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“Il megafono no…”, un interessante retroscena

Il racconto di un episodio successo il 27 maggio in piazza Verdi, subito prima delle cariche delle forze dell’ordine, che fa comprendere di chi sia la responsabilità di quello che è accaduto.

30 Maggio 2013 - 16:04

Sono passati tre giorni da quell’ormai sacrilego lunedì 27 maggio e non c’è stato nessuno che, nel panorama dei media mainstream, si sia chiesto da dove sia partito l’ordine di schierare Polizia e Carabinieri ed impedire a dei collettivi studenteschi e a un megafono di entrare in piazza Verdi per tenere un’assemblea alle ore 18. Un bel po’ prima del calar del sole. In un orario in cui anche le galline più sonnacchiose starnazzano ancora nell’aia.

In una città normale di un Paese normale, con una Costituzione che dice (come quella italiana all’art.17) che le autorità possono vietare le riunioni in luogo pubblico “soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”, ci saremmo aspettati che qualche giornalista o commentatore (non qualche politico, perché lì ormai ci abbiamo messo una pietra sopra) se la fosse fatta questa domanda. E, invece, niente di niente.

Dove stia la pericolosità di quell’aggeggio di forma conica, destinato ad amplificare la voce e a dirigerla in una certa direzione, qualcuno ce lo dovrebbe spiegare, ma sarebbe davvero chiedere troppo.

A meno che le parole non siano considerate ormai più pesanti dei sassi, solo perché, amplificate da quel tronco di cono, possono arrivare a una ventina di metri di distanza.

Ricordiamo, esclusivamente per il gusto della polemica, che appena venti giorni prima quel fatidico 27, gli assessori Matteo Lepore e Marilena Pillati dovettero munirsi di megafono per farsi ascoltare dalle maestre comunali che, il 7 maggio, avevano invaso il primo piano di Palazzo d’Accursio.

Allora, non è che a Bologna, a causa di una delle ultime trovate di Merola, per usare il megafono bisogna essere assessori?

E, dato che è caduto il discorso su Palazzo d’Accursio, vogliamo raccontare un storia di cui (guarda caso) nessuno si è accorto quel pomeriggio del 27 maggio.

In piazza Verdi, dietro lo schieramento di polizia, a pochi metri di distanza da dove si trovavano i giornalisti, c’era un funzionario dello staff del sindaco. Aveva in mano un casco, ma questo solo perché era arrivato in moto. La sua presenza sul campo faceva ricordare il “mitico” Massimo Gibelli (il duro scudiero di Cofferati) che si presentava in piazza ai cortei antiCoffy per dare ordini ai questurini. Ma il giovane aiutante di Merola era più defilato e passava il suo tempo tra telefonate a non si sa chi e un confabulare ripetuto con i funzionari di polizia. Dopo quasi un’ora di stallo, i ragazzi che gridavano slogan e gli agenti che se ne stavano intruppati con caschi e scudi, un dirigente della Digos si è avvicinato al funzionario comunale e, in segreto ma non troppo, ha domandato: “Allora che cosa si fa?”.

Il “merolingio” ha chiesto tempo e si è riattaccato al telefono. Dopo qualche minuto ha emesso la sentenza che qualcuno gli ha dettato dall’altra parte del cellulare. Anche questa è stata sussurrata, con la bocca parzialmente coperta, all’orecchio del funzionario di polizia. Era sufficiente, però, avere un udito medio per comprendere quelle parole bisbigliate: “Possono passare solo se non portano il megafono… altrimenti no!”.

Non è necessario un quoziente intellettivo superiore allo 0,25 per capire che l’arguto “suggerimento” arrivava dai piani alti di Palazzo d’Accursio.

Dopo un minuto e mezzo, quando gli studenti e le studentesse hanno fatto due passi in avanti, sono partite le manganellate, ma questa volta, a differenza di altre volte, non sono scappati.