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Speciale / La War of lunch e la sua sostenibilità

Dietro la vertenza sulla mensa una lunga storia di lotte. Ma la “city of food” che sfilerà a New York non affronta il tema: avanti così e la sfoglia dei tortellini sarà tirata con lo sfollagente.

07 Novembre 2016 - 12:42

vassoiCome mai la città che viene considerata la capitale del cibo e della sostenibilità alimentare non ce la fa, se non con i manganelli, ad affrontare una comprensibile vertenza lanciata da un collettivo studentesco per la riduzione del prezzo della mensa universitaria?

Perché, sotto le Due Torri, tutti se ne stanno allineati e coperti nel sostenere la giustezza di una città blindata? Con il segretario del Pd che scimmiotta la caricatura del commissario di Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e grida che “la repressione è civiltà”. Con un questore che promette che verranno ripetuti i deliri di alcuni giorni fa in via Irnerio e un sindaco che applaude alla perizia della polizia nella gestione dell’ordine pubblico.

Avanti di questo passo e lo slogan con cui, nel 2017, si apriranno le porte alla city food di Fico sarà il vecchio adagio “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”. E la sfoglia per fare i tortellini continuerà a essere tirata a mano, ma, per avere il marchio doc, invece di usare il mattarello sarà obbligatorio lo sfollagente.

La cosa più sorprendente in tutta questa vicenda che vede fronteggiarsi il collettivo Cua, l’Azienda per il diritto allo studio ErGo, il gestore privato Elior e il rettore dell’Università, è che nessuno della città ufficiale si sia fatto avanti per spiegare le ragioni per le quali uno studente bolognese che mangia alla mensa di piazza Puntoni debba sborsare il doppio o quasi dei suoi omologhi del resto d’Italia. La richiesta di abbassare il costo del pasto a tre euro, avanzata dagli studenti che stanno portando avanti la mobilitazione prendendo come indicazione il costo medio a livello nazionale, è come minimo ragionevole.

Quali sono i motivi per cui la mensa dell’Ateneo di Bologna è tra le più care d’Italia?

L’accesso alla mensa e i suoi relativi costi non è una questione di lana caprina, per questo diritto, in passato, si sono fatte lotte durissime e non solo tra gli studenti.

Basterebbe avere un po’ di memoria storica (materia abbastanza rara di questi tempi, quasi come il buon senso) per rendersi conto che quella che si sta svolgendo nella cittadella universitaria è una lotta opportuna ed è probabilmente per questo che viene contrastata e repressa con tanta durezza.


Le lotte per il diritto alla mensa

Ci piace ricordare che, nel novembre 1943, i grandi scioperi operai che aprirono le porte alla Resistenza contro i nazifascisti, iniziarono a svilupparsi su contenuti rivendicativi molto concreti. Oltre a forti aumenti salariali, nelle piattaforme di lotta le “richieste alimentari” avevano una grande rilevanza: aumento delle razioni di grassi, olio e zucchero, con distribuzione in azienda, creando spacci aziendali per lo smistamento di viveri e indumenti; aumento della razione giornaliera di pane a 500 grammi; servizio mensa aziendale con due piatti (primo e secondo), per tutti i turni di lavoro.

Dopo la Liberazione, negli anni ’50, in tutto il Nord Italia le fabbriche si fermarono diverse volte per ottenere un “mensa dignitosa”. Per la conquista di questo obiettivo lasciarono il segno gli scioperi dei metallurgici nel 1956 a Bologna.

Nel 1968 si era ancora lì a lottare per l’indennità sostitutiva di mensa. Il conflitto sociale si radicalizzò dopo il giugno del 1968. Nella nostra città fece scalpore la lotta delle operaie della camiceria Pancaldi che, poco dopo lo sciopero del 12 giugno, organizzato per ottenere l’indennità di cottimo e di mensa, passarono all’occupazione della fabbrica, fino a risultato ottenuto.

Nei primi anni ’70, in tutte le vertenze aziendali della cosiddetta “contrattazione articolata”, uno dei punti dirimenti delle piattaforme operaie era il diritto alla mensa in fabbrica.

Sempre in quegli anni, oltre al settore manifatturiero, anche in edilizia ci furono parecchi scioperi per la mensa di cantiere. Fino ad allora, muratori e manovali riempivano la gavetta (o la schiscetta o il baracchin o il tegamino) con il cibo cucinato a casa la sera precedente. Nelle aziende, soprattutto piccole e medie, veniva spesso allestita una sorta di cucina da campo: in un angolo con una specie di bacinella metallica o un pentolone riempito d’acqua fino a metà e con a fianco una bombola di gas e un fornello. Prima della pausa per il pranzo, un operaio a turno infilava le schiscette dentro il contenitore e accendeva il fuoco per scaldare le vivande a bagno-maria.

Fu un periodo lungo che andò dalla ricostruzione del secondo dopoguerra agli anni Settanta, la stato delle cose cambiò dopo quei lunghi anni di lotte: si arrivò a una situazione di ristorazione collettiva nella maggior parte dei posti di lavoro.

Poi, negli anni ’90 una parte di quelle mense furono smantellate, altre vennero esternalizzate, soprattutto nei settori impiegatizi il diritto al pasto per i lavoratori fu riconosciuto attraverso i cosiddetti “buoni”, da utilizzare, durante la pausa di metà giornata, in bar, pizzerie, trattorie o fast-food.


Il diritto al pasto non più garantito

Una statistica di qualche anno fa indicava che, tra i lavoratori occupati, il 18,7% mangiava nella ristorazione collettiva, cioè nelle mense aziendali, mentre il 68,1% utilizzava i buoni pasto e si rivolgeva alla ristorazione commerciale.

Nell’ultimo decennio, con l’aumento dei processi di precarizzazione, con l’estensione del lavoro nero a vari livelli, in molti casi, per queste tipologie di lavoratori non è riconosciuto il diritto o l’indennità sostitutiva alla mensa. In più, con la crisi, anche per chi lavora con continuità, i magri salari hanno sempre meno valore e non riescono a reggere l’inflazione reale, le spese aumentano in ogni comparto e la crisi morde anche nel settore alimentare e, in molti, i buoni pasto li usano per fare la spesa abituale.

E così, fra chi lavora e mangia fuori casa, torna l’uso della gamella, nella versione moderna del contenitore e della vaschetta di plastica o del cosiddetto “lunch box”. Solo che la schiscetta oggi non la portano soltanto i manovali, i muratori o gli operai. Anche i moderni servi della gleba ne fanno abbondante uso, privati come sono dei tanto agognati buoni pasto, a causa della tirchieria del loro datore di lavoro.

Pure il rito della pausa pranzo è stato sconvolto. Ci hanno pensato la crisi e il carovita. Sarà per questo che capita di vedere, sempre di più, in un giardino o sulla panchina di una piazzetta, uomini e donne, ragazzi e ragazze mangiare, a metà giornata, un panino o degli alimenti acquistati in un mini market o in un negozio gestito da stranieri. Altri si portano il cibo da casa e lo giustificano anche come “scelta di vita”, vista la pessima qualità del “cibo veloce”. Quante volte infatti ci si trova davanti a paste scotte, pesanti, panini farciti chissà quanto tempo prima con improbabili prosciutti plasticosi o, ancora, a insalate dai colori poco rassicuranti? Tante… troppe e, così, essendo a corto di soldi e di prospettive, ci si arrangia da soli, come si può.


Le lotte degli studenti

bologna-e-i-movimenti-giovanili-degli-anni-80-e-90-9-200x300Dopo questo excursus sulle lotte dei lavoratori giriamo l’obiettivo verso il movimento degli studenti. La questione della gratuità della refezione venne posta dai collettivi studenteschi degli istituti tecnici e professionali, tra il 1969 e il 1971, all’interno di un discorso più generale sui costi della scuola.

Con l’avvento dell’università di massa dei primi anni settanta, il tema della mensa è dei suoi costi divenne centrale in tutte le lotte studentesche. Per le migliaia di studenti fuorisede, non più solo figli di borghesi e di benestanti, la questione del mantenimento agli studi era tra le più sentite. Da lì passava il diritto all’accesso agli studi universitari per tutti.

Nelle mense di piazza Verdi, di via Barberia e di via Centrotrecento si susseguirono momenti di lotta e di autoriduzione contro il costo dei pasti, già allora tra i più alti nel panorama degli atenei italiani.

Del movimento bolognese del ’77, oltre all’assassinio di Francesco Lorusso, si ricordano i lunghi cortei che sfilavano per le vie del centro storico; le innumerevoli e fumose assemblee a Lettere, a Fisica e Magistero, dove si discuteva a oltranza; le scritte ironiche sui muri delle facoltà e i murales sotto i portici di via Zamboni e dell’Accademia di Belle Arti; la cittadella universitaria, luogo “conquistato” e “liberato”, con piazza Verdi che ne era il cuore; le ore passate ad aspettare il proprio turno nel lungo serpentone, della fila all’Opera della mensa universitaria, alle Scuderie di Palazzo Paleotti; le occupazioni della mensa stessa e l’autogestione della distribuzione dei pasti a prezzo politico, fatta con l’aiuto dei lavoratori; le incursioni degli autoriduttori nei ristoranti di lusso al grido di “diritto al lusso… paga Andreotti”.

Per tutti gli anni successivi, ogni stagione di movimento si apriva con una lotta sul tema della mensa.

Ma fu nel 1988, con l’avvento del movimento della Pantera, che la lotta contro la privatizzazione della mensa universitaria, escogitò una forma di protesta che passò alla storia. Gli studenti lasciarono vassoi ovunque, in viale Berti Pichat, in piazza Verdi, sotto i portici di via Zamboni. Alla fine ne uscì pure una specie di installazione.

Da allora a oggi, autoriduzioni, occupazioni, scioperi del vassoio si sono ripetuti nel corso degli anni, nella promozione si sono alternati collettivi universitari vari: una volta c’erano le tutte bianche un’altra i no global, poi ci sono stati la Rete Universiatria, il Drago Cinese, diversi collettivi autonomi, Mario Precario e Santa Insolvenza, oggi c’è il Cua.

Molti di quei ragazzi sono diventati grandi, parecchi, da genitori, hanno organizzato gli scioperi delle pappe dei loro figli. Quello del maggio 2014 ha lasciato il segno più degli altri. Ce l’avevano con l’amministrazione comunale per le tariffe troppo care e la scarsa qualità della refezione scolastica e con Seribo (l’azienda che gestiva il servizio), accusata di non reinvestire in maniera adeguata i propri utili per migliorare la qualità dei centri pasti.

Denunce, intimidazioni poliziesche, condanne giudiziarie, reiterati biasimi delle forze politiche e delle istituzioni hanno accampagnato parallelemente questi percorsi. Mai però, da parte della questura e dei suoi agenti, si era arrivato ai livelli di durezza e di prepotenza delle scorse settimane.

Oggi, chi governa a Roma come a Bologna il conflitto sociale lo vuole annientare, pertanto non devono stupire le continue e quotidiane aggressioni poliziesche, che avvengono in tutte le parti d’Italia, contro chi scende nelle piazze e nelle strade per protestare.

Fra poco, a metà novembre, il sindaco Virginio Merola andrà a New York, al ristorante di Oscar Farinetti, per presentare il progetto di Fico, quella disneyland del cibo che aprirà i battenti nel 2017. Cosa c’entri questo baraccone con la sostenibilità alimentare è tutto da dimostrare. La nostra città è stata travolta da una forma di “bulimia edonista” che fa uscire cibo da tutte le parti. Che nessuna delle questioni di cui abbiamo parlato sopra sia stata affrontata in maniera adeguata la dice lunga, però, sulla capacità di governo dei nostri amministratori.

In questo viaggio all’Eataly newyorkese, facendo un po’ il verso al viaggio di Renzi da Obama, il primo cittadino si farà accompagnare da un gruppo di personalità, in rappresentanza delle “eccellenze” di Bologna. Non si sa da chi sia composta la comitiva, l’unico degli inclusi di cui si è vociferato è il proprietario di una nota sala giochi di piazza Roosevelt. La ragione dell’invito è una sorta di premio per aver inventato, di recente, alcuni giochi da tavolo o virtuali. I loro nomi sono un programma: “La libido del manganello”,“War of lunch” e “Bavaglio – Non vedo – Non sento – Non scrivo” (l’ultimo in ordine di tempo, una sorta di gioco del dottore dove si insegna a fare i giornalisti stando lontano dai fatti e dai luoghi da raccontare).