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Blitz al Cie, la delegazione dopo la visita: “E’ un girone infernale”. Tra i reclusi numerosi tunisini.

Sporcizia, psicofarmaci, autolesionismo e assenza di informazioni, benvenuti nel Cie di via Mattei. Il racconto di Neva dello Soprtello migranti del Tpo all’uscita dalla visita nel Cie.

01 Marzo 2011 - 19:28

Parla di “girone infernale” Neva Cocchi, di Ya Basta!, che questo pomeriggio, dopo il blitz di questa mattina degli attivisti del Tpo nel Cie di via Mattei,è entrata nel centro, accompagnata dai consiglieri regionali Sconciaforni e Meo e dall’avvocato Elia De Caro.

“La struttura e’ fatiscente, sembra un carcere di massima sicurezza, e’ pieno di grate, divisioni, muri, cancelli- racconta- e’ tutto cemento, gli spazi sono angusti e l’igiene e’ scarsa”. All’interno del centro ci sono una novantina di persone (50 uomini e circa quaranta  donne). “Gli uomini sono quasi tutti molto giovani- racconta Neva- e 45 su 50 sono di recente arrivo dalla Tunisia, sono persone fuggite dalla guerra civile per chiedere pace e giustizia e che ora si ritrovano, senza sapere il perche’, all’interno di un carcere e senza sapere come fare per ritrovare la liberta’ e per poter raggiungere i loro parenti in Francia o in altre citta’ italiane”.

Non appena sono entrati, i membri della delegazione, sono stati circondati dagli immigrati e da richieste di aiuto, di soccorso e di denuncia. “A nessuno dei 45 tunisini- spiega Neva- e’ stato detto che possono fare domanda di asilo politico”. “Stanno male o sono esauriti per le loro condizioni di incertezza e vengono dati loro farmaci che li fanno solo dormire- afferma- È uno stato tra la malattia fisica e l’esaurimento che porta poi all’autolesionismo”. Neva racconta anche che un ragazzo si e’ tagliato di fronte a loro ed e’ stato portato in infermeria.

“È sbalorditivo che persone che hanno questo tipo di recente passato siano rinchiusi in un centro come questo- continua- e abbiano come solo destino quello di diventare clandestini”. Dal Cie, infatti, non si esce se non con un provvedimento di espulsione. “Queste persone saranno dunque rilasciate sul territorio e andranno ad aggiungersi agli irregolari gia’ presenti- chiarisce – Si continua a produrre clandestinita’, anziche’ politiche di accoglienza”. “I Cie vanno chiusi”- conclude.

> Vai alla diretta con audio e video del blitz del Tpo di questa mattina al Cie di via Mattei.

> Leggi il racconto di Neva dello Sportello Migranti del Tpo sulla visita al Cie (da Global Project):

La prima volta che sono entrata in un centro di detenzione amministrativa per migranti è stato nel gennaio del 2002. Era l’ex caserma Chiarini di Bologna, in via Mattei. Per la verità il Centro di Permanenza Temporanea (CPT) non era ancora stato aperto, ma la struttura era praticamente completata e insieme alle mie compagne e compagni avevo deciso che l’opposizione a quella vergogna giuridica ed umana doveva passare attraverso un atto chiaro, che dicesse da solo che un carcere dove le persone vengono rinchiuse per quello che sono e non per i reati che hanno commesso era un abominio e come tale doveva essere cancellato. In 200 eravamo entrati scavalcando muri e cancelli, l’avevamo smontato pezzo per pezzo: gabbie, impianti elettrici, sanitari, telecamere…in poche ore avevamo reso inservibile un carcere etnico.

Da allora mille volte ci siamo trovati fuori da quel muro di cinta a contestare la funzione politica, economica e culturale di quel carcere “amministrativo”, che praticando la segregazione etnica ha legittimato lo sfruttamento della forza lavoro migrante, la stratificazione dei diritti e il diffondersi del razzismo. Durante una di queste iniziative, nell’aprile del 2004, siamo stati complici della fuga di 17 migranti. Le immagini dei migranti che fuggono in mezzo ai campi mentre il sole tramonta sono indelebili nei miei ricordi.

Altre tante volte ho ascoltato i migranti detenuti in Via Mattei raccontarci la disperazione, la sofferenza, la violenza della detenzione in quelle gabbie; ricordo che una volta, scossa dal colloquio telefonico con un signore marocchino rinchiuso da giorni nel CPT, ero andata a Cesena ad incontrare la moglie ed i figli da cui era stato separato perchè rimasto senza permesso, avevo bisogno di condividere con loro il dolore, ma soprattutto l’indignazione e la rabbia.

Invece ieri sono potuta entrare all’interno senza scavalcare, dall’ingresso principale, insieme alla delegazione composta dall’avvocato De Caro e dai Consiglieri Regionali Sconciaforni e Meo. Una notevole conquista, ottenuta grazie all’invasione del CIE (Centro d’Identificazione e Espulsione) nella mattinata da parte di un centinaio di compagne e compagni dei centri sociali del Veneto, delle Marche e della nostra regione.

Credevo di essere già rodata, dopo anni di colloqui con i migranti dentro e fuori i CIE, ampiamente preparata alla “visita”, ma mi sbagliavo di grosso.

Il luogo è di per sé alienante, un bunker fatiscente e squallido di cemento armato e sbarre. Persino i letti e gli armadietti sono in cemento armato, ancorati al pavimento ed ai muri. I bagni e le docce sono senza porte, i sanitari sono in acciaio. I migranti sono “liberi” di uscire dalla propria stanza che si affaccia su un cortile di asfalto recintato da sbarre molto alte, possono persino andare in una stanzetta, rigorosamente senza finestre, adibita a moschea (materassi di gommapiuma per terra), ma sempre sorvegliati a vista da polizia ed esercito. La presenza dell’esercito è una conseguenza della campagna contro il degrado e la sicurezza nelle città, una novità dall’agosto 2008.

Immediatamente mi hanno colpito la disperazione e la sofferenza piscologica dei giovani detenuti, costretti a ciondolare un giorno dopo l’altro in questo non-luogo perché una legge folle li condanna ad essere irregolari, li marchia con il reato di clandestinità, li punisce con la detenzione amministrativa e con il carcere (molti hanno scontato la pena in carcere per non essersi auto-espulsi quando hanno ricevuto il decreto di allontanamento). Un giovane magrebino mi dice che sta male, si taglia le vene davanti a me, i suoi compagni mi supplicano di guardare, régarde, régarde, mi indicano il sangue che sgocciola per terra. Subito arrivano due operatori della Misericordia per portarlo in infermeria, ma lui si oppone, mi chiama, mi dice che non ce la fa più, “aiuto, sono tossico”, mi dice. Non è il solo, almeno altri due ragazzi mi dicono che sono tossicodipendenti, che fuori erano seguiti dall’Unità Mobile del Sert. Moltissimi mi mostrano i polsi con le cicatrici di tagli recenti: c’est le stress, tu comprends, c’est le stress! Stress… io lo traduco con disperazione, esaurimento nervoso… vuol dire andare via di testa.

Nel reparto femminile ci sono quarantacinque donne, di ogni nazionalità. Stazionano al Cie da minimo un mese, molte da tre mesi. Ne incontro solo alcune, una badante cinquantenne in Italia da sette anni colpita da espulsione e così impossibilitata a tentare la lotteria del decreto flussi o la sanatoria. Giovani cinesi appena arrivate in Italia, un paio di ragazze marocchine, una giovane serba figlia di profughi della ex yugoslavia. Ma non riesco a fermarmi con loro, la visita deve continuare, mi sollecitano a proseguire dietro al direttore del centro e l’ispettore della polizia che ci guidano attraverso i reparti. Ma bastano tre minuti per capire che anche qui la situazione è al limite e loro stesse sono al limite, una ragazza è particolarmente sofferente, si regge per miracolo, mi prende in disparte e mi dice che è sieropositiva, mentre le altre mi indicano un’altra migrante, è sordo muta mi dicono. Come è possibile che un malato di Aids possa stare in un posto simile, senza assistenza, senza cure… e per una persona che non sente e non parla, il trattenimento in un Cie non equivale forse alla tortura?

Nel reparto maschile quasi tutti parlano francese, tante voci, tanti racconti, tante domande. Su cinquanta trattenuti nel reparto uomini, ben quarantacinque sono ragazzi tunisini arrivati in Italia dopo aver partecipato alle ribellioni contro il governo di Ben Ali. E sono increduli, non accettano che possano essere stati rinchiusi come delinquenti in un carcere, dopo aver rischiato la vita nelle piazze, sulla barca verso l’Italia. “Vogliamo solo la pace, la libertà. Perché ci tengono qui, cosa abbiamo fatto?”. Sembra che nessuno si sia preso la briga di parlare con loro e di dare spiegazioni. Dai racconti capisco che le procedure di trasferimento da Lampedusa a qui sono state sbrigative, che non sono stati informati nemmeno sulla possibilità di presentare domanda di protezione. Non mi stupisce, questi giovani arrivati dalla Tunisia sono stati trattati come pacchi, una massa da smistare nei vari centri, nessun colloquio individuale, nessuna analisi della loro condizione. Difficile comprendere su quali valutazioni siano stati trasferiti nei Cara (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo), o nei CIE, mentre nel frattempo altri con cui hanno fatto il viaggio in barca siano già arrivati in Francia ed hanno telefonato per dire che stanno bene.

I quarantacinque che incontro io sono appena arrivati, e sono già clandestini. Non verranno rimpatriati certo, ma saranno fatti uscire dal CIE con l’ordine di allontanarsi autonomamente dal territorio entro 5 giorni, come già successo ad altri tunisini passati in questi giorni da Via Mattei.

Davanti allo sconvolgimento epocale degli assetti politici e sociali dei paesi del sud del Mediterraneo ci ritroviamo ancora di fronte al paradosso delle politiche in materia di immigrazione: il Governo Italiano dichiara l’allarme irregolari e nello stesso tempo fabbrica seimila irregolari nuovi di zecca da “sversare” sul territorio. Seimila irregolari a vita, intrappolati nelle maglie di una legislazione che li mantiene irregolari e disperati. Sono appena arrivati in Italia, ma il processo di disumanizzazione è già cominciato, se un mese fa questi ragazzi erano nelle piazze a manifestare per la democrazia, oggi la loro forma di protesta è quella di incendiare il loro carcere e di spaccare le poche cose che non sono ancorate a terra per stabilire una connessione, un abbraccio, con chi da fuori vuole sgretolare i confini che ci separano.

E’ un girone infernale, le migranti ed i migranti che ho incontrato oggi sono condannati eternamente per l’unica colpa di essersi ribellati alla paura delle dittature e alla violenza delle frontiere, ma anche la nostra società vista dai muri del CIE mi appare senza nessuna speranza. Che futuro può esserci per una società che calpesta ed annulla le persone in questo modo, disintegrandone la dignità e la volontà? Quale relazione potranno desiderare di costruire con me, con noi, con questo paese le/i migranti dopo l’esperienza miserevole di segregazione per due, tre, sei mesi in un luogo orribile?

Sembra una relazione condannata a basarsi sull’odio.

Io però non voglio essere parte di questa condanna: la mia dignità e la mia volontà sono salde.

Dopo questo primo marzo con i detenuti del CIE mi sembra ancora più urgente ritrovarsi ed organizzarsi tra “indisponibili all’indifferenza”, per ideare e sperimentare nuove forme di un rifiuto concreto e reale ad un orizzonte di divisioni e ingiustizie che insistono ad imporci come normalità

Neva, Sportello Migranti TPO