Editoriale

Editoriale / Punto di ripartenza

Decine di migliaia di persone rispondono a una chiamata dal basso, le lotte per casa, reddito e territori occupano la scena pubblica con una presa di parola forte e decisa. Per noi questa è la notizia.

20 Ottobre 2013 - 19:19

Si ricomincia da qui. Da settantamila persone che hanno risposto a una convocazione che viene dall’autorganizzazione, senza partiti, sindacati, senza leader, né comici, né guru, senza improbabili tentativi di riaggregazioni a sinistra in chiave elettorale. Si ricomincia dai solidi percorsi di lotta per la casa che da anni vanno diffondendosi nelle metropoli, dalla ventennale opposizione alla Tav in Valsusa e da quella più giovane contro il Muos a Niscemi, da chi reclama e pratica libertà di movimento oltre ogni frontiera, dalla ricchezza del saper-fare accumulato e riprodotto nella lunga storia dell’autogestione e dei centri sociali.

Percorsi che sanno parlarsi, incontrarsi, superare le riserve indiane della militanza politica, scavalcare le generazioni, rompere le barriere tra nativi e migranti, invertire i processi di atomizzazione sociale di una precarietà imposta come paradigma unico dell’esistenza.

Persone che non si sono spaventate di giorni e giorni di allarmismo mediatico e hanno saputo irrompere sulla scena da protagonisti sovrastando il vacuo chiacchiericcio che infesta il dibattito pubblico.

Quella che abbiamo visto ieri in piazza ci pare l’unica soggettività in grado di scalfire l’ideologia della pacificazione sociale posta a difesa del fortino in cui sono asserragliati gli eredi del partito comunista e della democrazia cristiana insieme a quel che resta del carrozzone berlusconiano e soprattutto insieme alle elite del capitalismo finanziario nazionale, intente di questi tempi ad arrabattarsi per non soccombere alla crisi che loro stesse hanno contribuito a determinare.

Sarebbe stupido nasconderselo: il compito, per il movimento che ha manifestato ieri, non è affatto facile, c’è ancora tanto da imparare, da sperimentare. Ci sono errori da non ripetere. Dall’inizio degli anni duemila troppo ampio è stato il divario tra l’indiscutibilile qualità delle analisi, dei dibattiti e delle proposte, e la fatica di tramutarle in pratica incisiva e inclundente, di darsi costanza e continuità. Un dato di novità però non può passare inosservato: se negli scorsi anni molte mobilitazioni nascevano su enunciazioni di principio e su cause globali, di certo ottime ragioni ma che spesso rischiavano di apparire troppo lontane dalla concretezza della vita quotidiana, oggi vediamo esprimersi in piazza istanze con radici ben piantate nel terreno, nelle difficoltà che fasce ampie di popolazione incontrano nel raggiungere livelli anche minimi di dignità, nella paura di chi vede la propria vita messa a rischio dai veleni della produzione e delle esigenze belliche, nella rabbia di chi assiste alla violenta imposizione di opere devastanti sul proprio territorio.

Da questa considerazione, e con il ragionevole ottimismo di chi crede che la storia non conosca punti di arresto e che possa percorrere strade che portano alla libertà e alla ricchezza di tutte e tutti piuttosto che all’oppressione e alla miseria, vogliamo credere che si sia ripreso a camminare nella giusta direzione, che si vada superando l’empasse che negli ultimi anni hanno limitato le potenzialità dell’autorganizzazione sociale. Che le contaminazioni e le alleanze che hanno saputo costruire le giornate di ottobre siano destinate a crescere, a continuare a lungo ad agire per invertire le rotte dell’austerità, della precarizzazione, di questo progresso irrispettoso dell’ambiente e delle comunità, a reclamare e conquistare passo dopo passo dignità, casa e reddito per tutte e tutti.

Dal canto nostro, siamo un giornale e in quanto tale cerchiamo notizie. Quanto raccontiamo in queste righe ci pare costituire la notizia di questo fine settimana. Siamo consapevoli di proporre una narrazione dissonante rispetto a quanto si sente oggi tra radio, televisioni e giornali più blasonati del nostro, impegnati a condanne colme di rammarico di un supposto gruppuscolo di facinorosi che avrebbe rovinato la manifestazione pacifica di migliaia. Che possiamo farci: non è quello che abbiamo visto in piazza. Abbiamo visto un po’ di rabbia e di disgusto trovare uno sfogo pressoché simbolico nel colpire, al passaggio del corteo, il portone chiuso di uno dei palazzi dove si decidono le politiche che ci affamano. E poco dopo abbiamo visto la violenza (quella, sì) delle forze di polizia nel caricare da due lati centinaia, se non migliaia, di persone in coda al corteo. E ancora prima, le stesse forze di polizia lasciare che un manipolo di fascisti con caschi e bastoni si avvicinasse al corteo. Non abbiamo sentito invece nessuno dei manifestanti accusare chicchessia di aver rovinato nulla, né tanto meno tirare fuori il classico cliché degli “infiltrati”. Saremo strani, noi.