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“Poca accoglienza” [video]

Tra poche settimane finirà il piano emergenza per i profughi dal nordafrica del 2011. Come vivono i migranti arrivati a Bologna? Un reportage di Indymedia da Prati di Caprara e Villa Aldini.

12 Gennaio 2013 - 14:50

di (((i))) Italy Indymedia

A quasi due anni dalla fuga precipitosa dalla guerra in Libia, la traversata del Mediterraneo, lo sbarco a Lampedusa, la permanenza in vari centri temporanei, come vivono i migranti giunti a Bologna nell’ambito del Piano Emergenza Nord Africa allestito dal Governo italiano? Per vederlo siamo stati nel centro San Felice, gestito dalla Corce Rossa, e a Villa Aldini. Dalla visita emerge il quadro di un’accoglienza dimezzata. Persone parcheggiate e limitate nelle loro potenzialità da un’assistenzialismo (di bassa qualità) che non le indirizza verso concrete prospettive di autonomia, a ormai due mesi dalla fine del piano. Qual’era il ruolo delle istituzioni locali? Cosa si poteva fare e non è stato fatto?

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A margine del video vorremmo approfondire alcuni temi che esso non tocca, partendo con un breve riepilogo “storico” e un giudizio politico.

La fuga consistente di persone dai paesi del Nord Africa, in seguito a rivoluzioni, crolli di regimi e guerre, ha visto l’Italia diventare il naturale approdo geografico per la maggioranza di loro.
Il fenomeno si è macroscopicamente manifestato a ondate successive, interessando per lo più Tunisia e Libia, pur non limitandosi ad esse.

Mentre per i tunisini la fuga ha coinvolto nativi del paese magrebino, spinti anche dalla volontà di cercare scampo alla povertà, la guerra in Libia ha causato l’esodo di migliaia di migranti che vi risiedevano e lavoravano, alcuni precedentementi fuggiti dagli stati d’origine, nell’Africa Nera.

Il trattamento riservato ai profughi dall’Italia non è stato univoco negli esiti giuridici.
Mentre ai profughi arrivati prima del 6 aprile 2011 (sbrigativamente, “i tunisini”, per la loro preponderanza numerica) il governo Berlusconi concesse per decreto un permesso di soggiorno per motivi umanitari della durata di 6 mesi (poi rinnovato per altri 6), nel secondo caso affrontò la fuga dal paese libico con lo strumento della richiesta di asilo politico.

Ambedue le tipologie di migranti hanno ricevuto l’accoglienza del “Piano Emergenza Nord Africa”, vivendo a volte nelle medesime strutture con gli stessi servizi. Ma mentre i primi, da subito, poterono iniziare un percorso di ricerca del lavoro, onde rendersi autonomi e riuscire poi a convertire il permesso umanitario in uno più stabile per motivi di lavoro, i secondi sono sprofondati nelle sabbie mobili di una farraginosa burocrazia.

L’analisi politica che trae Neva Cocchi – responsabile Sportello Migranti del centro sociale T.P.O. di Bolgona – è azzeccata nel descriverne i risvolti. Sembra quasi che dietro la scelta di spingere d’ufficio alla richiesta di asilo politico, come unica possibilità per restare sul suolo italiano, ci sia stata la segreta volontà di scaricare sulle commissioni incaricate di esaminare le domande la responsabilità di un diniego.
Diniego piuttosto prevedibile per gran parte di loro, provenienti da nazioni dove i conflitti interni non sono così drammaticamente conosciuti e riconosciuti ai fini dell’asilo politico. L’impossibilità di presentare ragioni collettive all’origine della fuga dal paese d’origine, come può invece essere la guerra rispetto la successiva rotta dalla Libia, riduce alla poco documentabile storia personale l’unica pezza d’appoggio alla richiesta d’asilo.

Non è un caso che una grossa percentuale di queste, con tempi biblici, siano poi state rigettate in prima battuta.
Prendendo un esempio concreto, ai Prati di Caprara alcuni migranti hanno ricevuto la risposta della commissione dopo oltre un anno di permanenza nel centro, nell’autunno 2012.
In caso di diniego la legge consente un ricorso alla decisione della commissione. Ma nell’arco di un anno cosa succede a persone che si vedono parcheggiata in una struttura d’accoglienza senza scorgere risposte all’orizzonte?
Quanti, in tutta Italia, avranno deciso di lasciare i centri alla chetichella, temendo una risposta negativa e l’espulsione; quanti non avranno così sfruttato l’opportunità del ricorso e in quale sorte saranno incorsi?

Il disinteresse dello stato per la sorte dei migranti e la volontà di non assumersi responsabilità politiche si riflette nella decisione di affrontare le massicce emigrazioni in via emergenziale.
La pratica sembra ormai una routine adottata per eventi di eterogenea natura: da quelli sportivi ai summit internazionali, dalle catastrofi naturali ai fenomeni migratori.
Consente una delega totale all’ente di Protezione Civile, conferendo al commissario incaricatoi poteri discrezionali d’azione in deroga a numerose leggi ordinarie. Uno strumento dimostratosi perfetto per spendere soldi velocemente ma inefficiente e poco trasparente.

Il piano adottato ha suddiviso per regioni quote di migranti, da ospitare presso strutture individuate nei singoli territori e nei comuni aderenti all’iniziativa, e affidate ad enti gestori.
Non è stata prevista una tipologia standard di accoglienza su tutto il territorio nazionale. Alcune persone sono finite a vivere in alberghi convenzionati, altre in strutture di accoglienza di piccole, medie e grandi dimensioni, progettate per fini abitativi o di natura diversa, come la ex caserma militare dei Prati di Caprara, dove in precedenza si ricoveravano mezzi e non persone.
La fortuna di capitare in una sistemazione con poche persone ha significato per alcuni un’attenzione dei gestori concentrata sulle loro esigenze e più facilità nell’inserimento o nella ricerca di un lavoro rispetto a situazioni affollate come ai Prati di Caprara, dove le lamentele investono potentemente gli aspetti legati alla mediazione culturale, i servizi di accompagnamento, l’interazione tra ospiti e gestori (la Croce Rossa Italiana), l’assistenza nella ricerca di un lavoro o corsi di formazione che diano prospettive più serie per il futuro rispetto a borse lavoro con compensi di uno o due euro al giorno.
Queste sono tutt’al più palliativi alla noia di restare in stanza senza nulla da fare, ma configurano quasi uno fruttamento legalizzato se guardiamo al compenso percepito a fronte di un lavoro effettivo, come per i nigeriani dei Prati impiegati al Tribunale di Bologna.
Chi come Thomas, alloggiato a Villa Aldini, ha “goduto” di una borsa lavoro si sente spesso frustrato e svilito da questi impieghi temporanei che non portano reddito e non si concretizzano in un lavoro al loro termine. Ci ripete più volte che avrebbe desiderato seguire un corso di formazione, ma non gli sono state offerte occasioni.

Con le dovute eccezioni si è forse ripercosso verso il basso l’atteggiamento pilatesco dello stato e le conseguenze dell’assenza di standard che imponessero personale specializzato, percorsi minimi di integrazione e ricerca lavoro comuni, anzichè lasciare ai territori e ai gestori l’incombebza di inventarsi soluzioni per un compito che spesso hanno svolto male e con poca voglia… a fronte però di 40 euro lordi a persone al giorno. Un rendiconto delle spese per le varie strutture non siamo riusciti a trovarlo.

(((i)))