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Opinioni / “La televendita pericolosa di Renzi”

Entra in vigore oggi il decreto legge 34 in materia di lavoro e occupazione. L’economista Andrea Fumagalli: “Totale liberalizzazione fino a tre anni per il contratto a tempo determinato e per l’apprendistato. In cambio poche briciole”.

21 Marzo 2014 - 11:59

Di Andrea Fumagalli da Effimera

E la precarietà diventa strutturale. Nulla di nuovo, anzi d’antico nelle “novità” che il primo ministro italiano ha presentato la scorsa settimana in materia di lavoro. Totale liberalizzazione e a-causalità sino a tre anni per il contratto a tempo determinato e per l’apprendistato. In cambio di poche briciole. La Merkel apprezza e sempre più aleggia lo spettro del lavoro gratuito, pardon “volontario”. Presentiamo un’analisi dei provvedimenti contenuti nel decreto legge 20 marzo 2014 n. 34, in vigore da oggi.

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Finalmente, dopo una lunga attesa, sono state rese note le misure che il neo-governo Renzi intende adottare per traghettare l’economia italiana fuori dalle secche della crisi. I provvedimenti principali si dividono in tre parti: interventi a sostegno dei redditi di lavoro e di impresa, interventi sul mercato del lavoro, al fine di renderlo più “appealing”, interventi sugli ammortizzatori sociali.

In questi giorni, sui giornali e sulle televisioni, soprattutto all’indomani della televendita di Palazzo Chigi, condita da slides, figure e tabelle, a magnificare le qualità del prodotto, si è elevato un coro di consensi a sancire che finalmente l’”economia svolta”. Che Renzi sia un buon imbonitore e un abile utilizzatore delle pratiche comunicative non ci piove, al punto tale che, con preoccupazione, ci ricorda un altro abile comunicatore, che per 20 anni ha imperversato, con molte complicità “indecenti”, nella politica italiana. Ma ciò non toglie che, al di là della sfavillante superficie, sia necessario e doveroso analizzare la sostanza. E il risultato che emerge è del tutto sconfortante, vecchio e usato.

“1000 euro in più all’anno per chi guadagna meno di 25.000 euro, grazie al taglio di parte del cuneo fiscale”: detta così non sarebbe male. Non molto, 80 euro netti al mese, più dei 12 euro promessi da Letta, ma meglio di niente. Per tutte e tutti? Ovviamente no. La riduzione del cuneo fiscale può essere applicata solo laddove vige un contratto di lavoro dipendente e il taglio risulta massimo laddove il contratto di lavoro è stabile. Ciò significa che i contratti precari dipendenti si dovranno accontentare delle briciole (sicuramente non i 1000 euro promessi) e che tutti coloro che non hanno un contratto di lavoro dipendente sono tagliati fuori: parliamo, non solo dei disoccupati, ma di tutti i lavoratori/trici con contratti di pura subordinazione, Partite Ive, autonomi eterodiretti, ecc. ovvero quasi la metà della forza lavoro italiana. Non è un caso che i sindacati abbiano immediatamente applaudito tale proposta. Il solco tra chi ha un lavoro (solo apparentemente) più stabile in quanto dipendente e chi il lavoro non ce l’ha o è precario tende così ad allargarsi.

“Contratto di lavoro a tempo determinato (CTD) sino a tre anni, con possibilità di rinnovo senza pause e a-causale (per ogni impresa il tetto massimo di utilizzo del CTD senza casuali giustificatrici è infatti il 20%)”. Detto in parole più semplici: possibilità di infinite proroghe per tre anni al contratto di lavoro a tempo determinato. Anche una alla settimana o al mese: di fatto il periodo di prova nel quale si può essere “licenziati” senza preavviso, indennità e alcuna giustificazione viene esteso a tre anni. Peggio che in Spagna, dove almeno la durata minima del CTD è fissata in 6 mesi. Finalmente ci sono riusciti, il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato non è più la regola ma è divenuta l’eccezione in barba anche alle previsioni della Direttiva CEE n. 99/77 che disciplina per l’appunto i contratti a tempo determinato.

Se con la riduzione del cuneo fiscale i precari erano già in parti tagliati fuori, ora sono direttamente mazzolati. La Cgil ci ha messo qualche giorno a capirlo (forse abbagliata dalla televendita?) e adesso esprime qualche perplessità. Meglio tardi che mai. Ma sappiamo come andrà finire, perché è questa la misura principale e l’intendimento della legge delega Renzi: far convergere sul CTD tutte le altre forme di precarietà e rendere la precarietà ancor più strutturale di quella che è già. Assistiamo così ad un peggioramento delle condizioni già indecenti poste dalla riforma “Fornero” e dal successivo Decreto “Giovannini”. Sulla base di quest’ultime riforme, il CTD c.d. “a-causale” poteva essere rinnovato sino ad un anno.

Ma Renzi si sa è generoso, propone un fondo di 1,7 miliardi per trovare un’occupazione ai giovani entro 4 mesi dalla conclusione degli studi: che tipo di lavoro? Ovviamente uno stage a retribuzione ridicola se non gratuito! Vediamo così realizzarsi a livello nazionale ciò che era stato eccezionalmente anticipato nel contratto di Luglio 2013 per l’Expo di Milano, in cui si fa esplicita richiesta di 18.500 volontari a titolo gratuito!

Riforma degli ammortizzatori sociali: la cassa integrazione in deroga progressivamente sparisce e viene sostituita dal Naspi: un sussidio di disoccupazione selettivo (quindi non universale come falsamente sbandierato) per tutti coloro che perdono il lavoro (licenziati?), compresi i circa 400mila atipici che oggi sono protetti dalla casa in deroga e hanno lavorato almeno tre mesi (e chi ha lavorato meno e che ne avrebbe più bisogno, che fa?). La Naspi durerà la metà dei mesi lavorati negli ultimi 4 anni per un massimo di due anni; al massimo sei mesi, invece, per gli atipici (la logica perversa e voluta sembra essere quella che chi ha meno diritti e maggiore precarietà abbia meno possibilità di accedervi). L’entità del sussidio sarà per tutti nell’ordine dei 1.100-1.200 euro mensili all’inizio del periodo di copertura per poi calare fino a 700 euro: la coazione al lavoro e la ricattabilità del bisogno sono quindi assicurate. Si stima che i beneficiari saranno circa 1,2 milioni di persone (pari a quelli oggi in cassa in deroga), un numero ben al di sotto dei circa 9,3 milioni di persone sotto la linea di povertà relativa.

Se questi sono i provvedimenti della legge delega (non sono infatti subito operativi per decreto, ma dovranno passare al vaglio del voto parlamentare, alla faccia della promessa rapidità di azione) , non bisogna essere dei geni per capire che non c’è nulla di nuovo, ma che ci si muove nel corso della solita tradizione della politica dei due tempi: prima precarizzare, poi si vedrà.

Cerchiamo di spiegarci meglio.

Significa che dalla fine degli anni Ottanta e si mette a fuoco una nuova metodologia della politica economica, che si manifesterà concretamente nei decenni a venire (perché, checché se ne creda, in Italia si fa politica economica): una politica economica che possiamo definire, appunto, dei “due tempi”. Un primo tempo finalizzato all’incremento di quella competitività del sistema economico in via di globalizzazione come unica condizione per favorire la crescita che, in un secondo tempo, avrebbe dovuto – nelle migliori intenzioni riformiste – generare le risorse per migliorare la distribuzione sociale del reddito e, quindi, il livello della domanda. Le misure per creare competitività, nel contesto del pensiero neo-liberista, hanno riguardato in primo luogo due direttrici: lo smantellamento dello stato sociale e la sua finanziarizzazione privata (a partire dalle pensioni, per poi via via intaccare l’istruzione e oggi la sanità) e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, al fine di ridurre i costi di produzione e creare i profitti necessari per incoraggiare un eventuale investimento. I risultati non sono stati positivi: lungi dal favorire un ammodernamento del sistema produttivo, tale politica ha generato precarietà, stagnazione economica, progressiva erosione dei redditi da lavoro, soprattutto dopo gli accordi del 1992-93, e quindi calo della produttività. Il secondo tempo non è mai cominciato e sappiamo che, sic rebus stantibus, non comincerà mai.

Tutto ciò è poi avvenuto mentre era in corso una rivoluzione copernicana nei processi di valorizzazione capitalistica, che ha visto la produzione immateriale-cognitiva prendere sempre più importanza a danno di quella materiale-industriale. Oggi i settori a maggior valore aggiunto sono quelli del terziario avanzato e le fonti della produttività risiedono sempre più nello sfruttamento delle economie di apprendimento e di rete, proprio quelle economie che richiedono continuità di lavoro, sicurezza di reddito e investimenti in tecnologia: in altre parole, una flessibilità lavorativa che può essere produttiva solo se a monte vi è sicurezza economica (continuità di reddito) e libero accesso ai beni comuni immateriali (conoscenza, mobilità, socialità). Il mancato decollo del capitalismo cognitivo in Italia è la causa principale della mancanza di crescita e dell’attuale crisi della produttività. L’attuale mantra sulla crescita parte dall’ipotesi che sia l’eccessiva rigidità del lavoro a essere la causa prima della scarsa produttività italiana. La realtà invece ci dice l’opposto. È semmai l’eccesso di precarietà la prima responsabile del problema. Chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce.

Il progetto di Renzi si colloca perfettamente in questa tradizione. Nulla di nuovo sotto il sole, anzi d’antico. E il progetto politico inizia ad apparire assai chiaro. L’obiettivo è rendere strutturale la cd. “trappola della precarietà”, ovvero quella condizione che porta a una sorta di circolo vizioso, che impedisce agli individui di liberarsi dalla loro condizione precaria o perché cercare un lavoro stabile costa troppo o perché, in quanto sottoposti al ricatto del bisogno, non è possibile rifiutare richiesta di lavoro indecenti, ovvero sottopagate, a termine e senza diritti. In un contesto in cui la precarietà si sta trasformando in un fenomeno sempre più strutturale e generalizzato, la trappola della precarietà, non più solo nel breve periodo, è diventata fisiologica, alimentata inoltre dal fatto che il lavoro attuale si basa sullo sfruttamento delle facoltà della vita e della soggettività degli esseri umani.

A fondare, oggi, la trappola della precarietà c’è un nuovo tipo di esercito industriale di riserva. La definizione tradizionale si basa sull’idea che la presenza di disoccupazione eserciti una pressione sui lavoratori, riducendone la forza contrattuale. Oggi, invece, si tratta di un esercito che non è più al di fuori del mercato del lavoro, ma ne è direttamente all’interno, favorendo quelle politiche di dumping sociale, che le politiche di flessibilizzazione (alias precarizzazione) dei vari governi, compreso l’attuale, hanno da sempre perorato e alimentato.

In altre parole, sembrano esserci buoni motivi politici e economici, indipendentemente da qualsiasi dichiarazione pubblica e ufficiale, per mantenere un alto livello di precarietà, così come nel periodo fordista non era “conveniente” raggiungere una situazione di piena occupazione. La trappola della precarietà gioca oggi lo stesso ruolo svolto nel secolo scorso dalla trappola della disoccupazione, ma con una differenza, che rende l’attuale situazione ancora più drammatica: oggi, la condizione di precarietà si aggiunge allo stato di disoccupazione con dinamiche anti-cicliche. In fase di espansione, come è avvenuto all’inizio del nuovo millennio, prima della grande crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008, la crescita di occupazione è stata accompagnata dall’aumento dei contratti precari (con un effetto di sostituzione rispetto al lavoro standard), mentre nell’attuale fase di recessione avviene il contrario: sono i lavoratori precari in primo luogo a perdere il lavoro, alimentando il numero degli scoraggiati o dei giovani Neet. In tal modo, si persevera, pur con modalità differenti, il dispositivo di controllo biopolitico sulla forza lavoro, favorendo per di più la crisi di rappresentanza dei sindacati tradizionali e la riduzione delle rivendicazioni sociali.

La precarietà porta a una condizione di ricatto che induce forme di auto-repressione e di inefficienza. La trappola della precarietà ne è la conseguenza. Siamo in una situazione opposta a quella della trappola della disoccupazione. Se ieri la trappola della disoccupazione (o della povertà) poteva derivare dalla presenza di politiche di welfare, oggi la trappola della precarietà è, piuttosto, il risultato della mancanza di politiche adeguate di welfare.

Renzi non solo conferma questa politica, ma può andare oltre. Infatti, i provvedimenti chesi vuole varare sono in linea con ciò che era stato eccezionalmente anticipato a Milano nel contratto di luglio 2013 per l’assunzione di 700 lavoratori in vista di Expo2015 (a fronte di una richiesta di 18.500 volontari a titolo gratuito!), ovvero la totale liberalizzazione del CDT. A quando una legge che impone il lavoro volontario e gratuito per tutte/i?

La MayDay 2014 ha un’altra ragione per farsi sentire. E con più forza.