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Aldrovandi, lo schiaffo della Cancellieri

La ministra Cancellieri usa il condizionale per parlare degli abusi gravi dei poliziotti nel caso Aldrovandi. E i genitori si ribellano e protestano. Ripubblichiamo un articolo di Checchino Antonini.

23 Giugno 2012 - 16:42

di Checchino Antonini da Globalist

Più prudente di così non si potrebbe: «Se ci sono stati, come sembrerebbe degli abusi gravi è giusto che vengano colpiti». Non sono bastati tre gradi di giudizio e sette anni di attesa straziante perché la ministra di polizia del governo tecnico si decidesse a utilizzare l’indicativo a proposito dell’omicidio di Federico Aldrovandi, diciotto anni appena compiuti, ucciso a Ferrara dall’eccesso colposo di quattro agenti incapaci e indegni, a pochi chilometri da dove la ministra sarebbe stata commissaria di governo, Bologna, proprio negli anni dell’inchiesta e dei primi processi. «Però mi piace anche pensare – ha voluto sottolineare la ministra da Venezia – che oltre ai poliziotti di Aldrovandi ce ne sono tantissimi che tutti i giorni rischiano la propria vita e si sacrificano per il Paese e lo fanno con grande dedizione». Per questo una ministra dovrebbe saper miscelare i verbi con maggiore perizia. Gli abusi gravi ci sono stati e sono stati così gravi da uccidere un ragazzo che non commetteva reato alcuno se non quello di tornare a casa a piedi dopo una serata con gli amici di sempre, quelli che sono sempre stati accanto alla famiglia per impedire che l’inchiesta fosse insabbiata.

Il giorno dopo che la Cassazione ha confermato le sentenze di colpevolezza per i quattro agenti, Patrizia e Lino si sarebbero aspettati qualcosa di diverso. «Perché usa il condizionale? – si sono chiesti in una lettera aperta alla Cancellieri – Francamente non comprendiamo le parole del Ministro dell’Interno». Una differenza abissale tra la “Tecnica del condizionale” e Giuliano Amato che divenne ministro di polizia pochi mesi dopo l’omicidio e che volle incontrare Lino Aldrovandi assicurando un comportamento attivo per giungere a un regolare processo. Quel gesto fruttò ad Amato una lettera inviperita dei sindacati di polizia – tutti eccetto il Silp – che, nella vicenda Aldrovandi come in altre storiacce prima e dopo – hanno avuto un ruolo quantomeno discutibile sposando senza riserve le versioni ufficiali della questura ferrarese smentite prima dalla controinchiesta dei legali della famiglia e dai tribunali poi.

«Quel condizionale, Ministro, è fuori luogo, inopportuno e poco rispettoso delle Istituzioni», ribadiscono i genitori di Federico. «Non può il Ministro dell’Interno mettere in discussione una sentenza passata in giudicato su una questione singola e specifica. Sono stati commessi abusi tanto gravi da provocare la morte di un ragazzo appena maggiorenne incensurato e di buona famiglia. Padre poliziotto e nonno carabiniere. Quel padre poliziotto e quel nonno carabiniere che appartengono alle forze dell’ordine di cui lei giustamente parla, hanno pazientemente aspettato sette anni di processo e tre sentenze per veder riconosciuta quella verità terribile che sempre hanno saputo. Auspicheremmo uguale rispetto da parte Sua». La firma: «Patrizia e LinoAldrovandi, genitori di Federico, morto per colpa di quattro poliziotti tuttora in servizio».

Nel silenzio della politica, si sente solo la voce di un partito fuori dal parlamento: «La vostra battaglia per avere giustizia e verità non è stata vana – scrive loro Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, il primo partito a schierarsi dalla parte di Federico anche allora – Ora però si lavori affinchè casi aberranti di questo tipo non succedano più. In primo luogo occorre modificare le leggi sulle droghe: il proibizionismo è all’origine della morte di Federico come di molti altri morti. Il proibizionismo è una barbarie che favorisce le mafie e i grandi spacciatori e concentra la repressione sui giovani. In secondo luogo occorre rovesciare il modo in cui sono addestrate le forze dell’ordine: sono troppi i casi di violenza su giovani per pensare ad incidenti. La formazione di tutti coloro che operano sul terreno dell’ordine pubblico deve essere finalizzata alla inclusione sociale e non alla repressione brutale».

A sentirsi confortati dalla sentenza sono i componenti della “famiglia allargata” di Federico Aldrovandi, parenti e amici di altre vittime della malapolizia che hanno imparato a conoscersi, a scambiarsi esperienze e solidarietà. «Sentenze come questa – dice ad asempio Giovanni Cucchi, padre di Stefano per la cui morte sono sotto processo alcune guardie carcerarie e alcuni sanitari – segnano una pietra miliare e speriamo facciano breccia. Chiunque può sbagliare, ma il riconoscimento della verità, delle responsabilità, è essenziale e può incidere sul clima esistente». La sentenza, che ha riconosciuto quattro agenti di Polizia responsabili di omicidio colposo, «crea, insieme alla sentenza Sandri – dice il papà di Stefano – un precedente, inclina quel discorso del muro di omertà che, erroneamente, a volte lo Stato si crea intorno». Quanto alla possibilità che i quattro poliziotti del caso Aldrovandi tornino a indossare la divisa, «ci dovrebbe essere una presa di posizione forte – secondo Cucchi – delle istituzioni, perchè questo darebbe il ‘là a un cambio di atteggiamento delle forze buone presenti, dando loro una spinta per trovare la forza di denunciare quel che non va». «Il rischio di rivederli all’opera c’è, per questo mi auguro vi sia un intervento delle istituzioni affinchè ciò non avvenga», dice anche Cristiano Sandri, il fratello di Gabriele, il giovane ucciso da un colpo di pistola sparato da un agente dopo una rissa tra tifosi in un’area di servizio sulla A1. A suo avviso il capo di accusa, per un episodio orrendo come quello di Federico, doveva essere di omicidio preterintenzionale. «Ma questo caso, è giusto ricordarlo, inizialmente ha rischiato addirittura l’archiviazione. Solo la battaglia condotta da familiari e amici di Aldrovandi ha fatto sì che le cose andassero diversamente».

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