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Tunisia / Ben Alì, un despota in fuga

Nella serata di ierì il presidente è fuggito da quella Tunisia che, grazie all’appoggio occidentale, ha governato con il pugno di ferro dal 1987.

15 Gennaio 2011 - 18:19

di Michele Paris da Altre Notizie

A nulla sono servite le promesse dell’autocrate tunisino Zine el-Abidine Ben Ali per placare la crescente rabbia popolare che da poco meno di un mese a questa parte ha sconvolto il paese nord-africano. Nella serata di ierì il presidente è infatti fuggito da quella Tunisia che, grazie all’appoggio occidentale, ha governato con il pugno di ferro dal 1987. I drammatici sviluppi della situazione in Tunisia minacciano di diffondersi ora ad altri paesi del Maghreb e del Medio Oriente, dove negli ultimi mesi si sono moltiplicate le proteste di popolazioni costrette a vivere in condizioni sempre più precarie sotto regimi autoritari.
Dal cuore del paese, la rivolta contro il governo di Ben Ali nei giorni scorsi aveva rapidamente raggiunto la capitale, Tunisi, e le località balneari della costa settentrionale. Alle manifestazioni scaturite per l’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di prima necessità, per la corruzione e la disoccupazione dilagante, il presidente aveva risposto dapprima con la dura reazione delle forze dell’ordine, causando svariate decine di morti, e più recentemente promettendo una svolta per il paese.
In un disperato appello alla nazione, giovedì scorso Ben Ali aveva provato allora a placare la folla di studenti, operai, giovani disoccupati, professionisti ed esponenti della piccola borghesia tunisina, esclusi dalla spartizione delle ricchezze del paese, promettendo una svolta imminente. L’annuncio dell’abbandono della presidenza al termine del suo attuale mandato nel 2014, il ristabilimento dei sussidi ai prezzi dei generi alimentari, il licenziamento del ministro degli Interni, il rilascio di tutti i manifestanti arrestati nei giorni precedenti, le promessa di cancellare ogni censura all’utilizzo della rete e di creare 300 mila nuovi posti di lavoro, non hanno tuttavia sortito alcun effetto.
Ancora, l’ultimo tentativo di Ben Ali era stato lo scioglimento del governo e l’impegno di indire elezioni anticipate entro pochi mesi. A quest’ultimo comunicato è seguita poi la dichiarazione dello stato di emergenza con il divieto di nuove manifestazioni. L’ondata di ribellione contro un regime che sfrutta il paese e i suoi abitanti da oltre due decenni, arricchendo una ristretta cerchia che gravita attorno alla famiglia del presidente, non si è però fermata. Gli scontri nella capitale e altrove sono proseguiti e alla fine il 74enne presidente ha lasciato il paese, come già avevano fatto i membri della sua famiglia nei giorni scorsi.
A dare per primi la notizia della fuga di Ben Ali sono stati i diplomatici francesi in Tunisia. Secondo la Reuters il presidente sarebbe diretto proprio nell’ex potenza coloniale, anche se da Parigi hanno fatto sapere di non avere ancora ricevuto alcuna richiesta di accoglienza da parte dell’ormai ex presidente tunisino. Solo nelle prossime ore si conoscerà quindi l’approdo momentaneo o definitivo del despota tunisino. A Tunisi, intanto, le funzioni presidenziali sono state assunte temporaneamente dal primo ministro Mohamed Ghannouchi, il quale in diretta televisiva ha lanciato un appello all’ordine per cercare di evitare un ulteriore aggravarsi delle tensioni sociali nel paese.
La rapida fine di Ben Ali appare per certi versi clamorosa e segna per la prima volta la rimozione di un leader arabo in seguito ad una sollevazione popolare. Se la Tunisia condivide una situazione a tratti simile a quella di altri paesi arabi, guidati da regimi oppressivi e impopolari appoggiati dalle potenze occidentali, allo stesso tempo sussistono alcune peculiarità importanti.
A differenza della maggior parte dei paesi vicini, la società tunisina appare relativamente secolarizzata, così che il catalizzatore dell’opposizione al governo non è rappresentato dalla religione islamica. Il livello di scolarizzazione è poi piuttosto elevato, così come l’urbanizzazione, due elementi che spiegano le maggiori aspettative di una popolazione sempre più frustrata dalla mancanza di opportunità lavorative e di un futuro dignitoso.
Ciononostante, nei palazzi del potere di paesi come Algeria, Marocco, Libia, Giordania e, soprattutto, Egitto, in molti devono aver sentito un brivido lungo la schiena all’arrivo della notizia della fuga di Ben Ali. Quasi ovunque nell’ultimo periodo l’aggravamento della crisi economica e l’impennata dei prezzi a causa della speculazione internazionale ha già causato rivolte più o meno gravi tra la popolazione. L’esempio tunisino del rovesciamento di un regime autoritario ritenuto sufficientemente solido, anche grazie alle protezioni occidentali, potrebbe aver abbattuto una barriera psicologica nel mondo arabo, propagando i propri effetti altrove nel prossimo futuro.
In Europa e negli Stati Uniti, invece, l’imbarazzo risulta palpabile in seguito agli sviluppi della realtà tunisina. Per Washington, infatti, dittatori o semi-dittatori come Zine el-Abidine Ben Ali continuano ad essere considerati alleati fondamentali contro il diffondersi del radicalismo islamico e per tenere a freno le richieste di democrazia e di giustizia sociale provenienti dagli strati più disagiati della popolazione.
Ironicamente, la caduta del presidente della Tunisia è giunta poche ore dopo che il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, nel corso di una conferenza a Doha, in Qatar, aveva messo in guardia i leader arabi da possibili rivolte interne in caso di una mancata liberalizzazione dei rispettivi paesi.
Con una situazione ancora estremamente fluida, resta da vedere ora se e quali sbocchi troveranno le più che legittime aspirazioni di quei tunisini che sono scesi in strada in tutto il paese nell’ultimo mese. Le élite legate a Ben Ali saranno infatti ben poco disponibili a cedere il potere, mentre le opposizioni appaiono deboli e divise da due decenni di puntuale soppressione del dissenso interno. Un regime che sopravvive al suo inventore?