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“Università di pace o università di guerra?”

Il Cua dopo la contestazione di Panebianco: “Il sapere non è mai stato neutro, è fatto per prendere posizione”. E sulla libertà d’espressione: “Dall’Ateneo poca verve sui docenti turchi arrestati”.

24 Febbraio 2016 - 17:24

Università di pace o università di guerra?

Appunti del Collettivo Universitario Autonomo a seguito della contestazione di Panebianco di lunedì 22 febbraio.

“[…] Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi che, poverino, gli ha fatto solo la spia. Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento, oppure ride perché ha una missione. Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma – strano a dirsi – la Negazione assume i modi del Riso. Franti ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa”. (Elogio di Franti)

cuaE’ il 1963 quando Umberto Eco pubblica la raccolta di scritti “Diario minimo”. Tra i testi raccolti troviamo l’Elogio di Franti, dove Eco rilegge “Cuore” di De Amicis e nello specifico il personaggio di Franti. Il giovane che nel romanzo è visto sempre come il cattivo, tanto da venire pure espulso dalla scuola, viene rivalutato e visto come il contestatore del sistema in cui vive, un sistema fatto di pietoso paternalismo borghese. Per Eco la dissacrante risata di Franti è simbolo umano contrapposto ai pregiudizi borghesi di Enrico. E’ da qui che vogliamo ripartire.

Ma proviamo andare più indietro. Il 20 ottobre 1923 i quotidiani annunciano che appena nove giorni dopo sarà consegnata una laurea ad honorem al capo del governo Benito Mussolini. L’occasione è una visita a Bologna per il primo anniversario della Marcia su Roma. Ma arrivano i primi intoppi e Mussolini deve accontentarsi soltanto della cittadinanza onoraria. Tocca a Pasquale Sfameni, rettore dai primi di novembre 1923, proporre la laurea al Consiglio di facoltà di Giurisprudenza. Il voto dei docenti è unanime e giunge anche il benestare del Re. Ma la cerimonia salta di nuovo. Il 7 novembre 1924 Mussolini comunica che il conferimento è rinviato sine die. Non ci interessa qui affrontare i motivi del rifiuto. Facendo un salto avanti nel tempo il diploma di laurea a Benito Mussolini rispunta fuori con il rettore Goffredo Coppola. Il 1° aprile 1945 Coppola scrive: “Il diploma di laurea ad honorem che il Duce rifiutò di accettare e che però non fu né datato né firmato è stato ritirato dal sottoscritto per conservarlo come ricordo”. Il professor Goffredo Coppola, docente di greco e latino e rettore dell’Università di Bologna nel periodo della Repubblica Sociale, direttore del mensile Civiltà fascista e presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista è tra i gerarchi fucilati a Dongo il 28 aprile dai partigiani e impiccati a piazzale Loreto con Mussolini.

Una riflessione critica sul presente deve sempre avere una dimensione genealogica, e partire da questi aneddoti pensiamo sia utile per mostrare come l’Università non sia (mai stata) un territorio neutro, una Torre d’avorio della cultura come feticcio positivista. Da sempre è anzi terreno di scontro e di contesa politica. L’università e il sapere non sono, non sono mai stati, neutri. Come diceva Michael Foucault, «c’est que le savoir n’est pas fait pour comprendre, il est fait pour trancher». Il sapere è fatto per prendere posizione, per “tagliare”, evidenziare i campi e gli schieramenti. Ci sembra quindi ridicolo il coro unanime che de facto stigmatizza la possibilità di un’espressione critica all’interno delle aule universitaria. Il professor Panebianco non nasconde le sue posizioni in merito ad un dibattito che si fa sempre più insistente e ai tamburi di guerra che con sempre maggiore forza suonano. Posizioni che entrano dritte in quelle aule, e da quelle aule vengono amplificate. Ed è in quelle aule, quindi, che rivendichiamo di poter contrapporre con forza un altro punto di vista.

Dopo la contestazione di lunedì 22 febbraio, da destra a sinistra, tutti si sono affrettati a condannare l’episodio e a parlare di attacco alla libertà di espressione. Il rettore Ubertini parla addirittura di soppressione di quest’ultima. Certo non ci sembra che il Rettore, quando la libertà di espressione è stata seriamente soppressa, come per i docenti turchi arrestati dal regime di Erdogan con l’unica colpa di aver firmato un appello in sostegno al popolo curdo, si sia espresso con tanta verve. Qualche accademico la forza di denunciare e schierarsi al fianco dei docenti turchi l’ha trovata. Ma non è un caso che tra questi non spicchi nessuno dei nomi che abbiamo visto lagnarsi per la presunta soppressione della libertà di espressione nei confronti di Angelo Panebianco. Quando la libertà di ricerca viene torturata e uccisa come con Giulio Regeni in Egitto non si sente levarsi nessun coro di condanna. Cos’è, quando ci sono interessi economici in ballo la libertà di espressione non vale più?

Ma questa accusa suona ancora più irricevibile dinanzi al fatto che ormai da qualche decennio Panebianco è editorialista del Corriere della Sera, oltre ad avere altri molteplici pulpiti da cui poter parlare senza contraddittorio. Dire che questa contestazione attacca la libertà di espressione è dire una falsità. Non di negazione si tratta, bensì di una presa di posizione che sia all’altezza della sfida politica che Panebianco pone in essere con il suo editoriale e le sue posizioni guerrafondaie.

Il “pensiero critico”, quello di cui tanti si stanno riempiendo la bocca in questi giorni, dopo la morte di Eco, non è dunque solamente un aspetto da lasciare all’interno di scritti e bibliografie. Non è al solo pensiero che ci si può limitare: solo tramite l’agire si può esprimere tutta la valenza della critica. Una critica che nasce dalla realtà che viviamo per provare a cambiarla.

Se l’università, come nel caso sopracitato, viene gradualmente ridotta ad amplificatore del monologo del potere, che negli ultimi mesi si traduce nell’inquietante propaganda guerresca, noi non possiamo stare a guardare. Assumendoci il rischio di assomigliare un po’ troppo all’incompreso Franti di Umberto Eco, siamo convinti che ogni spazio di contestazione rispetto a coloro che approfittano dell’asimmetria di potere conferita dalla cattedra per propagandare i loro sporchi messaggi non sia solo legittima, ma vada anzi approfondita. Anticorpo sociale rispetto ai difensori di guerre utili solo al “mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa”.

Per questo invitiamo a partecipare all’assemblea di giovedì alle 16, in cui discutere di questi temi e organizzare un presidio per l’inaugurazione dell’Anno accademico per saperi contro la guerra e contro le frontiere, contro la collaborazione con le pratiche di apartheid di Israele (riportiamo qui l’appello al boicottaggio firmato da oltre 300 accademici) e con le multinazionali della guerra (Eni e Finmecanica), al fianco di chi resiste in Kurdistan, contro la guerra e i confini.

Contro i tamburi di guerra portiamo il suono della realtà nelle aule delle nostre università!

Cua