Studentesse e studenti: “Le nostre occupazioni sono un gesto di protesta, sono la concretizzazione della nostra rabbia, nata dopo anni travagliati connotati da una pandemia che ha fatto traboccare un vaso già colmo di problemi”.
All’Istituto tecnico-professionale Manfredi-Tanari “la presidenza si è dimostrata ancora una volta repressiva nei confronti delle studentesse e degli studenti, minacciando di denunciarci e non rispettando le promesse fatteci ai fini di soddisfare le nostre richieste, per l’ennesima volta siamo state criminalizzate e sminuite”. Ne dà notizia Scuole in lotta.
Scrivono poi le studentesse e gli studenti: “Veniamo colpevolizzatə per i danni che sono emersi a seguito delle occupazioni, criminalizzatə e sminuitə in quanto ‘occupanti festaioli’ che seguono la moda, ma non è per questo che occupiamo. Occupiamo le nostre scuole perché due ragazzi sono morti a causa dell’alternanza scuola-lavoro, occupiamo perché i saperi nozionistici non ci bastano, occupiamo perché stanche e stanchi di una scuola inadeguata e inefficiente che ci opprime nel nostro quotidiano. Le nostre occupazioni non devono essere autorizzate, le nostre occupazioni non sono atti vandalici, le nostre occupazioni sono un gesto di protesta, sono la concretizzazione della nostra rabbia, nata dopo anni travagliati connotati da una pandemia che ha fatto traboccare un vaso già colmo di problemi. Le nostre scuole mancano di un sapere critico e di spazi in cui costruire un dibattito sull’attualità, presentano inadeguatezze strutturali inaccettabili. Negli ultimi decenni i fondi stanziati per la scuola sono stati in continua diminuzione, e nonostante le promesse di investimenti negli ultimi mesi, per l’ennesima volta è stata compiuta una scelta tra istruzione e guerra: abbiamo appreso di recente del taglio dello 0,5% dei fondi per l’istruzione in favore dell’aumento delle spese belliche per pagare una guerra che opprime i popoli con la morte e con il carovita”.
“La nostra rabbia continuerà a farsi sentire, non esistono buonə o cattivə, siamo un’unica rabbia nata da un modello di scuola che non ci appartiene”, si legge in conclusione