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Editoriale / La “città-zerbino” che va rivoltata

Osservando il corteo per il diritto all’abitare che ha invaso il centro di Bologna, in sabato prenatalizio, viene da dire: “E’ meglio diffidare di chi occupa poltrone invece di chi occupa case sfitte”.

22 Dicembre 2014 - 12:37
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Il corteo per la casa di sabato 20 dicembre – © Michele Lapini

C’è un obiettivo più forte delle parole d’ordine e dei numeri (buoni) della manifestazione degli occupanti dell’ex palazzina Telecom di via Fioravanti. Sabato scorso quel corteo, che dal cuore della Bolognina ha invaso il centro della città, ha rovesciato l’immagine della “città/zerbino” che, sotto le luci delle luminarie e del consumismo compulsivo prenatalizio, cerca di nascondere quello che non è socialmente “bello” e che può disturbare.

Lo zerbino è quel tappetino grezzo che vediamo quando torniamo a casa, ed è anche la prima cosa che notano i nostri ospiti quando arrivano. Spesso sotto questa stuoia viene nascosta la polvere che le suole delle scarpe si portano dietro. E’ un vecchio trucco da gestione domestica che, oggi, è diventato una modalità del governo dei territori per coprire il disagio sociale che si vede davanti alla nostre porte di casa.

Oggi la crisi dell’economica reale, con cui conviviamo da anni, è entrata nel suo periodo più virulento; le sue dimensioni, insieme alla drammatica trasformazione del sistema di produzione, alla progressiva riduzione dei redditi e a una precarizzazione generalizzata, hanno stravolto la vita a tante persone. Anche il territorio bolognese, che un tempo era riuscito ad arginare altre situazioni di crisi, è stato duramente colpito.

Di fronte a tutto questo, lo “zerbino”, con cui la giunta Merola tenta di occultare (anche in modo brutale) la povertà è sintomo di miopia e ottusità. Avere superato “Aquila delle Ruspe” Cofferati nello sgombero degli accampamenti rom e nell’abbattimento dei villaggi di fortuna, sbraitare un giorno sì e l’altro pure contro le occupazioni di immobili vuoti, attivare continue “politiche di scoraggiamento” nei confronti dei soggetti più deboli, non ha risolto i problemi, ha, invece, dato fiato a un processo di regressione e di imbarbarimento. Queste pratiche politico-amministrative sono il segno dell’ipocrisia e della malafede non tanto di chi si dichiara apertamente razzista e ostile agli immigrati, quanto di chi, ai convegni, butta al vento parole come società multietnica e multirazziale, ma poi, nel governare, si comporta in maniera antitetica. Questi amministratori, oltre ad essere molto scarsi, non comprendono che ciò che si rifiuta di affrontare con l’inclusione, non può essere gestito col suo opposto, cioè con l’esclusione.

E a poco serve richiamare il nome di Francesco Zanardi, come ha fatto di recente l’Amministrazione comunale con il progetto “Case Zanardi”, per dimostrare che si è imboccata la strada della solidarietà. Il primo sindaco socialista di Bologna diede vita al Forno del Pane comunale, all’Ente Autonomo Consumi, che, in piena guerra, garantì ai cittadini l’acquisto di generi alimentari a prezzi controllati, spacci comunali per la vendita diretta al pubblico di generi di prima necessità e il ristorante proletario della Sala Borsa. Altra cosa dai “pranzi per i poveri” una tantum con gli assessori che, per un giorno, fanno i camerieri.

L’icona dello “zerbino” è stata fatta propria anche della Curia bolognese che ha tuonato, a più riprese, contro la città “sazia e disperata”, ma è stata molto cauta nel mettere a disposizione i tanti suoi possedimenti immobiliari. In Via Altabella si accusa chi occupa di non essere un vero povero e, nel contempo, si gestisce un potere che non è rilevante solo nell’empireo, ma anche nelle banche e al catasto.

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Una signora osserva il corteo in Piazza dell’Unità – © Michele Lapini

Essere una “città/zerbino” significa mutare la propria forma sociale e diventare sempre più subordinata agli interessi dei poteri forti, locali e globali, e sempre più configurata ai modi di vivere degli “influenti”: i potentati economici si sono impadroniti di Bologna pezzo per pezzo, hanno commercializzato ogni spazio, hanno creato zone intoccabili, hanno fatto lievitare i costi della vita e hanno, di fatto, prodotto una selezione sulla base della condizione sociale. Sono molti anni che costruttori e finanzieri si disputano, con fare da padroni, pezzi di città, si uniscono in cordate, si spartiscono interi quartieri, impongono “scelte strategiche”. Sempre più spesso gli interessi dei cittadini sono stati subordinati all’espansione irrefrenabile della Fiera e dei mega centri commerciali. Il processo di trasformazione postindustriale della città è stato guidato dalle banche e dalla grande distribuzione commerciale. Bologna è una città dominata dall’intermediazione finanziaria e dalla “vetrinizzazione” forsennata, che si è gradualmente trasformata in luogo per city user più che abitato per cittadini. E’ stata più “usata” che “vissuta”.

La sua popolazione residente è in gran parte formata da persone benestanti, da studenti fuori sede e da “cittadini senza cittadinanza”. Anche la sua gestione politico-amministrativa ha seguito questa scala gerarchica, avendo attenzione, in primo luogo, per le persone “benestanti” e “benpensanti”. Per questo è stata molte volte autoritaria e forte coi deboli, e timida e ossequiante coi potenti.

L’esclusione sociale è diventata un fatto sempre più palpabile. Chi non possedeva strumenti per competere economicamente è stato discriminato e allontanato: infatti è continuata l’espulsione verso i comuni della cintura dei nuclei familiari nuovi, in particolare dei lavoratori più deboli. E’ bene ricordare che a Bologna, oltre alla popolazione residente, il cui calo, certificato dai censimenti 1991 (404.378 unità) e 2001 (371.217 unità) , si è fermato solo negli ultimi anni con una piccola inversione di tendenza (Censimento 2011 – 371.337 unità), ci sono decine di migliaia di persone (studenti universitari fuori sede, lavoratori immigrati da altre regioni italiane, lavoratori immigrati da altri paesi) che vivono in condizioni di precarietà sempre più preoccupanti.

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La partenza del corteo di fronte l’ex-Telecom occupata – © Michele Lapini

L’aumento delle povertà, materiali e immateriali, ha prodotto “buchi neri” dei diritti e della dignità soprattutto nelle periferie dell’area urbana, in primo luogo con l’annullamento civico e l’occultamento dei migranti.

Con la crisi, la situazione sociale si è aggravata: si sono prodotte rapidamente nuove povertà, sono aumentate le fasce di popolazione locale sotto la cosiddetta “soglia di sopravvivenza”, le baraccopoli, gli insediamenti abusivi nelle aree industriali dismesse o in ruderi rurali sono in la manifestazione fisica della nuova miseria urbana.

A tutto ciò va aggiunto l’aumento esponenziale degli sfratti, con la morosità come principale causa. Ad essere colpiti sono stati soprattutto lavoratori dipendenti e pensionati: il 24% delle famiglie sfrattate ha infatti subito la perdita del posto di lavoro del primo percettore del reddito; il 22% è precario; il 21% è in cassa integrazione.

E’ da questa situazione sociale che il fenomeno delle occupazioni a scopo abitativo degli immobili sfitti ha avuto, anche nella nostra città, un forte incremento. Non si tratta, checché ne dicano in Procura, a Palazzo d’Accursio e in Via Altabella di strumentalizzazioni di gruppi antagonisti che vogliono cavalcare il malessere sociale. Si tratta di chi si è trovato senza casa, o di chi non l’ha mai avuta, che ha deciso di lottare per dei diritti elementari. Lo esplicitava bene, con chiarezza, lo striscione di apertura del corteo di sabato: “Casa, reddito, dignità”.

La manifestazione, promossa da Social Log, ha voluto affermare, urlare, che non bisogna vergognarsi del proprio stato di povertà, che le lavoratrici e i lavoratori, i precari, i disoccupati, i pensionati e le famiglie bisognose non devono sentirsi mortificati per la crisi economica dilagante. Che è importante agire, fare qualcosa, rompere il muro aberrante di perbenismo e di populismo, di accettazione delle discriminazioni e degli abusi mimetizzati sotto l’alibi della legalità. Che per fare la guerra alla povertà e non ai poveri va ricostruito un forte legame sociale.

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Il corteo attraversa via Indipendenza – © Michele Lapini

Sabato è stato bello vedere che tra le donne, gli uomini e i bambini del Maghreb, insieme alle famiglie italiane, ai militanti e agli attivisti dei movimenti di lotta per la casa, c’era una folta presenza di cittadini cinesi, una comunità dai forti numeri in città, ma da sempre “nascosta e sommersa”. Quando il corteo è passato per le strade della Bolognina, è stato emozionante vedere tanti migranti affacciarsi alle finestre e applaudire, con l’entusiasmo di chi, forse, per la via delle occupazioni c’era già passato. E ha dato la carica giusta l’orchestra di giovani musicisti che, in via Indipendenza, al passaggio della sfilata, ha messo da parte il repertorio “classico” per trasformarsi in una specie di fanfara balcanica.

Del resto, il bisogno di farsi sentire era stato scandito all’inizio della manifestazione, con i fuochi d’artificio che si sono sono innalzati dal tetto della palazzina occupata, nella migliore tradizione delle feste patronali di un paese del Sud. Poi, alla fine, i tre obiettivi esplicitati negli interventi: “moratoria degli sfratti, fine degli sgomberi, riconoscimento della pratica dell’autorecupero”.

Cose molto sensate e condivisibili che ci hanno fatto pensare, ancora una volta, che “è meglio diffidare di chi occupa poltrone invece di chi occupa case sfitte”.