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Migranti, aumentano le espulsioni: +50%

Da 589 a 883 nell’ultimo anno. Nei dati sull’attività della Polizia anche un boom nell’uso dei Daspo. Dal gruppo Bologna No Borders, intanto, una riflessione sul lavoro nell’accoglienza alla luce del decreto Minniti.

11 Aprile 2017 - 14:23

Nell’ultimo anno a Bologna si sono registrate 883 espulsioni di cittadini stranieri contro le 589 dei 12 mesi precedenti, con un aumento del 49,9%: 87 le espulsioni con trasporto alla frontiera (-1,1%) e dieci quelle verso il Cie (-23,1%). Sono i dati diffusi dalla Questura, relativi all’attività svolta tra l’1 aprile 2016 e il 31 marzo 2017. Nell’arco di questo periodo la Questura ha trattato i casi di 105.642 stranieri (+4%) e sono 43.186 i permessi rilasciati (+16,3%). Gli ordini di lasciare il territorio nazionale sono stati 707 (+35,4%). Tra gli altri dati, a dispetto delle retoriche securitarie che si ripropongono puntualmente anche in questa città, risulta che l’andamento dei reati è in calo: -11,3% nel Comune capoluogo e -11,9% sull’area metropolitana. Si fa notare, poi, un’esplosione dell’uso dei Daspo: 75 quelli conteggiati contro i 14 dell’anno precedente, con un aumento del 435,7%. C’è un calo dei fogli di via (da 143 e 127) e degli avvisi orali (da 32 a 8). Sempre negli ultimi 12 mesi, la Polizia ha conteggiato 468 manifestazioni politico-sindacali con una media di 1,3 al giorno.

Dal gruppo Bologna No Borders, intanto, arrivano alcune riflessioni sul lavoro nell’accoglienza alla luce del nuovo decreto Minniti: “Chi scrive si propone di praticare un’azione politica che incida sui contesti concreti e sui discorsi che sono effetto delle politiche migratorie europee, a partire dall’esperienza diretta dell’incontro tra le persone che le subiscono. Ritenendoci comune bersaglio del controllo della mobilità e dello sfruttamento lavorativo, abbiamo percorso nel tempo alcune città di frontiera e Bologna, riconoscendo nelle vessazioni imposte ai migranti limitazioni particolarmente brutali della libertà personale, tanto da comunicarci il bisogno di organizzare insieme alle persone che hanno un passato o un presente di viaggio il nostro percorso di emancipazione. Interveniamo pubblicamente su un tema che interseca questo percorso in vari modi, non ultimo quello di essere luogo di incontro pianificato e formalizzato tra migranti e altri, da sempre o da più tempo stanziali: il sistema cosiddetto di accoglienza. Proponiamo alcune riflessioni alla luce del recente decreto Minniti in materia di asilo, che situa in modo più esplicito rispetto al passato alcuni aspetti che riguardano il mondo dell’accoglienza all’interno di un progetto securitario di controllo del territorio e limitazione del diritto di asilo. Ciò che ci interessa approfondire sono le possibilità di un lavoro politico che si opponga all’assetto razzista e classista dell’Europa attuale da parte di chi lavora all’interno di uno qualsiasi tra i vari snodi del circuito che accompagna il percorso dei richiedenti asilo. A questo scopo è necessaria una premessa: i diversi contesti in cui si svolge l’iter dell’asilo non possono essere presi in considerazione escludendo ciò che sta alle due estremità temporali del segmento. Ad un capo troviamo il viaggio, brutale e forzatamente illegale, dal paese d’origine al territorio europeo, che si conclude con lo sbarco nelle mani delle forze di polizia, dove la richiesta di asilo si propone senza alternative come strumento di regolarizzazione temporanea per chi ancora conserva il diritto a presentarla. All’altro capo sta un futuro di clandestinità (con ciò che ne consegue in termini di accesso ai servizi e ricattabilità) per tutti quelli, e sono la maggior parte, che si vedono negare i documenti al termine dell’attesa. Tra queste parentesi il periodo che va dalla presentazione della domanda di asilo all’ultimo parere del giudice si configura come un momento di passaggio nella legalità in cui nulla può far pensare che i richiedenti abbiano un posto nella società europea. Tanto più che, ad appesantire la situazione di sospensione in cui si trovano, un numero variabile degli aspetti di questa fase di attesa della loro vita non è immediatamente nelle loro mani, ma viene mediato dalle diverse articolazioni dei progetti di accoglienza. A Bologna la nostra esperienza di incontro con i richiedenti asilo non è legata soltanto all’azione politica, ma anche e più semplicemente a rapporti personali. Molto spesso questa dimensione è determinante per comprendere alcune cose, e questo è forse l’aspetto più interessante di un gruppo politico diverso da un partito, da un sindacato o da altre riproduzioni di queste strutture. Lo stesso vale per il nostro rapporto con operatori e operatrici dell’accoglienza, con i quali spesso condividiamo età, abitudini e orientamento politico”.

Continua il documento: “Tra i lavoratori dell’accoglienza che abbiamo incontrato ci sono persone coinvolte in un percorso, recente o lontano, di migrazione. Tra queste è frequente la convinzione che un particolare aspetto di questo passato che le accomuna ai richiedenti asilo sia uno strumento utile a rendere più facile questo o quel pezzetto di strada ai nuovi arrivati. La padronanza della stessa lingua, ad esempio, è un’abilità che può essere adoperata in quest’ottica, trattandosi inoltre di uno strumento che rende l’operatore un lavoratore qualificato agli occhi di chi lo assume. Un’altra opinione diffusa tra chi lavora con i richiedenti asilo è legata alla competenza: gli studi universitari, svolti tra le diverse branche delle scienze sociali e dedicati al rapporto con l’alterità sociale o culturale, possono essere – e certamente sono – una qualità professionalizzante, che trova una via d’espressione adeguata proprio nel lavoro con i richiedenti asilo. Questo caso, come il precedente, è emblematico di una qualità particolare del circuito di accoglienza locale, l”eccellenza emiliana’: quello di tendere all’efficienza. Soprattutto nei casi delle cooperative che non mirano esclusivamente a usurare i dipendenti con turni lunghi e paghe magre in un continuo turn over, i rapporti lavorativi sembrano improntati a quello che si può considerare il motto esplicito dell’economia cooperativa, cioè la sintesi di umanitarismo e profitto. Quest’etica approfitta delle capacità e delle energie dei lavoratori alimentando la percezione che sia necessario un lavoro accurato, qualificato, ben fatto: ciò avviene in vari modi, ad esempio mantenendo un organico che sia sempre in sofferenza e pianificando di contro un’organizzazione del lavoro che copre ogni aspetto della vita delle persone assistite, dalla salute agli interessi culturali. Ne deriva che laddove i richiedenti asilo non sono privati di autonomia per difetto (ad esempio non potendo cucinare i propri pasti, come avviene nella maggior parte delle strutture di medie dimensioni della provincia di Bologna), lo sono per eccesso di progettualità da parte delle organizzazioni chiamate a seguirne da vicino i passi per uno o due anni. L’idea di efficienza che si realizza in questo quadro è fine a sé stessa e lascia esigui margini di autodeterminazione ai richiedenti asilo. Già soltanto considerando quest’assetto è evidente che per un operatore o un’operatrice dell’accoglienza ‘fare un buon lavoro’ non può voler dire seguire le indicazioni date da un superiore. Né il discorso cambierebbe pensando di agire secondo la logica dell’efficienza con quel tanto di capacità in più che il possesso di una lingua, di strumenti di analisi o magari di una particolare sensibilità umana o politica possono migliorare nella relazione tra un’impresa (la cooperativa) e le persone che, forzatamente, si trovano a sperimentare la condizione di richiedente asilo. Per usare una metafora poco levigata, un migrante accolto in un percorso di accoglienza, producendo valore per il semplice fatto di esistere e di essere affidato a una cooperativa, si trova nella condizione di un operaio che, assunto in fabbrica a tempo determinato non è costretto a lavorare (o magari lavora senza essere pagato) mentre un certo numero di direttori del personale si adopera attorno a lui affinché, fino alla scadenza del contratto, abbia una vita ben regolata e magari piacevole. Qui si arriva, finalmente, al punto dell’agire politico dell’operatore o dell’operatrice: il quadro descritto impedisce di dare un valore in questo senso al lavoro nell’accoglienza. Da un lato occorre ricordare che non esiste lavoro che esprima intrinsecamente un posizionamento: la retorica dell’inclusione che riveste di benevolenza il termine stesso di ‘accoglienza’ è una risibile bandiera di impegno e altre professioni sociali, come l’insegnante, siamo abituati a non considerarle per natura connotate politicamente. Dall’altro lato, quest’ultima osservazione obbliga a uno sguardo più ravvicinato: è possibile che il comportamento del singolo lavoratore tracci un segno politicamente rilevante nella cornice attuale dell’accoglienza? In altre parole, le pratiche dell’accoglienza possono essere piegate a invertire il processo di marginalizzazione e subordinazione dei migranti iniziato sulle coste meridionali e destinato a proseguire dopo l’iter di asilo nei campi delle raccolte stagionali, nei ghetti delle tendopoli? La risposta è no, perché tutto l’apparato di tecnici (operatori, educatori, insegnanti ecc.) è mobilitato escludendo dallo sguardo i due estremi tra i quali la domanda di asilo è compresa: non offre ai migranti nessun mezzo di emancipazione che possa bilanciare un avvenire senza documenti, il suo spettro di osservazione è limitato a una breve parentesi di legalità in un lungo percorso di irregolarità coatta. Quanto più il sistema tende all’efficienza, sezionando gli aspetti della vita dei richiedenti da affidare alle competenze specializzate dei tecnici, tanto meno permette di cogliere la visione d’insieme in cui questo processo tanto articolato assume una portata tanto ristretta. L’auspicio, allora, è che i lavoratori dell’accoglienza non si concentrino sull’obiettivo di fare un buon lavoro, nel senso che viene proposto dalle cooperative: provino, al contrario, a fare il peggior lavoro possibile. L’abbandono del lavoro da parte di un operatore o di un’operatrice è molto frequente, sulla base di diverse motivazioni: la routine, soprattutto nelle strutture più grandi, è monotona e poco appagante; le mansioni svolte non corrispondono a quell’aspettativa, inizialmente determinante, di impiego degli strumenti acquisiti dagli studi; i turni di lavoro sono massacranti e comportano logoramento fisico e mentale. Questi moventi spiegano anche la presenza, nei luoghi dell’accoglienza, di lavoratori meno coinvolti in compiti di responsabilità, che rappresentano una porzione di semplice manovalanza impiegata con contratti a chiamata. L’atto di licenziarsi segna la fine dell’investimento psicologico nel lavoro, il riconoscimento del ruolo subalterno ricoperto in una grande macchina indifferente verso l’individuo: esso è anche il gesto di resistenza più eclatante compiuto dagli operatori contro il sistema di accoglienza, che però quasi non se ne accorge sostituendo rapidamente braccia a braccia. Discutere questi argomenti con un operatore, come ci è capitato tante volte, non è semplice. Superati alcuni ostacoli, come ad esempio l’abitudine ad entrare nel merito di questo o quel passaggio dell’iter di asilo, questo o quel tipo di struttura, di progetto, di cooperativa, di luogo geografico di lavoro, è difficile concordare che il terreno della critica al sistema d’accoglienza è il campo più ampio del sistema di asilo, e svalutare completamente il ruolo dei tecnici che accompagnano i richiedenti negli ingranaggi di una macchina che soffre di un vizio sistemico, non condizionabile dai singoli. Quando, in queste conversazioni, percepiamo la volontà di un lavoratore di presentare in una luce benevola uno dei suoi compiti, ci rendiamo conto che il suo investimento psicologico nel mestiere che fa non è esaurito. Se la discussione scivola su quelli che, dal nostro punto di vista, sono gli aspetti che più evidenziano la continuità tra la retorica dell”emergenza’, la marginalizzazione dei migranti, la brutalità dell’apparato militare di gestione dei flussi e i progetti di accoglienza (gli aspetti di limitazione della libertà dei richiedenti asilo a cui abbiamo accennato), molto spesso un discorso simile è inteso come accusa di collusione del singolo lavoratore con il progetto razzista dei governanti europei. La riflessione fin qui condotta sullo sfruttamento e tradimento delle capacità lavorative degli operatori, che a volte coinvolge anche il loro immaginario di impegno sociale, vale anche a sconfessare questo errore interpretativo: un lavoratore o lavoratrice subisce a sua volta l’imponente messa in scena qualificata e specializzata delle pratiche dell’accoglienza. Risente, come i richiedenti asilo, di una sorta di sospensione dalla realtà che pretenderebbe di affrontare. Così come nulla del suo lavoro può influire sul quadro generale delle politiche europee, la sua adesione all’inganno in cui è coinvolto, oltre a mantenere uno status quo che ha le sue basi a un livello più profondo, andrà principalmente a suo danno. Un approccio più distaccato e strumentale, tipico di chi in qualche modo ha necessità di entrare nel mercato del lavoro, è comprensibile e molto diffuso: esiste come si è detto, una disponibilità al lavoro nel sociale come alternativa a qualsiasi altro impiego e le cooperative si prestano volentieri anche a questa, con il carico di contraddizioni che ciò comporta. La continuità tra le politiche migratorie di produzione di clandestinità e il circuito di accoglienza è oggi formalizzata più esplicitamente che in passato dal recente decreto Minniti. Il provvedimento, che rappresenta sotto vari aspetti un ulteriore irrigidimento del sistema di asilo e che interviene sui meccanismi di espulsione presentando, come era annunciato, l’azione governativa in una luce eminentemente repressiva, trasforma in pubblici ufficiali i responsabili delle strutture di accoglienza. Questa mossa pone i lavoratori di fronte a nuovi interrogativi: in attesa di capire quali ne saranno gli effetti concreti, è possibile ipotizzare che un cambiamento simile vada a incidere proprio sul piano dell’immaginario, dell’autorappresentazione di un ruolo professionale. Non sorprende che proprio nei giorni in cui i dettagli del decreto sono stati divulgati sia stata convocata a Bologna un’assemblea autorganizzata degli operatori e delle operatrici che si è proposta in primo luogo di analizzare le implicazioni del nuovo provvedimento”.

Continua il testo dei No Borders: “Il decreto Minniti sposta drasticamente l’equilibrio discorsivo tra il piano sociale e il piano securitario dell’immigrazione, laddove l’attesa del permesso di asilo aveva conquistato, nell’immaginario collettivo, un eccezionale posto di riguardo come parentesi spettante ai tecnici del sociale e non alle forze dell’ordine. Dal nostro punto di vista il nuovo assetto rafforza la percezione del carattere forzato, non volontario, della domanda di asilo e delle implicazioni che questa ha per il richiedente. In questo senso, l’efficienza lavorativa predicata dalle cooperative bolognesi assume una luce ancor più paradossale: qual è il senso di una meticolosa organizzazione del lavoro di tutela di persone sempre più sottoposte a controllo e avviate a un futuro di irregolarità? Il decreto sopprime – tra le altre misure riguardanti l’asilo politico – il grado di ricorso in appello contro il parere negativo della commissione territoriale, oltre a stabilire che il giudizio di cassazione debba consistere, salvo eccezioni, solo in un riesame del filmato dell’udienza in commissione. Nel contesto di una progressiva limitazione del diritto di asilo, ancora più forte che in passato abbiamo avvertito l’impulso a invitare gli operatori dell’accoglienza a fare il peggior lavoro possibile. Con questo intendiamo che è preferibile sottrarsi alla logica dell’efficienza prima di essere schiacciati da dinamiche che già prima del decreto Minniti erano in atto. Allo scopo di non diventare esecutori conclamati di un nuovo ‘piano sicurezza’, fare il peggior lavoro possibile significa rifiutare il ruolo di pianificatori della quotidianità dei richiedenti asilo; cercare di intessere con loro relazioni che superino il rapporto di lavoro, che funge da barriera; non adoperare gli strumenti punitivi che i regolamenti arbitrari dei vari progetti offrono (in primis le lettere di richiamo che possano costare a un richiedente la revoca del diritto all’accoglienza). Fare il peggior lavoro possibile significa, inoltre, organizzarsi collettivamente per disattivare i meccanismi di competizione lavorativa che rientrano nell’ottica dell’efficienza. Solo in questo modo, abbandonando un investimento psicologico acritico verso un mestiere ingannevole, chi lavora nell’accoglienza potrà ampliare il suo campo visivo e constatare che prima di affrontare temi e problemi dell’accoglienza (o le questioni particolari dei lavoratori nel quadro attuale) occorre mettere in discussione strutture e scelte ben più generali che regolano la mobilità interna ed esterna al territorio europeo. Soltanto la libertà di movimento farebbe del diritto di asilo un campo non forzato né vincolato agli apparti militari, ma volontario e legittimamente rappresentabile nei termini più semplici di ‘questione’ del sociale. Questa esortazione di un piccolo gruppo come il nostro, che ha sperimentato nel tempo la forza delle relazioni con i migranti non veicolate da rapporti lavorativi, vuole essere un nuovo invito al confronto e alla ricerca di nuove pratiche politiche. Non abbiamo altro titolo da presentare per la descrizione qui offerta delle dinamiche del lavoro nel sistema cosiddetto di accoglienza. La tesi di fondo di questo breve testo è che la battaglia fondamentale per l’emancipazione dalle leggi costrittive che regolano la mobilità e il lavoro non si gioca sul terreno friabile dei luoghi di accoglienza, oggetto di un’imponente rappresentazione che riguarda più che altro l’immaginario collettivo e il consenso politico. I richiedenti asilo in tutto il territorio nazionale esprimono, protestando, proprio la volontà di uscire dalla sospensione dell’accoglienza. Si stanno organizzando per puntare agli obiettivi che sono i nostri come quelli degli abitanti del ghetto di Rignano: case, lavoro, autodeterminazione. Solo tra gennaio e marzo di quest’anno si contano una ventina di manifestazioni portate avanti dai richiedenti asilo, dal più piccolo paese alle grandi città, dal sud al nord della penisola. Su questo piano crediamo sia giusto alimentare un immaginario e un’azione di impegno, al di fuori di ogni vincolo economico e della messa in scena dell’accoglienza”.