Mercoledì 11 marzo '09 alle 10.00 alla lapide di via Mascarella

11 marzo: memoria di un giorno di storia

Con Francesco Lorusso nel cuore. Anche quest'anno gli amici, i compagni e i famigliari di Francesco si ritrovano davanti alla lapide di via Mascarella, nel luogo dove il giovane studente di Lotta continua fu ucciso dalle pallottole sparate da uno o più carabinieri in quella mattina di marzo di 32 anni fa. Con questo articolo/testimonianza di Gabriele Giunchi (uno dei compagni più vicini a Lorusso, che vide Francesco morire), pubblicato su ZIC, nello speciale per il ventennale del "movimento del '77", vogliamo ricordare come andarono i fatti.

Gabriele Giunchi

Il luogo dove Francesco Lorusso fu ucciso l'11 marzo 1977

Chi si trova a possedere un segmento di verità vera in relazione ad un evento eccezionale ed é in grado di corroborarlo con informazioni precedenti e ragionamenti deduttivi, con elementi di casualità, con quella sensazione forte dell'incombere di un destino e con la sequela concatenata degli accadimenti che seguirono, non può che cercare di aggiungere il proprio tassello a quelli di coloro che assieme a lui si sforzano di ristabilire l'ordine delle cause e degli effetti prodotti da quell'evento, non può liberarsi della tensione di ricomporre una verità soddisfacente per trovar pace tra la fatica di chi non si rassegna alle amnesie e alle rimozioni di comodo.
Sono passati tanti anni da quei giorni di marzo durante i quali alla nostra verità relativa si contrapponeva una pretesa di verità assoluta che, unita allo stato d'assedio, agli arresti, alle insinuazioni più infami, rendeva impossibile ottenere giustizia e onore.
Oggi il tempo trascorso e l'evoluzione di problematiche sociali non del tutto dissimili a quelle che originarono il Movimento '77, ci consentono di rivisitare la verità senza la pretesa di guardarla dritta in faccia, come suggeriva Benjamin, ma meditandola per quel che di utile può insegnarci ancora.
Mi risolvo pertanto a riferire memorie nitide, senz'altro scopo che favorire una riflessione utile al nostro presente ostico e preoccupante. Sollecitato dall'attenzione dedicata dalla stampa locale al ventennale della morte di Francesco, dalla parzialità di tanti che dopo essere stati falchi si presentano come colombelle.
L'ultima cosa che mi aspetto é sperare in una giustizia postuma. La prima (e la sola), che si rifletta senza far uso eccessivo di naftalina in relazione a forme di pensiero, metodi di lotta, nostalgia di strutture organizzative oggi improponibili.

Francesco Lorusso in una manifestazione dei giorni precedenti alla sua uccisione

Francesco Lorusso durante una manifestazione poche settimane prima del suo assassinio

GLI ANTEFATTI
Una settimana prima dell'11 marzo vengo convocato in via ufficiosa dal dirigente della Squadra Politica della Questura di Bologna, Graziano Gori. E' persona che conosco bene poiché, essendo stato io membro della Segreteria cittadina di Lotta Continua, era a lui che indirizzavo le richieste per l'autorizzazione di manifestazioni e comizi. E' un "nemico" a cui riconoscerò sempre il merito della correttezza e con cui valeva il senso della "parola d'onore".
Mi comunica con toni preoccupati che, per decisione del Ministero degli Interni, vista l'esuberanza del Movimento e l'imprevedibilità delle sue iniziative, la gestione dell'ordine pubblico in città non sarà più competenza del suo Ufficio, ritenuto troppo "morbido con la piazza", e che tutto é rimandato da ora al Comando dei Carabinieri.
La decisione é stata presa a seguito di contrasti giudicati insanabili tra ipotesi repressive e di contenimento diverse. Mi si raccomanda pertanto, d'ora in poi, una maggior prudenza e un maggior autocontrollo. Ogni mediazione, conclude, non ha più possibilità di darsi.
Per quanto preoccupante, questa comunicazione difficilmente poteva essere riferita in modo efficace alle assemblee di Movimento, sempre animatissime e poco propense a raccomandazioni paternalistiche.
Sta di fatto che già in occasione dell'8 marzo si ebbe la prima avvisaglia del cambiamento di clima: un corteo di donne fu duramente caricato dalla Polizia e ci furono parecchie contuse. La perturbazione era in arrivo.

11 marzo 1977 - I fori dei proiettili in via Mascarella

11 marzo 1977 - via Mascarella, il luogo do ve Francesco Lorusso fu ucciso

Via Mascarella, il punto dove Francesco Lorusso fu ucciso


11 MARZO
Di quel giorno ricordo anche le nuvole e il colore del cielo. Verso mezzogiorno andai in piazza Verdi per pagare la quota necessaria a partecipare alla manifestazione nazionale prevista a Roma per il giorno successivo. C'era un banchetto e una bandiera rossa, si chiacchierava tra pochi, data l'ora.
Da Porta Zamboni giunsero le detonazioni tipiche del lancio di candelotti e il primo pensiero che mi colse fu quello di assistere in diretta ad una vera e propria "invasione di territorio", dato che fino a quel momento nessuna iniziativa repressiva aveva riguardato la cittadella universitaria.
D'istinto mi coprii il volto con un lembo della bandiera e corsi verso la zona degli scontri, incontro al fumo denso che si allargava.
Qualcuno mi disse che era inutile tentare di avvicinarsi da quella parte e si decise di provare a passare per via Bertoloni.
Mi bastò affacciarmi per capire che non era aria neppure lì: sul muro, all'altezza dei cavi della corrente elettrica, vidi distintamente le scintille prodotte da colpi di arma da fuoco. Già questo fatto costituiva una "prima volta", un innalzamento del livello di scontro.
Poi non ricordo perché, procedendo verso gli sbocchi successivi, si decise di non risalire via Centotrecento.
Ci trovammo infine in un piccolo gruppo - cinque, sei persone - a procedere per via Mascarella.
Qui, per una ragione che non so spiegare neppure ora (forse per rendermi più utile, forse per l'inesperienza a situazioni del genere essendo sempre stato "esonerato" dalla partecipazione a scontri con la Polizia in ragione del fatto che mi trovavo in regime di buona condotta per due sentenze definitive, forse per una strana forma di coraggio o.... di paura) decisi di fare corsa solitaria e parallela sotto il portico di sinistra.
Correndo, vedevo gli altri procedere verso via Irnerio. Uno di loro, portatosi in mezzo alla strada, tirò un sasso verso un gruppetto di carabinieri ma sbagliò clamorosamente la mira scheggiando il palazzo d'angolo.
Una sciocchezza, se non fosse che, dopo, quel segno diventò la "prova" che qualcuno aveva sparato anche da via Mascarella e alimentò l'assurda insinuazione che Francesco poteva essersi trovato al centro di un tiro incrociato e dunque poteva essere stato colpito dai suoi stessi compagni. Giunto a poco più di dieci metri dallo sbocco su via Irnerio vidi, in prossimità dell'incrocio un camion, del tipo di quelli dell'esercito, ed alcuni carabinieri: tutto sommato pochi, come pochi si era dalla parte di qua.
Poi non vidi più, per effetto di una prospettiva troppo obliqua, ma sentii i rimbombi secchi di otto - nove colpi almeno di arma da fuoco, in rapida successione.
Feci retromarcia immediatamente, così come facevano gli altri, parallelamente a me. Solo che loro portavano, ognuno per un arto, il peso di un corpo senza energia. Ci ricongiungemmo e ci fermammo davanti all'uscita posteriore di un cinema.
Francesco morì lì, tra sguardi sbigottiti, mentre gli rivolgevo parole vane.
Fermammo una macchina per tentare di raggiungere l'ospedale più vicino. Nel frattempo giunse un'ambulanza e caricò il corpo di Francesco, ma le facce degli infermieri non lasciavano speranze.
Andai comunque al S. Orsola per sentirmi dire quello che ormai era già tragicamente palese.
Seppi subito dopo che contro i carabinieri era stata lanciata una molotov, che Francesco aveva avuto il tempo di dire "mi hanno beccato" e di fare con le sue gambe circa dieci metri, fino al punto in cui cadde, dove poi fu posta la lapide.
Seppi anche che ad originare tutto era stato un diverbio e una scaramuccia tra qualche decina di compagni ed esponenti di Comunione e Liberazione riuniti in assemblea. Roba che in altri tempi si sarebbe risolta con due parolacce, qualche spintone e poco più.
Capii immediatamente che l'esautorazione dell'Ufficio Politico della Questura aveva acceso sulla strada una competizione esacerbata tra reparti della Celere e Carabinieri, quasi una gara efficientistica all'insegna della recrudescenza: visto il volume di fuoco prodotto, in condizioni che facilitavano la mira ad un tiratore (la prospettiva ad imbuto del portico), era persino possibile che i colpiti fossero più di uno...
Da quel momento fu chiaro ad ognuno che tutto sarebbe stato diverso.
Già nel primo pomeriggio, Piazza Verdi era piena di gente, ma il tono delle voci era sommesso. Si fece una rapida assemblea tra l'odore pungente della benzina: si decise di dirigere il corteo verso la sede della Democrazia Cristiana, l'Ufficio di rappresentanza del Resto del Carlino e la Stazione. Nessuno parlò di vetrine, nessuno fece niente per impedire che andassero distrutte. Certo, era inquietante il rumore dei tonfi dei vetri che andavano in frantumi ai lati del corteo: cascate di ghiaccio attorno a noi, che portavano nell'animo un gelo ben più grande.
Personalmente trovai offensivo che il servizio d'ordine del PCI presidiasse il Sacrario dei Caduti della Resistenza e trovai di gusto discutibile il saccheggio conclusivo del Ristorante "Al Cantunzein". Ma erano pensieri silenziosi: io non avevo fame.
Il giorno dopo, dal primo pomeriggio cominciarono gli scontri all'università. In mattinata venne rifiutata la parola ad un esponente del Movimento alla manifestazione sindacale: il cerchio di ferro si chiudeva. Per otto ore si resistette: sulle barricate verso sera suonava un pianoforte. Poi qualcuno decise e praticò l'esproprio dell'armeria Grandi: in tutta risposta arrivò una raffica di mitra ad altezza d'uomo. Per me la misura era colma.
Il giorno dopo ci svegliammo coi blindati in città e i tiratori speciali sui tetti. Cominciarono gli arresti di chiunque per strada formasse gruppi superiori a cinque persone e rifiutasse di disperdersi: così finirono dentro decine di tifosi del Bologna, venuti in centro in modo organizzato e circa 260 compagni. La detenzione di limoni era considerata sufficiente a dimostrare una volontà di resistenza. Radio Alice era chiusa.

Bologna 16 marzo 1977 - via Rizzoli, manifestazione dopo l'uccisione di Francesco Lorusso

Bologna, via Rizzoli, 16 marzo 1977, manifestazione in ricordo di Francesco Lorusso


DOPO MARZO......
Seguì lo stato d'assedio e il divieto assoluto di manifestazione. Seguì la teoria del "complotto" imbastita dal PCI per estirpare dalla sua città - simbolo il corpo estraneo di un movimento che aveva il difetto di essere nato contemporaneamente alla strategia del "compromesso storico" e di risultare indecifrabile e ingombrante per i criteri statici della loro lettura politica.
Nelle assemblee che seguirono si prese atto che quel processo straordinariamente innovativo che permetteva di tenere insieme differenze, devianze, soggetti diversi, in una convivenza certo non sempre idilliaca ma sostanzialmente tollerante, doveva omologarsi all'emergenza, far quadrato per difendere la propria identità senza degenerare.
Solo allora si diedero le condizioni perché qualcuno potesse definirsi con qualche approssimazione leader rappresentativo dell'intero Movimento, ma non ricordo nessuno fare gomitate per questo.
Sotto i banchi, sarebbe stato strano il contrario, apparvero i primi volantini delle Brigate Rosse.
Il resto é noto. Voglio ricordare solo due giornate emblematiche, assai diverse fra loro.
11 aprile. Nevicava e faceva freddo, quasi un presagio degli anni a venire. Venne concesso il permesso per un corteo da Piazza Verdi a Via Mascarella.
Non ricordo altre manifestazioni con così pochi sorrisi: il giudice Catalanotti iniziava, con un accanimento in sintonia coi tempi, la sua campagna di arresti ricorrendo alla bisogna anche alla testimonianza del suo stesso autista, tutt'attorno si respirava l'aria pesante delle delazioni e delle insinuazioni più squallide. Per un mese finì in galera anche il carabiniere M. Tramontani, accusato per l'assassinio di Francesco, ma la dizione "uso legittimo delle armi" prevista dalla legge reale, lo fecero volatilizzare.
1° magio. Su proposta di Graziano Gori (ancora lui) accettai di fare un tentativo estremo che appariva all'inizio una scommessa: firmare la richiesta di autorizzazione di un corteo da Piazza Azzarita a Piazza dell'Unità, assumendomene tutte le responsabilità in caso di incidenti. A lui serviva per dimostrare ai tanti detrattori che il dialogo col Movimento era ancora possibile e, con esso, un'altra impostazione dell'ordine pubblico in città, a noi per riacquistare visibilità e tornare in piazza.
Sfilammo in diecimila e sarà proprio Graziano Gori (che morì l'anno successivo in un incidente stradale che lasciò qualche dubbio...) a impedire che una manovra avventata di alcuni gipponi creasse un tremendo malinteso che poteva avere conseguenze imprevedibili.
Sembrerà strano a dirsi, ma l'unica tutela che avemmo in quel periodo ci venne da quel singolare poliziotto.
Quel giorno si sorrise e ci sgranchimmo un po' di più.
Ma in quei tempi il Comune uscì con una delibera che impediva a chiunque di sedersi sulle aiuole e sui gradini del sagrato di S. Petronio: ogni raffigurazione o apologia dell'ozio era bandita dalla città del doppio lavoro.
E tutte le sere, a mezzanotte si diventava tutti Cenerentola: la Polizia sgombrava Piazza Maggiore con cariche sincronizzate ai rintocchi del campanile. L'assedio continuava con altre forme.
Rimaneva il "pierino": un beverone che prendeva il nome da un vecchio gestore frastornato da tanto improvviso successo.
Rimaneva la volontà di difendere la propria agibilità politica ed espressiva. L'ultima occasione fu il Convegno di settembre. Dopo seguì il grande freddo.

Marzo 1997
Gabriele Giunchi