quella scelta è preferibile perché più coraggiosa e aperta alla trasformazione. Essa va dunque sostenuta e difesa.

Nel momento in cui i media nostrani tratteggiano uno scenario apocalittico per la Grecia che sarà, non soltanto ci sentiamo tutti e tutte greche, ma proviamo un sincero sentimento di invidia per una popolazione che oggi si prende la libertà di scegliere il proprio futuro (Non perché domenica si decide il domani ma perché in qualche modo si comincia a decidere del domani). Quelle che seguono sono alcune brevi note, che non aggiungono niente ma che ci sembrava importante pubblicare. (continua)

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Un referendum per salvare l’Europa

di Marco Bascetta (da EuroNomade; 4 luglio)

Qualunque sarà l’esito della vicenda greca se ne possono già trarre numerosi insegnamenti. Per l’oggi e per il tempo a venire. Nonostante una martellante campagna mediatica che mira ad annoverare il governo di Atene tra i populismi antieuropei, affiancandolo alla Polonia o a Marine Le Pen (qualcuno ha voluto perfino scomodare l’impero d’Oriente e la fede ortodossa), quella greca è probabilmente la prima lotta democratica europea e per l’Europa alla quale abbiamo assistito. La prima volta in cui la tenuta dell’Unione viene affrontata nella sua dimensione politica, economica e sociale. E l’occasione nella quale è venuto pienamente in luce il rifiuto delle istituzioni e dei governi europei di fare i conti con questa “totalità”, nonostante gli enormi rischi che incombono sul processo di unificazione.

Il lungo processo negoziale tra Atene e le “istituzioni” non è stato che un esasperante gioco di finzioni poiché i dogmi, com’è noto, non sono negoziabili e l’Europa è prigioniera di una dogmatica neo-liberista che, per definizione, non può essere smentita dai suoi effetti nella realtà. Per quanto disastrosi possano rivelarsi. Soprattutto nella sua ultima fase la trattativa ha assunto i tratti inconfondibili della lotta di classe: i conti non devono tornare in un modo o nell’altro, ma solo mantenendo inalterati (e possibilmente ancor più squilibrati) i rapporti tra le classi sociali. Le correzioni del Fmi al piano proposto da Atene non mostrano il minimo sforzo di mascherare questa circostanza. Si ricorderà che in anni ormai piut- tosto lontani, nella tradizione socialdemocratica, le “riforme di struttura” indicavano una trasformazione in senso sociale e maggiormente inclusivo del sistema economico e politico. Oggi significano l’esatto contrario. Ragion per cui devono essere messe al riparo da possibili interferenze dei processi democratici. (continua)

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Karl Heinz Roth: un continente sull’orlo del baratro

di Beppe Caccia (da EuroNomade; 5 luglio)

«Per due volte nella sua storia più recente la Grecia si è trovata sull’orlo dell’abisso: durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato Dopoguerra, così come dopo la crisi economica mondiale del 2008/9 e fino a oggi, negli anni della depressione in corso.» Così apre Karl Heinz Roth il suo Griechenland am Abgrund. Die deutsche Reparationsschuld (per i tipi Vsa Verlag, Amburgo), agile opuscolo dato alle stampe nel marzo scorso, a due mesi dalla vittoria elettorale di Syriza.

Un testo da leggere proprio in queste ore, alla vigilia del decisivo referendum sulle proposte presentate dalle cosiddette «Istituzioni europee» ovvero la Troika, insieme al precedente volumetto, redatto nel maggio 2013 dallo storico tedesco insieme a Zissis Papadimitriou, sociologo e politologo all’Università Aristotele di Salonicco, e tradotto lo scorso anno in Italia da DeriveApprodi col titolo Manifesto per un’Europa egualitaria. Come evitare la catastrofe.

– Quella cupa tendenza

Allora si trattava di analizzare i tratti omogenei delle politiche dominanti la scena continentale, individuando i costanti effetti sociali dell’austerity implementata nei precedenti quattro anni: ritorno della disoccupazione di massa, generalizzazione del lavoro precario, smantellamento delle residue garanzie sociali e collasso dei diritti democratici segnalavano per Roth e Papadimitriou «la cupa tendenza» dell’Europa contemporanea.

Oggi l’attenzione torna sulla Grecia, assunta come caso paradigmatico delle conseguenze di quelle politiche e, al tempo stesso, specifica variante di cui vanno comprese fino in fondo le genealogie, fino al punto di individuare precise ricorrenze storiche. In questo senso, quello che può essere considerato uno dei più significativi esponenti dell’ «operaismo» di lingua tedesca articola in due momenti la sua lettura dell’attuale passaggio.

Innanzitutto delineando, a partire dalla puntuale descrizione del contesto socio-economico ellenico, una proposta finalizzata a sostenere su scala europea quella che definisce, in riferimento alla nuova stagione inaugurata dall’insediamento del governo guidato da Alexis Tsipras, «una ripartenza della Grecia». (continua)